I racconti di Bruno Ferrero (e non solo)


Ho già raccolto in un precedente post i racconti di Bruno Ferrero (salesiano, 1946) sul Natale. Ora ho trovato altri racconti raccolti nel sito della Parrocchia di Piumazzo (non solo di Bruno Ferrero) e, del nostro autore, nel sito di Qumran e in quello della Parrocchia di Santa Maria del Pozzo (Ardore Marina, Reggio Calabria), di cui riporto le prime storie:
LA VISITAUn giorno, in una parrocchia, arrivò un messaggio direttamente dal Paradiso.
«Questa sera verrò a farvi visita. Gesù».
Il parroco si affrettò ad annunciarlo a tutti e la gente arrivò in massa per vederlo.
Tutti si aspettavano da Gesù una bella predica, ma egli si limitò a sorridere al momento delle presentazioni e disse: «Buonasera».
Erano tutti disposti a ospitarlo per la notte, soprattutto il parroco, ma egli rifiutò gentilmente l’invito e disse che avrebbe trascorso la notte in chiesa.
Cosa che tutti approvarono.
Egli se ne andò senza far rumore l’indomani mattina presto, prima che venissero aperte le porte della chiesa.
Quando tornarono, il parroco e gli altri scoprirono che la chiesa era stata oggetto di atti di vandalismo.
Dovunque sulle pareti era scarabocchiata una parola.
Sempre la stessa: attenzione.
Non un solo angolo era stato risparmiato: le porte, le finestre, le colonne, il pulpito, l’altare, persino la Bibbia che stava sul leggio.
Attenzione.
Incisa a grandi e piccole lettere, con i pennarelli, a penna, con lo spray e dipinta in tutti i colori possibili.
Dovunque l’occhio si posasse, si potevano scorgere le parole: «Attenzione, attenzione, attenzione, attenzione, attenzione, attenzione...».

Quando fu vicino alla città, Gesù la guardò e si mise a piangere per lei.
Diceva: «Gerusalemme, se tu sapessi, almeno oggi, quel che occorre alla tua pace! Ma non riesci a vederlo!» (Luca 19,41-42).
Gesù piange sul nostro mondo.
Piange sulla Palestina, l’Indonesia, l’Iraq, l’Italia.
Piange sui nostri paesi dove regnano l’indifferenza, l’ingiustizia, la violenza.
Piange su tutti quelli che vanno in chiesa, ma pensano ad altro...


MORTO O VIVO?
Un giorno d’estate, il nipotino di un famoso scienziato, si presentò al nonno.
Nella mano, che teneva nascosta dietro la schiena, il ragazzino stringeva un uccellino che aveva preso nella voliera del giardino.
Con gli occhi sprizzanti di maliziosa furbizia chiese al nonno: «Il canarino che ho nella mia mano è morto o vivo?».
«Morto», rispose il saggio.
Il ragazzo aprì la mano e ridendo lasciò scappare l’uccellino che prese immediatamente il volo.
«Hai sbagliato!» rise.
Se il nonno avesse risposto: «Vivo», il ragazzo avrebbe stretto il pugno e soffocato l’uccellino.
Il saggio guardò il nipotino e disse: «Vedi, la risposta era nella tua mano!».
La morte o la vita eterna sono nelle nostre mani.
Anche le scelte più piccole e semplici che oggi farai determineranno il tuo destino eterno.


«SEI UN PELLEGRINO IN VIAGGIO,
MA PROVA A GODERTI IL VIAGGIO»
Una mia ex-studentessa, una ragazza tranquilla e riservata, venne a trovarmi. Chiacchierammo per un po', quindi le domandai se stava utilizzando il suo diploma di infermiera. «No», rispose. «Vede, sto morendo. Ho la leucemia e sono in fase terminale». Naturalmente, rimasi senza fiato. Quando mi ripresi dall'emozione, chiesi a Betty che cosa provasse: «Che cosa si prova a ventiquattro anni, quando pensi che hai davanti tutta la vita e all'improvviso ti metti a contare i giorni che ti restano?». Col suo solito atteggiamento riservato e sereno, mi rispose: «Forse non riuscirò a spiegarmi, ma questi sono i giorni più felici della mia vita. Quando pensi di avere tanti anni davanti è facile rimandare le cose. Uno dice a se stesso: «Mi fermerò e annuserò il profumo dei fiori la prossima primavera». Ma quando sai che i giorni della tua vita sono limitati, ti fermi ad annusare il profumo dei fiori e a sentire il calore dei raggi solari proprio oggi. A causa della malattia di cui soffro, ho subìto numerosi prelievi del midollo spinale. E' un procedimento doloroso, ma il mio ragazzo mi stava vicino e mi teneva la mano. Credo che fossi più consapevole del conforto della sua mano nella mia che dell'ago inserito nel mio midollo spinale».
Parlammo a lungo della morte e delle prospettive che essa apre. Avevo sempre sentito dire che non si potrebbe vivere in pienezza se non si sapesse che la vita un giorno o l'altro finirà. Betty mi aiutò a capire questa verità. Adesso è morta, la leucemia se l' è presa. Grazie a lei ho capito che è indispensabile godere di tutte le cose buone di questa vita. Era come se Dio mi stesse dicendo attraverso di lei: «Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio». 


IL RE CHE NON SAPEVA ASCOLTARE
C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: «Va bene, va bene, ho capito! Ti credo! Guardie, dategli mille monete d’oro».
Oppure: «Basta, basta, non ti credo! Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui».
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.
I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.
Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente: «Papà, guarda questo...», il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava: «Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro...».
Se il principino Roberto osava chiedere: «Dove vanno quelli che muoiono?» il regale papà lo zittiva dicendo: «Piantala con queste stupidaggini!».
Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione: «Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno? Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla! Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!».
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.
Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.
Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.
Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.
Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di «terra» capiva «guerra» , se dicevano «doni» pensava ai «cannoni».
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.
Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.
Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
«Riconosci i tuoi errori?» gli chiese, scuro in volto.
Il re annuì.
«E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?».
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero: «Ti vogliamo bene».
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

«Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile:
sono diventati duri d’orecchi,
hanno chiuso gli occhi,
per non vedere con gli occhi,
per non sentire con gli orecchi,
per non comprendere con il cuore...»
 (dal profeta Isaia).


IL FORESTIERO
C’era una volta un uomo seduto ai bordi di un’oasi all’entrata di una città del Medio Oriente.
Un giovane si avvicinò e gli domandò: «Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?».
Il vecchio gli rispose con una domanda: «Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?».
«Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là».
«Così sono gli abitanti di questa città» gli rispose il vecchio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all’uomo e gli pose la stessa domanda: «Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?».
L’uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: «Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?».
«Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli».
«Anche gli abitanti di questa città sono così» rispose il vecchio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all’abbeveraggio aveva udito le conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò si rivolse al vecchio in tono di rimprovero: «Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?».
«Figlio mio», rispose il vecchio, «ciascuno porta il suo universo nel cuore. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui. Al contrario, colui che aveva degli amici nell’altra città troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in loro».

Si trova sempre ciò che si cerca.


