Convivenza, matrimonio, castità: ragioni di una scelta
In un articolo pubblicato a giugno sul sito americano Crisis magazine, l’autore Ryan Topping affronta con toni molto simpatici alcuni fra i temi più delicati della nostra epoca: la convivenza, la castità ed il matrimonio.
L’autore si sofferma solo brevemente sulle implicazioni logistiche dei preparativi al matrimonio (lista di nozze, elenco degli invitati, organizzazione della cerimonia, ecc.), per passare subito ad una serie di domande e risposte da lui raccolte negli anni in cui, insieme alla moglie, ha preparato molte coppie alle nozze. Proprio la convivenza è il tema centrale della prima domanda: “Giacché molte coppie sembrino essere felici di vivere insieme, cosa aggiungerebbe il matrimonio ad una gioia già condivisa?” A questo punto l’autore elenca una serie di statistiche (le fonti sull’articolo originale) che suggeriscono gli evidenti vantaggi del matrimonio.
Un numero sempre maggiore di persone crede, tuttavia, che la convivenza abbia anche un vantaggio economico. A questo riguardo non è un caso se, negli Stati Uniti, dal 1970 ad oggi il numero dei conviventi sia salito da mezzo milione a 5 milioni di americani. Spiega l’autore: “Lungi dal rafforzare il vostro rapporto, se si va a convivere prima del matrimonio si avranno più probabilità di rompere la relazione. Una coppia di conviventi ha, infatti, il doppio delle possibilità di separarsi rispetto ad una sposata. Uno studio recente ha inoltre rivelato che il 50% dei figli con genitori conviventi ha visto la fine della relazione tra i due partner rispetto al 15% dei bambini nati da una coppia di coniugi. La verità è semplice: vivere insieme è difficile, soprattutto durante i primi anni. Senza un impegno preso in pubblico, permanente ed esclusivo, si hanno meno probabilità di farcela”.
Quest’ultima affermazione ci rimanda ad un recente articolo apparso sul sito della Nuova Bussola Quotidiana. In poche righe l’autore orienta il nostro sguardo sulle fondamenta della società italiana, spiegando perché l’unica forma legittima di unione contemplata dalla Costituzione sia quella matrimoniale. Ma perché la convivenza intaccherebbe il bene comune? Scrive Tommaso Scandroglio: “Prima di tutto perché la convivenza per sua natura è un legame precario: metà di loro finirà entro un anno dalla nascita (Demography, 2006). Ciò non deve stupire dato che le coppie di fatto fanno della “prova” il cuore pulsante della convivenza e infatti escludono l’indissolubilità e l’esclusività del rapporto, le due proprietà che invece appartengono all’istituto del matrimonio. Se non le escludessero si sposerebbero, pare cosa evidente. Quindi le convivenze instaurano relazioni precarie e da ciò consegue che tutti i rapporti sociali, giuridici ed economici che derivano dalla convivenza sono anch’essi a rischio: contratti di locazione, mutui a due, cointestazione conti correnti, etc. Pensiamo anche al caso di un convivente che abbandona la partner e quest’ultima dipendeva economicamente dal suo compagno (nel matrimonio ha rilievo giuridico l’ingiusto abbandono del tetto coniugale, cioè è un dovere la co-abitazione tra coniugi, non così per i conviventi): ciò provocherà danni sociali ed economici che si rifletteranno anche sulla collettività. Lo Stato esige solidità dei rapporti tra i consociati perché questa solidità si riverbera su tutto il consesso sociale: la convivenza non garantisce per nulla questa stabilità di rapporti ed è quindi da scoraggiare”.
Secondo l’autore, inoltre, la convivenza non offrirebbe alcuna garanzia sull’educazione degli eventuali figli nati in seno a tale rapporto: “Tre bambini su quattro sperimentano la rottura della relazione prima di arrivare ai 16 anni di età (National Marriage Project – Rutgers University, New Jersey). Lo studio inoltre ci informa che questi bambini soffrono di seri disordini psicologici: asocialità, depressione, ansia, difficoltà di concentrazione, meno bravi a scuola (abbandono scolastico, anni ripetuti), attività sessuale precoce. E tutto ciò non è un buon guadagno per la società, soprattutto quando questi ragazzi fragili diventeranno un giorno adulti fragili, cioè cittadini-professionisti fragili. Quindi è per questo motivo che il nostro diritto di famiglia – eccetto alcuni diritti a cui abbiamo fatto cenno – rimane matrimonio-centrico. Perché solo la relazione coniugale fa bene alla persona – coniugi e figli – e fa bene alla società. Il nostro ordinamento cioè spinge verso il matrimonio e scoraggia altri tipi di unioni perché perniciose per la società. Riconoscere, non diciamo le unioni di fatto, ma anche solo i diritti dei conviventi è già erroneo perché favorisce le unioni di fatto e quindi favorisce la precarietà sociale”.
Ritornando al primo articolo preso in esame, credo sia interessante soffermarsi su altre questioni (troppo spesso taciute) sollevate dall’autore. In un’altra domanda una coppia chiedeva: “In gioventù frequentavamo l’ambiente parrocchiale, ma negli anni dell’università non abbiamo più praticato. Ci chiediamo se da sposati dovremmo ricominciare a seguire le funzioni liturgiche”. Per rispondere viene citata un’indagine condotta in America nel biennio 2010-2011. Secondo lo studio le coppie sposate con figli in cui entrambi i genitori concordano sul fatto che Dio è al centro del loro matrimonio hanno almeno il 26% in più di probabilità di sperimentare un rapporto molto sereno rispetto alle coppie che non condividono questo valore.