LA MOGLIE PERFETTA
Mulla Nasrudin era seduto nel negozio del tè quando arrivò un vicino per parlare con lui.
«Sto per sposarmi, Mulla», gli disse l’amico, «e sono molto eccitato. Tu non hai mai pensato di sposarti?».
Nasrudin rispose: «Sì, ci ho pensato. Quand’ero giovane lo desideravo molto. Volevo trovare la moglie perfetta. Mi sono messo in viaggio per cercarla e sono andato a Damasco. Là ho incontrato una bella donna piena di grazia, gentile e molto spirituale, ma che non conosceva il mondo. Allora mi sono rimesso in viaggio e sono andato a Isphahan. Là ho incontrato una donna che era sia spirituale che mondana, bella sotto molti punti di vista, ma non  riuscivamo a comunicare. Alla fine sono andato al Cairo e dopo molte ricerche l’ho trovata. Era profonda di spirito, piena di grazia, bella sotto tutti i punti di vista, a suo agio sia nel mondo che nei regni che lo trascendono.
Sentivo di aver trovato la moglie perfetta».
L’amico gli fece un’altra domanda: «Allora perché non l’hai sposata, Mulla?».
«Ahimè» disse Nasrudin scuotendo la testa, «anche lei stava cercando il marito ideale».

(I) Uno scapolo chiese al computer di trovargli la compagna perfetta:
«Voglio una ragazza piccina e graziosa, che ami gli sport acquatici e le attività di gruppo».
E il computer rispose: «Sposa un pinguino».

(II) Amare significa accogliere un «altro» con il suo modo di essere, la sua diversità, i suoi difetti, non la copia di qualche nostro stupido sogno.
Il marito perfetto è quello che non vuole una moglie perfetta.


SGUARDI
Il santo curato d’Ars incontrava spesso in chiesa un semplice contadino della sua parrocchia.
Inginocchiato davanti al tabernacolo, il brav’uomo rimaneva per ore immobile, senza muovere le labbra.
Un giorno, il parroco gli chiese: «Cosa fai qui così a lungo?».
«Semplicissimo. Egli guarda me ed io guardo Lui».
Puoi andare al tabernacolo così come sei.
Con il tuo carico di paure, incertezze, distrazioni, confusione, speranze e tradimenti.
Avrai una risposta straordinaria: «Io sono qui!».
«Che ne sarà di me, dal momento che tutto è così incerto?».
«Io sono qui!».
«Non so cosa rispondere, come reagire, come decidermi nella situazione difficile che mi attende».
«Io sono qui!».
«La strada è così lunga, io sono così piccolo e stanco e solo...».
«Io sono qui!».


IL VECCHIO VIOLINO
Ad una vendita all’asta, il banditore sollevò un violino.
Era graffiato e scheggiato.
Le corde pendevano allentate e il banditore pensava non valesse la pena perdere tanto tempo con il vecchio violino, ma lo sollevò con un sorriso.
«Che offerta mi fate, signori?» gridò. «Partiamo da... 100 euro!».
«Centocinque!» disse una voce. Poi centodieci.
«Centoquindici!» disse un altro. Poi centoventi.
«Centoventi euro, uno; centoventi euro, due; centoventi euro...».
Dal fondo della stanza un uomo dai capelli grigi avanzò e prese l’archetto.
Con il fazzoletto spolverò il vecchio violino, tese le corde allentate, lo impugnò con energia e suonò una melodia pura e dolce come il canto degli angeli.
Quando la musica cessò, il banditore, con una voce calma e bassa, disse: «Quanto mi offrite per il vecchio violino?».
E lo sollevò insieme con l’archetto.
«Mille euro, e chi dice duemila? Duemila! E chi dice tremila?
Tremila, uno; tremila, due; tremila e tre, aggiudicato» disse il banditore.
La gente applaudì, ma alcuni chiesero: «Che cosa ha cambiato il valore del violino?».
Pronta giunse la risposta: «Il tocco del Maestro».


LA MELA
Ogni mattina, il potente e ricchissimo re di Bengodi riceveva l’omaggio dei suoi sudditi.
Aveva conquistato tutto il conquistabile e si annoiava un po’.
In mezzo agli altri, puntuale ogni mattina, arrivava anche un silenzioso mendicante, che porgeva al re una mela.
Poi, sempre in silenzio, si ritirava.
Il re, abituato a ricevere ben altri regali, con un gesto un po’ infastidito, accettava il dono, ma appena il mendicante voltava le spalle cominciava a deriderlo, imitato da tutta la corte.
Il mendicante non si scoraggiava.
Tornava ogni mattina a consegnare nelle mani del re il suo dono.
Il re lo prendeva e lo deponeva macchinalmente in una cesta posta accanto al trono.
La cesta conteneva tutte le mele portate dal mendicante con gentilezza e pazienza.
E ormai straripava.
Un giorno, la scimmia prediletta del re prese uno di quei frutti e gli diede un morso, poi lo gettò sputacchiando ai piedi del re.
Il sovrano, sorpreso, vide apparire nel cuore della mela una perla iridescente.
Fece subito aprire tutti i frutti accumulati nella cesta e trovò all’interno di ogni mela una perla.
Meravigliato, il re fece chiamare lo strano mendicante e lo interrogò.
«Ti ho portato questi doni, sire» rispose l’uomo, «per farti comprendere che la vita ti offre ogni mattina un regalo straordinario, che tu dimentichi e butti via, perché sei circondato da troppe ricchezze.
Questo regalo è il nuovo giorno che comincia».

Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento: a che serve essere tristi, a che serve?
Perché soffia un vento cattivo?
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani?
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento; e ad ogni amaro giorno dirò: Da domani, sarò triste.
Oggi no (Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941).


LA SCALA
Un bambino giocava a «fare il prete» insieme ad un coetaneo, sulle scale della sua casa.
Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare.
Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: «Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!».
Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare.
A questo punto il bambino si imbronciò per un attimo.
Poi, illuminandosi, salì sul gradino più alto e rispose: «Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio».

Dio invece è sceso. E ha dato la sua vita.


UNA VITA NASCOSTA
Figlio di una ragazza madre, era nato in un oscuro villaggio.
Crebbe in un altro villaggio, dove lavorò come falegname fino a trent’anni.
Poi, per tre anni, girò la sua terra predicando.
Non scrisse mai un libro.
Non ottenne mai una carica pubblica.
Non ebbe mai né una famiglia né una casa.
Non frequentò l’università.
Non si allontanò più di trecento chilometri da dov’era nato.
Non fece nessuna di quelle cose che di solito si associano al successo.
Non aveva altre credenziali che se stesso.
Aveva solo trentatré anni quando l’opinione pubblica gli si rivoltò contro.
I suoi amici fuggirono.
Fu venduto ai suoi nemici e subì un processo che era una farsa.
Fu inchiodato a una croce, in mezzo a due ladri.
Mentre stava morendo, i suoi carnefici si giocavano a dadi le sue vesti,
che erano l’unica proprietà che avesse in terra.
Quando morì venne deposto in un sepolcro messo a disposizione da un amico mosso a pietà.
Due giorni dopo, quel sepolcro era vuoto.

Sono trascorsi venti secoli e oggi Egli è la figura centrale nella storia dell’umanità.
Neppure gli eserciti che hanno marciato, le flotte che sono salpate,
i parlamenti che si sono riuniti, i re che hanno regnato,
i pensatori e gli scienziati messi tutti assieme,
hanno cambiato la vita dell’uomo sulla terra quanto quest’unica vita nascosta.

Quest'unica vita nascosta in un dischetto di pane.


LA PROPAGANDA
Al tempo della propaganda antireligiosa, in Russia, un commissario del popolo aveva presentato brillantemente le ragioni del successo definitivo della scienza.
Si celebrava il primo viaggio spaziale.
Era il momento di gloria del primo cosmonauta, Gagarin.
Ritornato sulla terra, aveva affermato che aveva avuto un bel cercare in cielo: Dio proprio non l’aveva visto.
Il commissario tirò la conclusione proclamando la sconfitta definitiva della religione.
Il salone era gremito di gente.
La riunione era ormai alla fine.
«Ci sono delle domande?».
Dal fondo della sala un vecchietto che aveva seguito il discorso con molta attenzione disse sommessamente: «Christòs ànesti», «Cristo è risorto».
Il suo vicino ripeté, un po’ più forte: «Christòs ànesti».
Un altro si alzò e lo gridò; poi un altro e un altro ancora.
Infine tutti si alzarono gridando: «Christòs ànesti», «Cristo è risorto».
Il commissario si ritirò confuso e sconfitto.

Al di là di tutte le dottrine e di tutte le discussioni, c’è un fatto.
Per la sua descrizione basterà sempre un francobollo: Christòs ànesti.
Tutto il cristianesimo vi è condensato.
Un fatto: non si può niente contro di esso.
I filosofi possono disinteressarsi del fatto.
Ma non esistono altre parole capaci di dar slancio all’umanità: Gesù è risorto.


LA PIETRA AZZURRA
Il gioielliere era seduto alla scrivania e guardava distrattamente la strada attraverso la vetrina del suo elegante negozio.
Una bambina si avvicinò al negozio e schiacciò il naso contro la vetrina.
I suoi occhi color del cielo si illuminarono quando videro uno degli oggetti esposti.
Entrò decisa e puntò il dito verso uno splendido collier di turchesi azzurri.
«È per mia sorella. Può farmi un bel pacchetto regalo?».
Il padrone del negozio fissò incredulo la piccola cliente e le chiese: «Quanti soldi hai?».
Senza esitare, la bambina, alzandosi in punta di piedi, mise sul banco una scatola di latta, la aprì e la svuotò.
Ne vennero fuori qualche biglietto di piccolo taglio, una manciata di monete, alcune conchiglie, qualche figurina.
«Bastano?» disse con orgoglio. «Voglio fare un regalo a mia sorella più grande. Da quando non c’è più la nostra mamma, è lei che ci fa da mamma e non ha mai un secondo di tempo per se stessa. Oggi è il suo compleanno e sono certa che con questo regalo la farò molto felice. Questa pietra ha lo stesso colore dei suoi occhi».
L’uomo entra nel retro e ne riemerge con una stupenda carta regalo rossa e oro con cui avvolge accuratamente l’astuccio.
«Prendilo» disse alla bambina. «Portalo con attenzione».
La bambina partì orgogliosa tenendo il pacchetto in mano come un trofeo.
Un’ora dopo entrò nella gioielleria una bella ragazza con la chioma color miele e due meravigliosi occhi azzurri.
Posò con decisione sul banco il pacchetto che con tanta cura il gioielliere aveva confezionato e dichiarò: «Questa collana è stata comprata qui?».
«Sì, signorina».
«E quanto è costata?».
«I prezzi praticati nel mio negozio sono confidenziali: riguardano solo il mio cliente e me».
«Ma mia sorella aveva solo pochi spiccioli. Non avrebbe mai potuto pagare un collier come questo!».
Il gioielliere prese l’astuccio, lo chiuse con il suo prezioso contenuto, rifece con cura il pacchetto regalo e lo consegnò alla ragazza.
«Sua sorella ha pagato. Ha pagato il prezzo più alto che chiunque possa pagare: ha dato tutto quello che aveva».

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio perché chi crede in lui non muoia ma abbia vita eterna» (Giovanni 3,16).



L’UOMO NEL POZZO
Un uomo cadde in un pozzo da cui non riusciva a uscire.
Una persona di buon cuore che passava di là disse: «Mi dispiace davvero tanto per te. Partecipo al tuo dolore».
Un politico impegnato nel sociale che passava di là disse: «Era logico che, prima o poi, qualcuno ci sarebbe finito dentro».
Un pio disse: «Solo i cattivi cadono nei pozzi».
Uno scienziato calcolò come aveva fatto l’uomo a cadere nel pozzo.
Un politico dell’opposizione si impegnò a fare un esposto contro il governo.
Un giornalista promise un articolo polemico sul giornale della domenica dopo.
Un uomo pratico gli chiese se erano alte le tasse per il pozzo.
Una persona triste disse: «Il mio pozzo è peggio!».
Un umorista sghignazzò: «Prendi un caffè che ti tira su!».
Un ottimista disse: «Potresti star peggio».
Un pessimista disse: «Scivolerai ancora più giù».
Gesù, vedendo l’uomo, lo prese per mano e lo tirò fuori dal pozzo.


IL PIU' GRANDE BISOGNO DEL MONDO
Un po’ più di gentilezza e un po’ meno avidità;
Un po’ più dare e un po’ meno pretendere;
Un po’ più sorrisi e un po’ meno smorfie;
Un po’ meno calci a chi è steso per terra;
Un po’ più «noi» e un po’ meno «io»;
Un po’ più risate e un po’ meno pianti;
Un po’ più fiori sulla strada della vita;
E un po’ meno sulle tombe.


ALLA FINE DEI TEMPI
Alla fine dei tempi, miliardi di persone furono portate su di una grande pianura davanti al trono di Dio.
Molti indietreggiarono davanti a quel bagliore.
Ma alcuni in prima fila parlarono in modo concitato.
Non con timore reverenziale, ma con fare provocatorio.
«Può Dio giudicarci? Ma cosa ne sa lui della sofferenza?», sbottò una giovane donna.
Si tirò su una manica per mostrare il numero tatuato di un campo di concentramento nazista.
«Abbiamo subìto il terrore, le bastonature, la tortura e la morte!».
In un altro gruppo un giovane nero fece vedere il collo. «E che mi dici di questo?», domandò mostrando i segni di una fune. «Linciato. Per nessun altro crimine se non per quello di essere un nero».
In un altro schieramento c’era una studentessa in stato di gravidanza con gli occhi consumati. «Perché dovrei soffrire?» mormorò. «Non fu colpa mia».
Più in là nella pianura c’erano centinaia di questi gruppi.
Ciascuno di essi aveva dei rimproveri da fare a Dio per il male e la sofferenza che Egli aveva permesso in questo mondo.
Come era fortunato Dio a vivere in un luogo dove tutto era dolcezza e splendore, dove non c’era pianto né dolore, fame o odio.
Che ne sapeva Dio di tutto ciò che l’uomo aveva dovuto sopportare in questo mondo? Dio conduce una vita molto comoda, dicevano.
Ciascun gruppo mandò avanti il proprio rappresentante, scelto per aver sofferto in misura maggiore.
Un ebreo, un nero, una vittima di Hiroshima, un artritico orribilmente deformato, un bimbo cerebroleso.
Si radunarono al centro della pianura per consultarsi tra loro.
Alla fine erano pronti a presentare il loro caso.
Era una mossa intelligente.
Prima di poter essere in grado di giudicarli, Dio avrebbe dovuto sopportare tutto quello che essi avevano sopportato.
Dio doveva essere condannato a vivere sulla terra.
«Fatelo nascere ebreo. Fate che la legittimità della sua nascita venga posta in dubbio. Dategli un lavoro tanto difficile che, quando lo intraprenderà, persino la sua famiglia pensi che debba essere impazzito. Fate che venga tradito dai suoi amici più intimi. Fate che debba affrontare accuse, che venga giudicato da una giuria fasulla e che venga condannato da un giudice codardo. Fate che sia torturato. Infine, fategli capire che cosa significa sentirsi terribilmente soli. Poi fatelo morire. Fatelo morire in un modo che non possa esserci dubbio sulla sua morte. Fate che ci siano dei testimoni a verifica di ciò».
Mentre ogni singolo rappresentante annunciava la sua parte di discorso, mormorii di approvazione si levavano dalla moltitudine delle persone riunite.
Quando l’ultimo ebbe finito ci fu un lungo silenzio.
Nessuno osò dire una sola parola.
Perché improvvisamente tutti si resero conto che Dio aveva già rispettato tutte le condizioni.