E per quanto riguarda il divorzio, l’autore tiene a precisare che farlo “per il bene dei figli” non è altro che una sciocca scusa. Secondo un’indagine retrospettiva condotta da Scientific American, le persone i cui genitori si sono separati quando erano giovani hanno più difficoltà a formare e mantenere relazioni affettive, una maggiore insoddisfazione matrimoniale ed un tasso più elevato di divorzio. Un bambino cresciuto da una madre non sposata ha inoltre un rischio sette volte maggiore di essere povero: in altre parole i bambini che non hanno genitori coniugati rappresentano il 27% di tutti i bambini degli Stati Uniti ed il 62% di tutti i bambini in stato di povertà. Continua Topping: “I figli di una mamma single sono meno sicuri rispetto agli altri bambini: un bambino che vive solo con sua madre ha una probabilità 14 volte maggiore di subire abusi rispetto ad un bambino che vive con genitori sposati, mentre un bambino la cui madre convive con un uomo che non è il suo padre biologico ha un rischio 33 volte più alto di soffrire per gravi violenze fisiche”.
Un altro tema su cui l’autore si sofferma è quello della sessualità, in particolare il controllo delle nascite. Chiede una coppia: “Vorremmo aspettare uno o due anni prima di avere un figlio: sia la pillola che i metodi naturali hanno lo scopo di evitare una gravidanza, qual è, dunque, la loro differenza?” Come spiega Ryan Topping, la questione non sta nel “fine” che si vuole raggiungere, ma nel “mezzo” utilizzato. Su questo sito abbiamo più volte espresso la posizione della Chiesa in termini di contraccezione. In un articolo di un anno fa, ad esempio, citavamo lo stralcio di un discorso tenuto da Giovanni Paolo II in occasione dell’Angelus domenicale. Il Papa ha spiegato che in tema di procreazione e sessualità il pensiero della Chiesa non è, come purtroppo si pensa sempre di più, l’invito ad una fecondità esagerata.
“Nella generazione della vita – ha spiegato Papa Wojtyla -gli sposi realizzano una delle dimensioni più alte della loro vocazione: sono collaboratori di Dio. Proprio per questo sono tenuti ad un atteggiamento estremamente responsabile. Nel prendere la decisione di generare o di non generare gli sposi devono lasciarsi ispirare non dall’egoismo né dalla leggerezza ma da una generosità prudente e consapevole, che valuta le possibilità e le circostanze, e soprattutto che sa porre al centro il bene stesso del nascituro. Quando dunque si ha motivo per non procreare [il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di “validi motivi”, che non siano, quindi, frutto di egoismo, nda] questa scelta è lecita, e potrebbe persino essere doverosa. Resta però anche il dovere di realizzarla con criteri e metodi che rispettino la verità totale dell’incontro coniugale nella sua dimensione unitiva e procreativa, quale è sapientemente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici. Essi possono essere assecondati e valorizzati, ma non violentati con artificiali interventi”. Per un ulteriore approfondimento sulla reale posizione della Chiesa in tema di fecondità coniugale, rimando al sito della Confederazione Italiana dei centri per la Regolazione Naturale della Fertilità.
Il matrimonio è certamente un balzo nel vuoto, l’atto coraggioso che scaturisce da una fede profonda. E benché nell’attuale contesto socio-economico anche le coppie cristiane si possano sentire scoraggiate nella certezza di un amore “per tutta la vita”, la Chiesa non ha mai smesso di proporre strumenti adeguati al discernimento delle anime. L’esempio peculiare è chiaramente quello della castità prematrimoniale, valore ormai dimenticato anche da molti cattolici.
Eppure l’esercizio della continenza è una virtù che porta molto frutto perché educa a considerare l’altro per quello che è, e non per quello che noi vorremmo che fosse. Lungi dal rivelarsi deludente, escludere il sesso da un rapporto di coppia sarebbe dunque una strategia imprescindibile per prepararsi al matrimonio. Interessante a questo riguardo un recente articolo pubblicato sul portale Zenit. Scrive l’autore:“Attualmente il “permissivismo” morale è enorme. L’“educazione sessuale” trasmessa dai mezzi di comunicazione di massa, ma anche dalla scuola, dice: “Fa’ ciò che vuoi, sia con preservativi sia senza, di nascosto, senza dire nulla ai tuoi genitori”. Per vincere questo ambiente così ostile e irresponsabile è necessaria una vera educazione alla castità, a protezione appunto dell’autentico amore. E il periodo di fidanzamento serve a questo: per far crescere la coppia nella reciproca conoscenza è indispensabile elaborare progetti comuni, al fine di raggiungere virtù indispensabili alla vita matrimoniale. Se la coppia vive bene questo periodo, senza giungere ad avere intimità tipiche della vita matrimoniale, si formerà nella scuola della fedeltà. In altre parole, si manterrà una maggiore fedeltà all’interno del matrimonio, se se si è conservata la purezza del legame durante il fidanzamento. […] Attualmente le persone “usano” il sesso come se fosse un gioco. E cosa succede? Ogni volta sempre meno persone riescono a raggiungere l’opportunità di scelte definitive e sempre meno persone si sposano. L’atto matrimoniale, al quale Dio volle unire anche un piacere sensibile, deve produrre un piacere superiore, di natura spirituale: la gioia, cioè, di sapersi uniti alla volontà di Dio”.