UN RAGAZZO MIOPE
Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui. Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, questi ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quindi, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui. Così, il ragazzo era cresciuto nell'unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia. Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leggere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le lezioni. E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampioni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.
Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista. Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive. Trovate quelle più adatte, invitò il giovane a guardare fuori dalla finestra. «Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; vedeva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali. Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita». Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui iniziai a credere in Gesù. Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stesso come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre. Questa fu una grande svolta, l'esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita. Fu come l'inizio di una vita nuova. So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».


I GESSETTI COLORATI
Nessuno sapeva quando quell’uomo fosse arrivato in città.
Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all’uomo.
Qualcuno gettava una moneta sul disegno. Qualche volta si fermavano e gli parlavano.
Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che Facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare...
L’uomo ascoltava.
Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l’uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene.
Si riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano.
Lo guardavano ed aspettavano.
«Lasciaci qualcosa. Per ricordare...».
L’uomo mostrava le sue mani vuote: che cosa poteva donare?
Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l’uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente.
Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.
Che cosa fece la gente dei gessetti colorati?
Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.

È venuto un Uomo ed ha lasciato anche a te la possibilità di colorare il mondo. Tu che hai fatto dei tuoi gessetti?


40 GIORNI NEL DESERTO
Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.
Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.
L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”
“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.


ANGELI SMEMORATI
Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!
“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:
“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”!


I FIGLI DEL RAGNO
Appena arrivati nella casa di montagna, la mamma di Marco, 4 anni, comincia a dar la caccia ai ragni che hanno fatto ragnatele dappertutto.
Marco allora interviene: «I ragnini piccoli non ammazzarli».
E la mamma: «Ma non vedi come sono brutti?».
E lui: «Ma per le loro mamme sono tanto carini».

«Dio è un papà che vuol bene come una mamma», ha detto una bambina al catechismo.
Forse non trovi in te stesso tante cose che ti piacciono.
Ma per Dio sei la creatura più bella dell’Universo.


LA TENTAZIONE
In una giornata estiva molto calda, un bracciante agricolo ricevette l'ordine di vangare il giardino del suo padrone.
Si mise al lavoro di malavoglia, e cominciò ad inveire contro Adamo che, a suo parere, era l'unico responsabile di ogni sfruttamento.
Le sue bestemmie e imprecazioni giunsero all'orecchio del padrone.
Il quale gli si avvicinò e gli disse: «Ma perché inveisci contro Adamo? Scommetto che al suo posto avresti fatto la stessa cosa».
«No di certo», rispose il bracciante, «io avrei resistito alla tentazione!».
«Vedremo!» disse il padrone e lo invitò a pranzo.
All'ora stabilita, il badilante si presentò in casa del padrone e questi lo introdusse in una saletta dove c'era una tavola imbandita con ogni ben di Dio.
«Puoi mangiare tutto quanto vuoi» disse l'uomo al suo dipendente. «Soltanto la zuppiera coperta al centro della tavola non la devi toccare finché non torno».
Il badilante non aspettò neppure un minuto: si sedette al tavolo e con il suo formidabile appetito cominciò ad assaggiare una dopo l'altra le leccornie che gli venivano servite.
Alla fine il suo sguardo fu magnetizzato dalla zuppiera.
La curiosità lo fece quasi ammattire, tanto che alla fine non resistette più e, con la massima circospezione, sollevò appena appena il coperchio che copriva la zuppiera.
Saltò fuori un sorcio.
Il badilante fece l'atto di acciuffarlo, ma il topo gli sgusciò di mano.
Iniziò la caccia, mentre il giovane rovesciava tavoli e sedie.
Il gran baccano richiamò il padrone.
«Hai visto?» chiese, e ridendo lo minacciò:
«Al tuo posto, in futuro, non imprecherei più a voce alta contro Adamo e il suo errore!».

«Ma io no! Io sono diverso! Io non mi sarei certamente comportato così!».
«Quanto sei stato stupido! Dovevi fare così e così...».
Quanti modi per puntare il dito contro gli altri.
Ma chi punta il dito contro un altro ne punta tre contro se stesso.
Un discepolo parlava con disprezzo dell'avidità e della violenza della gente «fuori nel mondo».
Il maestro disse: «Mi ricordi quel lupo che stava attraversando una fase di bontà. Quando vide un gatto che dava la caccia a un topo, si girò verso un lupo suo compagno e disse indignato: "Non sarebbe ora che qualcuno facesse qualcosa per fermare questi teppisti?"».


UN SORRISO ALL’AURORA
Raoul Follereau si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico.
Un incubo di orrore.
Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti.
Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri.
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, Follereau volle cercarne la spiegazione: che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male?
Lo pedinò, discretamente.
Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso.
Si metteva a sedere e aspettava.
Non era il sorgere del sole che aspettava. Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico.
Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza.
La donna non parlava.
Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso.
Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchietto si rialzava e trotterellava verso le baracche.
Tutte le mattine.
Una specie di comunione quotidiana.
Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando Follereau glielo chiese, il lebbroso gli disse: «È mia moglie!».
E dopo un attimo di silenzio: «Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare.
Uno stregone le aveva dato una pomata.
Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio... Ma tutto è stato inutile. Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui. Ma lei mi ha seguito. E quando ogni giorno la rivedo, solo da lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere».

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto.
Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso, oggi.
Se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso.


IL CAVALLO DI ALESSANDRO
Quando compì vent’anni, Alessandro Magno riuscì a farsi regalare da suo padre, il re Filippo, un cavallo che nessuno era mai riuscito a domare: Bucefalo, un cavallo dal bellissimo aspetto, ma dal carattere bizzarro e selvaggio.
Alessandro voleva ad ogni costo domarlo.
«Con tutti i cavalli che ci sono, figliolo, perché non te ne trovi un altro?», gli diceva il buon re Filippo.
Ma Alessandro voleva domare proprio Bucefalo.
Ci provava ormai da tre mesi e nonostante le carezze, le parole sussurrate come ad un amico, non era ancora riuscito a stargli un attimo in groppa.
Quelli che avevano tentato prima di lui gli dicevano: «Bada, Alessandro, lascialo andare nelle foreste, prima che ti faccia del male!».
Un giorno, mentre osservava il suo selvatico amico, Alessandro si accorse che il cavallo teneva la testa molto bassa, quasi nascosta tra le due zampe anteriori.
Si era nel gran sole del mezzogiorno.
Riflettendo, Alessandro si ricordò che Bucefalo faceva sempre così nei giorni di sole e mai alla sera o nelle brutte giornate.
Inoltre i suoi tentativi di ammansirlo erano molto più facili nei giorni nuvolosi.
Di colpo ebbe un’idea: «Forse teme il sole».
Mentre nel cielo splendeva un sole splendido, Alessandro saltò dinanzi a Bucefalo, gli afferrò energicamente la testa e con tutte le sue forze gliela fece sollevare verso l’alto.
Gli occhi del cavallo si fissarono per la prima volta sul sole.
Alessandro si accorse che non lampeggiavano più, ma divenivano sempre più docili.
Sembrava quasi che sorridessero.
Quando il giovane allentò la poderosa stretta con cui lo aveva afferrato, la testa del cavallo rimase eretta, fiera e tranquilla.
Alessandro emise un grido di esultanza, lo abbracciò, gli saltò in groppa e lo lanciò in un galoppo sfrenato nella pianura di Macedonia.
Bucefalo aveva vinto la paura di guardare il sole.
E ora... anche gli uomini gli facevano meno paura.

«In quella sinagoga c’era un uomo posseduto da uno spirito maligno.
Ad un certo momento costui si mise a urlare: “Perché ti interessi di noi, Gesù di Nazaret? Vuoi forse mandarci in rovina?”» (Vangelo di Luca 4,33-34).
È il grido di una religione rovesciata, la religione dei diavoli, degli atei: Dio incute paura.
Quanti spaventati da Dio ci sono.
Gente che si accosta a lui meno che può, che gli parla in fretta, senza guardarlo in faccia e che, appena può, con un sospiro di sollievo, si allontana da lui, perché gli mette disagio.
È quanto di più lontano può esistere dal vero rapporto con Dio, che è la perfezione dell’amore.


IL PIANO
Durante l’Ascensione, Gesù gettò un’occhiata verso la terra che stava piombando nell’oscurità.
Soltanto alcune piccole luci brillavano timidamente sulla città di Gerusalemme.
L’Arcangelo Gabriele, che era venuto ad accogliere Gesù, gli domandò: «Signore, che cosa sono quelle piccole luci?».
«Sono i miei discepoli in preghiera, radunati intorno a mia madre. E il mio piano, appena rientrato in cielo, è di inviare loro il mio Spirito, perché quelle fiaccole tremolanti diventino un incendio sempre vivo che infiammi d’amore, poco a poco, tutti i popoli della terra!».
L’Arcangelo Gabriele osò replicare: «E che farai, Signore, se questo piano non riesce?».
Dopo un istante di silenzio, il Signore gli rispose dolcemente: «Ma io non ho un altro piano...».

Tu sei una piccola fiaccola tremolante nell’immensità della notte.
Ma fai parte del piano di Dio. E sei indispensabile.
Perché non ci sono altri piani.


IL PERDONO
Un fedele buono, ma piuttosto debole, si confessava di solito dal parroco.
Le sue confessioni sembravano però un disco rotto: sempre le stesse mancanze, e soprattutto sempre lo stesso grosso peccato.
«Basta!» gli disse, un giorno, in tono severo il parroco. «Non devi prendere in giro il Signore. È l’ultima volta che ti assolvo per questo peccato. Ricordatelo!».
Ma quindici giorni dopo, il fedele era di nuovo là a confessare il suo solito peccato.
Il confessore perse davvero la pazienza: «Ti avevo avvertito: non ti do l’assoluzione. Così impari...».
Avvilito e colmo di vergogna, il pover’uomo si alzò.
Proprio sopra il confessionale, appeso al muro, troneggiava un grande crocifisso di gesso.
L’uomo lo guardò.
In quell’istante, il Gesù di gesso del crocifisso si animò, sollevò un braccio dalla sua secolare posizione e tracciò il segno dell’assoluzione: «Io ti assolvo dai tuoi peccati...».

Ognuno di noi è legato a Dio con un filo. Quando commettiamo un peccato, il filo si rompe. Ma quando ci pentiamo della nostra colpa, Dio fa un nodo nel filo, che diviene più corto di prima. Di perdono in perdono ci avviciniamo a Dio. «Vi assicuro che in cielo si fa più festa per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione » (Luca 15,7).


VIA COL VENTO
Nel prato di un giardino pubblico, con il tiepido sole della primavera, in mezzo all’erba tenera, erano spuntate le foglie dentellate e robuste dei Denti di Leone.
Uno di questi esibì un magnifico fiore giallo, innocente, dorato e sereno come un tramonto di maggio.
Dopo un po’ di tempo il fiore divenne un «soffione»: una sfera leggera, ricamata dalle coroncine di piumette attaccate ai semini che se ne stavano stretti stretti al centro del soffione.
E quante congetture facevano i piccoli semi.
Quanti sogni cullava la brezza alla sera, quando i primi timidi grilli intonavano la loro serenata.
«Dove andremo a germogliare?».
«Chissà?».
«Solo il vento lo sa».
Un mattino il soffione fu afferrato dalle dita invisibili e forti del vento.
I semi partirono attaccati al loro piccolo paracadute e volarono via, ghermiti dalla corrente d’aria.
«Addio... addio», si salutavano i piccoli semi.
Mentre la maggioranza atterrava nella buona terra degli orti e dei prati, uno, il più piccolo di tutti, fece un volo molto breve e finì in una screpolatura del cemento di un marciapiede.
C’era un pizzico di polvere depositato dal vento e dalla pioggia, così meschino in confronto alla buona terra grassa del prato.
«Ma è tutta mia!», si disse il semino. Senza pensarci due volte, si rannicchiò ben bene e cominciò subito a lavorare di radici.
Davanti alla screpolatura nel cemento c’era una panchina sbilenca e scarabocchiata.
Proprio su quella panchina si sedeva spesso un giovane.
Era un giovane dall’aria tormentata e lo sguardo inquieto.
Nubi nere gli pesavano sul cuore e le sue mani erano sempre strette a pugno.
Quando vide due foglioline dentate verde tenero che si aprivano la strada nel cemento rise amaramente: «Non ce la farai! Sei come me!», e con un piede le calpestò.
Ma il giorno dopo vide che le foglie si erano rialzate ed erano diventate quattro.
Da quel momento non riuscì più a distogliere gli occhi dalla testarda coraggiosa pianticella.
Dopo qualche giorno spuntò il fiore, giallo brillante, come un grido di felicità.
Per la prima volta dopo tanto tempo il giovane avvilito sentì che il risentimento e l’amarezza che gli pesavano sul cuore cominciavano a sciogliersi.
Rialzò la testa e respirò a pieni polmoni. Diede ungran pugno sullo schienale della panchina e gridò: «Ma certo! Ce la possiamo fare!».
Aveva voglia di piangere e di ridere. Sfiorò con le dita la testolina gialla del fiore.
Le piante sentono l’amore e la bontà degli esseri umani.
Per il piccolo e coraggioso Dente di Leone la carezza del giovane fu la cosa più bella della vita.

Non chiedere al Vento perché ti ha portato dove sei.
Anche se sei soffocato dal cemento, lavora di radici e vivi. Tu sei un messaggio.
Anche queste piccole storie sono semi portati dal Vento.
Dove atterreranno e che cosa faranno solo il Vento lo sa.


IL PRANZO DELLA DOMENICA
Dalla cucina, come al solito, la donna disse: «È pronto!».
Il marito, che leggeva il giornale, e i due figli, che guardavano la televisione e ascoltavano musica, si misero rumorosamente a tavola e brandirono impazientemente le posate.
La donna arrivò.
Ma invece delle solite, profumate portate, mise in centro tavola un mucchietto di fieno.
«Ma... ma!», dissero i tre uomini. «Ma sei diventata matta?».
La donna li guardò e rispose serafica: «Be’, come avrei potuto immaginare che ve ne sareste accorti? Cucino per voi da vent’anni e in tutto questo tempo non ho mai sentito da parte vostra una parola che mi facesse capire che non stavate masticando fieno».

Per festeggiare il decimo anniversario del matrimonio una donna chiese alla rivista letta dal marito di pubblicare un messaggio per lui.
Eccolo: «Grazie, grazie amore mio, perché se oggi sono una donna, una moglie e una madre felice lo devo a te. Grazie perché mi fai sentire sempre e dovunque l’unica donna al mondo per te. Grazie perché mi fai sentire bella. Grazie perché mi fai sentire importante. Grazie per i tuoi sguardi d’amore quando siamo in mezzo alla gente. Grazie per i tuoi “ti amo” lasciati qua e là quando e dove meno me l’aspetto. Grazie perché ci sei. Grazie per questi splendidi anni d’amore».
Abbiamo un potere immenso: decidere la felicità o l’infelicità delle persone che ci stanno accanto. Di solito basta un «grazie» detto o dimenticato.


DUE ASINELLI
Alla grotta di Betlemme arrivarono anche due asinelli.
Erano stanchi e macilenti.
Le loro groppe erano spelacchiate e piagate dai pesanti sacchi che il mugnaio loro padrone caricava quotidianamente e dai colpi di bastone che non risparmiava.
Avevano sentito i pastori parlare del Re dei Re venuto dal cielo ed erano accorsi anche loro.
Rimasero un attimo a contemplare il Bambino.
Lo adorarono e pregarono come tutti.
All’uscita li attendeva lo spietato mugnaio.
I due asinelli ripartirono a testa bassa, con il pesante basto sulla groppa.
«Non serve a niente» disse uno. «Ho pregato il Messia che mi togliesse il peso e non l’ha fatto».
«Io invece», ribatté l’altro che trotterellava con un certo vigore, «io gli ho chiesto di darmi la forza di portarlo».

«Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la forza proprio quando uno è debole» (2 Corinzi 12,9).


LA RESPONSABILITÀ
Un giovane chiese ad un maestro: «Che cosa devo fare per salvare il mondo?».
Il saggio rispose: «Tutto quello che serve a far sorgere il sole domattina».
«Ma allora, a che cosa servono le mie preghiere e le mie buone azioni, il mio impegno nell’apostolato e nel volontariato?» replicò allarmato il giovane.
Il saggio lo guardò con tranquillità: «Ti servono a essere ben sveglio, quando sorgerà il sole».

Il sole, Cristo, è sorto. Ma noi preferiamo dormire.
«Non c’è davvero niente che possa fare per raggiungere l’illuminazione?».
«Bè», rispose il maestro allegramente, «potresti imitare quella vecchia che premeva contro la parete del vagone per far correre il treno».


RASSOMIGLIANZE
Un missionario viaggiava su un veloce treno giapponese e occupava il tempo pregando con il breviario aperto. Uno scossone fece scivolare sul pavimento una immaginetta della Madonna.
Un bambino seduto di fronte al missionario si chinò e raccolse l'immagine. Curioso come tutti i bambini, prima di restituirla la guardò.
«Chi è questa bella signora?», chiese al missionario.
«È... mia madre» rispose il sacerdote, dopo un attimo di esitazione.
Il bambino lo guardò, poi riguardò l'immagine.
«Non le assomigli tanto», disse.
Il missionario sorrise: «Eppure, ti assicuro che è tutta la vita che cerco di assomigliarle, almeno un po'».

E tu, a chi assomigli?


LA GUIDA
Una carovana di mercanti abituati da molto tempo a percorrere insieme le lunghe piste d’oriente si preparava ad attraversare un grande e pericoloso deserto.
Il percorso richiedeva una buona conoscenza dei luoghi e delle piste, degli ergs e delle oasi, ma anche delle abitudini degli indigeni.
Così si assicurarono i servizi di una guida locale famosa per la sua esperienza.
Dopo dieci giorni di rapido cammino, la colonna si arrestò contro una barriera di uomini armati, fermi attorno alla statua di una delle loro orribili divinità dall’aspetto crudele, che incombeva sulla pista.
«Non potete proseguire» gridò il capo degli uomini armati «se non sacrificate un uomo al nostro dio! È la regola di ogni nuova luna. Se non lo farete morrete tutti qui immediatamente!».
I mercanti si radunarono e cominciarono a parlottare tra loro. La scelta era drammatica e l’accordo molto difficile.
«Noi ci conosciamo tutti da molto tempo. Siamo parenti tra di noi. Non possiamo sacrificare uno di noi per placare questo dio!».
I loro sguardi si concentrarono tutti sulla guida...
Dopo avere immolato il pover’uomo, secondo il rito, ai piedi della statua, la carovana riprese il cammino.
Ma nessuno conosceva la via e ben presto si persero nel deserto.
Morirono uno dopo l’altro di sete e di sfinimento.

È il mistero degli uomini. Il «popolo che camminava nelle tenebre» ha visto una grande luce e si è dato subito molto da fare per spegnerla!


ESSERE SVEGLI
Un giovane chiese al maestro: “Che cosa devo fare per salvare il mondo?”.
Il saggio rispose: “Tutto quello che serve per far sorgere il sole domani mattina”
“Ma allora a cosa servono le mie preghiere e le mie buone azioni, il mio impegno?”.
Il saggio lo guardò con tranquillità e gli rispose: “Ti servono ad essere ben sveglio quando sorgerà il sole”.


«VOGLIO CHE SIA UNA REGINA: LA MIA MAMMA"»
«C'era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonate le trombe, gli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l'assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l'uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: "Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto linguaggio".
"No! Vattene! Fatelo tacere' Buuu". I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. "Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!".
Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: "Questo sarà il nostro re! Il più forte!".
Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s'incrociavano.
Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: "Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi".
Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L'anziano gli chiese: "Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?".
Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: "I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma"».


PRIMA DEL DECOLLO
L’aeroporto di una città dell’Estremo Oriente venne investito da un furioso temporale.
I passeggeri attraversarono di corsa la pista per salire su un DC3 pronto al decollo per un volo interno.
Un missionario, bagnato fradicio, riuscì a trovare un posto comodo accanto a un finestrino.
Una graziosa hostess aiutava gli altri passeggeri a sistemarsi.
Il decollo era prossimo e un uomo dell’equipaggio chiuse il pesante portello dell’aereo.
Improvvisamente si vide un uomo che correva verso l’aereo, riparandosi come poteva, con un impermeabile.
Il ritardatario bussò energicamente alla porta dell’aereo, chiedendo di entrare.
L’hostess gli spiegò a segni che era troppo tardi.
L’uomo raddoppiò i colpi contro lo sportello dell’aereo.
L’hostess cercò di convincerlo a desistere.
«Non si può... È tardi... Dobbiamo partire», cercava di farsi capire a segni dall’oblò.
Niente da fare: l’uomo insisteva e chiedeva di entrare.
Alla fine, l’hostess cedette e aprì lo sportello.
Tese la mano e aiutò il passeggero ritardatario a issarsi nell’interno.
E rimase a bocca aperta. Quell’uomo era il pilota dell’aereo.

Attento! Non lasciare a terra il pilota della tua vita.


IL SEGRETO DELLA FELICITÀ
Un giovane domandò al più saggio di tutti gli uomini il segreto della felicità.
Il saggio suggerì al giovane di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.
«Solo ti chiedo un favore» concluse il saggio, consegnandogli un cucchiaino su cui versò due gocce d’olio.
«Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l’olio».
Dopo due ore il giovane tornò e il saggio gli chiese:
«Hai visto gli arazzi della mia sala da pranzo? Hai visto i magnifici giardini? Hai notato le belle pergamene?».
Il giovane, vergognandosi, confessò di non avere visto niente.
La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d’olio.
«Torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo» disse il saggio.
Il giovane prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare,
ma questa volta osservò tutte le opere d’arte.
Notò i giardini, le montagne, i fiori. Tornò dal saggio e riferì particolareggiatamente tutto quello che aveva visto.
«Ma dove sono le due gocce d’olio che ti ho affidato?» domandò il saggio.
Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.
«Ebbene, questo è l’unico consiglio che ho da darti» concluse il saggio.

«Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza mai dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino».
«Infine, fratelli, prendete in considerazione tutto quel che è vero, buono, giusto, puro, degno di essere amato e onorato; quel che viene
dalla virtù ed è degno di lode» (San Paolo ai Filippesi 4,8). Senza mai dimenticare l’essenziale!


L’ALBERO GENEROSO
C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni.
Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul suo tronco e dondolava attaccalo ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti e poi, insieme, giocavano a nascondino.
Quando era stanco, il bambino si addormentava all'ombra dell'albero, mentre le fronde gli cantavano la ninna-nanna. Il bambino amava l'albero con tutto il suo piccolo cuore. E l'albero era felice. Ma il tempo passò e il bambino crebbe. Ora che il bambino era grande, l'albero rimaneva spesso solo. Un giorno il bambino venne a vedere l'albero e l'albero gli disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice». «Sono troppo grande ormai per arrampicarmi sugli alberi e per giocare», disse il bambino, «io voglio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?». «Mi dispiace, rispose l'albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va' a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice» Allora il bambino si arrampicò sull'albero, raccolse tutti i frutti e li portò via. E l'albero fu felice.  Ma il bambino rimase molto tempo senza ritornare... E l'albero divenne triste. Poi un giorno il bambino tornò; l'albero tremò di gioia e disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami e sii felice». «Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampicarmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa. Puoi darmi una casa?». «Io non ho una casa» disse l'albero. «La mia casa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e costruirti una casa. Allora sarai felice». Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per costruirsi una casa. E l'albero fu felice. Per molto tempo il bambino non venne. Quando ritornò, l'albero era così felice che riusciva a malapena a parlare. «Avvicinati, bambino mio», mormorò «vieni a giocare». «Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare», disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?» «Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l'albero. «Così potrai andartene ed essere felice». Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una barca per fuggire. E l'albero fu felice... ma non del tutto. Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora. «Mi dispiace, bambino mio», disse l'albero «ma non resta più niente da donarti... Non ho più frutti». «I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino. «Non ho più rami», continuò l'albero «non puoi più dondolarti». «Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami», disse il bambino. «Non ho più il tronco», disse l'albero. «Non puoi più arrampicarti». «Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.
«Sono desolato», sospirò l'albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa... ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto...». «Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco». «Ebbene», disse l'albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuole per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».
Così fece il bambino. E l'albero fu felice.


L’EVIDENZA
Un prete conversava di fede e religione con un amico che si professava totalmente ateo e indifferente.
«Sei un’ottima persona ed un caro amico. Perché non ti decidi anche a diventare cristiano?» chiese il prete.
«Perché se essere cristiani è quello che mi dici tu, non ne ho la forza. E se è quello che vedo in giro, proprio non mi interessa».

Un turista era arrivato in una città e guardava ammirato le numerose chiese che si affacciavano sulla strada che stava percorrendo in taxi.
«Gli abitanti di questa città amano molto Dio» disse all’autista.
«Se amano Dio non lo so. Di sicuro non si amano tra loro!» rispose il taxista.

«Non c’è peggior sordo di chi non vuol vedere» diceva Lao Tze. La gente non usa più le orecchie per ascoltare. Si ascolta con gli occhi.
Che cosa vede la gente quando guarda un «cristiano»?


LA BUROCRAZIA
Un Giudice Membro della Corte Suprema stava seduto in riva ad un fiume
quando un Viaggiatore si avvicinò e disse: «Vorrei attraversare. È legittimo usare questa barca?».
«Sì», fu la risposta; «è la mia barca».
Il Viaggiatore lo ringraziò e, spinta la barca in acqua, vi salì e si avviò remando.
Ma la barca affondò e lui affogò.
«Uomo senza cuore!», disse uno Spettatore Indignato. «Perché non gli hai detto che la tua barca aveva un buco?».
«La questione delle condizioni della barca», disse il grande giurista, «non mi è stata sottoposta» (A. Bierce).

«Guai a voi, ipocriti, maestri della legge e farisei! Voi date in offerta al tempio la decima parte anche di piante aromatiche, ma poi trascurate i punti più importanti della legge di Dio: la giustizia, la misericordia
e la fedeltà» (Matteo 23,23).
«State attenti! Tenetevi lontani dal lievito dei farisei!» (Matteo 16,5).


IL CAPITALE
Un riccone arrivò in Paradiso. Per prima cosa fece un giro per il mercato e con sorpresa vide che le merci erano vendute a prezzi molto bassi.
Immediatamente mise mano al portafoglio e cominciò a ordinare le cose più belle che vedeva.
Al momento di pagare porse all’angelo, che faceva da commesso, una manciata di banconote di grosso taglio.
L’angelo sorrise e disse: «Mi dispiace, ma questo denaro non ha alcun valore».
«Come?», si stupì il riccone.
«Qui vale soltanto il denaro che sulla terra è stato donato», rispose l’angelo.

Oggi, non dimenticare il tuo capitale per il Paradiso.


LA FESTA NEL CASTELLO
Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati.
Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: "Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti". Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d'acqua, pensando: "Un po' d'acqua nel barile passerà inosservata... nessuno se ne accorgerà!" Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.
Se siamo a volte scontenti del mondo, è perché troppi portano solo acqua, aspettando che siano gli altri a portare il vino.


IL RICCO E IL POVERO

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.
Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, - disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.
Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.
Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, - gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.
Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.
Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.
Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.
Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.
(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).


LO SCORPIONEUn monaco si era seduto a meditare sulla riva di un ruscello. Quando aprì gli occhi, vide uno scorpione che era caduto nell'acqua e lottava disperatamente per stare a galla e sopravvivere. Pieno di compassione, il monaco immerse la mano nell'acqua, afferrò lo scorpione e lo posò in salvo sulla riva. L'insetto per ricompensa si rivoltò di scatto e lo punse provocandogli un forte dolore. Il monaco tornò a meditare, ma quando riaprì gli occhi, vide che lo scorpione era di nuovo caduto in acqua e si dibatteva con tutte le sue forze. Per la seconda volta lo salvò e anche questa volta lo scorpione punse il suo salvatore fino a farlo urlare per il dolore. La stessa cosa accadde una terza volta. E il monaco aveva le lacrime agli occhi per il tormento provocato dalle crudeli punture alla mano. Un contadino che aveva assistito alla scena esclamò: «Perché ti ostini ad aiutare quella miserabile creatura che invece di ringraziarti ti fa solo male?». «Perché seguiamo entrambi la nostra natura» rispose il monaco. «Lo scorpione è fatto per pungere e io sono fatto per essere misericordioso».

MA NOI GALLEGGIAMO
Il potente re Milinda disse al vecchio sacerdote: «Tu dici che l’uomo che ha compiuto tutto il male possibile per cent’anni e prima di morire chiede perdono a Dio, otterrà di rinascere in cielo. Se invece uno compie un solo delitto e non si pente, finirà all’inferno. È giusto questo? Cento delitti sono più leggeri di uno?».
Il vecchio sacerdote rispose al re:«Se prendo un sassolino grosso così, e lo depongo sulla superficie del lago, andrà a fondo o galleggerà?».
«Andrà a fondo», rispose il re.
«E se prendo cento grosse pietre, le metto in una barca e spingo la barca in mezzo al lago, andranno a fondo o galleggeranno?».
«Galleggeranno».
«Allora cento pietre e una barca sono più leggere d’un sassolino?».
Il re non sapeva che cosa rispondere.
E il vecchio spiegò: «Così, o re, avviene agli uomini. Un uomo anche se ha molto peccato ma si appoggia a Dio, non cadrà nell’inferno. Invece l’uomo che fa il male anche una volta sola, e non ricorre alla misericordia di Dio, andrà perduto».

«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34).


I DUE AMICI
Il più vecchio si chiamava Frank e aveva vent’anni.
Il più giovane era Ted e ne aveva diciotto.
Erano sempre insieme, amicissimi fin dalle elementari.
Insieme decisero di arruolarsi nell’esercito.
Partendo promisero a se stessi e ai genitori che avrebbero avuto cura l’uno dell’altro.
Furono fortunati e finirono nello stesso battaglione.
Quel battaglione fu mandato in guerra.
Una guerra terribile tra le sabbie infuocate del deserto.
Per qualche tempo Frank e Ted rimasero negli accampamenti protetti dall’aviazione.
Poi una sera venne l’ordine di avanzare in territorio nemico.
I soldati avanzarono per tutta la notte, sotto la minaccia di un fuoco infernale.
Al mattino il battaglione si radunò in un villaggio.
Ma Ted non c’era.
Frank lo cercò dappertutto, tra i feriti, tra i morti.
Trovò il suo nome nell’elenco dei dispersi.
Si presentò al comandante.
«Chiedo il permesso di andare a riprendere il mio amico», disse.
«È troppo pericoloso», rispose il comandante. «Ho già perso il tuo amico. Perderei anche te. Là fuori stanno sparando».
Frank partì ugualmente.
Dopo alcune ore trovò Ted ferito mortalmente.
Se lo caricò sulle spalle.
Ma una scheggia lo colpì.
Si trascinò ugualmente fino al campo.
«Valeva la pena morire per salvare un morto?», gli gridò il comandante.
«Sì» sussurrò, «perché prima di morire, Ted mi ha detto: Frank, sapevo che saresti venuto».

Questo diremo a Dio in quel momento: «Sapevo che saresti venuto».


SORPRESA TRA LE DUNE
Un uomo si era perduto nel deserto e si trascinava da due giorni sulla sabbia infuocata.
Era ormai giunto allo stremo delle forze.
Improvvisamente vide davanti a sé un mercante di cravatte.
Non aveva con sé nient’altro: solo cravatte.
E cercò subito di venderne una al pover’uomo, che stava morendo di sete.
Con la lingua impastoiata e la gola riarsa, l’uomo gli diede del pazzo:
si vende una cravatta a uno che muore di sete?
Il mercante alzò le spalle e continuò il suo cammino nel deserto.
Alla sera, il viaggiatore assetato, che strisciava ormai sulla sabbia,
alzò la testa e rimase allibito: era nel piazzale di un lussuoso ristorante,
con il parcheggio pieno d’automobili!
Una costruzione grandiosa, assolutamente solitaria, in pieno deserto.
L’uomo si arrampicò a fatica fino alla porta e, sul punto di svenire, gemette:
«Da bere, per pietà!».
«Desolato, signore», rispose il compitissimo portiere, «qui non si può entrare senza cravatta».

Ci sono persone che attraversano il deserto di questo mondo,
con una sete smodata di esperienze piacevoli e bramosie di ogni tipo.
Trattando da poveri pazzi quelli che cercano di presentare il Vangelo.
È un messaggio così stupido nel loro deserto!
Ma quando vorranno entrare nell’«Hotel del Signore», verrà loro detto:
«Desolato, qui non si può entrare senza un cuore rinnovato».


GUARDA DOVE VAI!
Nei tempi remoti, in Giappone, si usavano lanterne di carta e di bambù con le candele dentro.
Una notte, a un cieco che era andato a trovarlo, un tale offrì una lanterna da portarsi a casa.
«A me non serve una lanterna», disse il cieco. «Buio o luce per me sono la stessa cosa».
«Lo so che per trovare la strada a te non serve una lanterna», rispose l’altro,
«ma se non l’hai, qualcuno può venirti addosso. Perciò devi prenderla».
Il cieco se ne andò con la lanterna, ma non era ancora andato molto lontano quando si sentì urtare con violenza.
«Guarda dove vai!», esclamò il cieco allo sconosciuto. «Non vedi questa lanterna?».
«La tua candela si è spenta, fratello», rispose lo sconosciuto.

Chi non conosce quelle persone arroganti che fendono il mondo in modo presuntuoso,
senza accorgersi di essere ciechi che portano in mano una lampada spenta?
Eppure molti di loro si fanno chiamare «maestro» o «dottore» o «onorevole».
(o «signor parroco», o «eccellenza», o «superiore»... ma non era questo il pensiero e non è questo lo stile di Gesù..


IL TIZZONE RIMASTO ISOLATO
Il parroco di una chiesetta del New England si accorse che uno dei suoi più assidui fedeli disertava da tempo le funzioni della domenica. Una sera, decise di fargli visita e lo trovò solo in casa, seduto davanti al caminetto. Senza dire una parola il prete prese con le molle un tizzone ardente e lo posò sul pavimento; poi sedette su una poltrona e rimase a fissare per qualche minuto il tizzone che rimasto isolato fuori del caminetto, lentamente si spegneva. L'uomo intuì l'ammonimento e disse: «Mi avete fatto un bellissimo sermone, reverendo. Da domenica prossima, verrò di nuovo in chiesa».  

PERCHÉ AVETE PAURA?
Era una famigliola felice e viveva in una casetta di periferia.
Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.
Mentre le fiamme divampavano, genitori e figli corsero fuori.
In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni.
Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore.
Che fare? Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare.
Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile... E i vigili del fuoco tardavano.
Ma ecco che lassù, in alto, s’aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò urlando disperatamente: «Papà! Papà!».
Il padre accorse e gridò: «Salta giù!».
Sotto di sé il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma sentì la voce e rispose: «Papà, non ti vedo...».
«Ti vedo io, e basta. Salta giù!». Urlò l’uomo.
Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.

Non vedi Dio. Ma Lui vede te. Buttati!


IL SILENZIO
Un uomo si recò da un monaco di clausura. Gli chiese: «Che cosa impari mai dalla tua vita di silenzio?».
Il monaco stava attingendo acqua da un pozzo e disse al suo visitatore: «Guarda giù nel pozzo! Che cosa vedi?».
L’uomo guardò nel pozzo. «Non vedo niente».
Dopo un po’ di tempo, in cui rimase perfettamente immobile, il monaco disse al visitatore: «Guarda ora! Che cosa vedi nel pozzo?».
L’uomo ubbidì e rispose: «Ora vedo me stesso: mi specchio nell’acqua».
Il monaco disse: «Vedi, quando io immergo il secchio, l’acqua è agitata. Ora invece l’acqua è tranquilla. È questa l’esperienza del silenzio: l’uomo vede se stesso!».
«Quando non ce la faccio più, vado a sedermi vicino a mia nonna mentre lavora a maglia... Mia nonna profuma di cipria e ha un respiro lento lento. Di tanto in tanto alza gli occhi e sorride un poco, di solito però si limita a lavorare e respirare... Beh, mi fa sentire cullata...»
(Amelia, 14 anni).


LA BAMBOLA DI SALE
Un giorno una bambola di sale decise di raggiungere il mare tempestoso da cui era nata. Attraversò terre aride e finalmente giunse in presenza del mare mugghiante. «Come faccio a conoscerti?», gli chiese. «Toccami» rispose il mare con un rombo. Ed ecco, più si inoltrava, più la bambola di sale sentiva che parte delle sue membra si perdevano in quell'immensità. Superato lo sgomento, fu felice quando l’onda la sommerse e la fece sparire. In quel momento arrivò a conoscere pienamente il mare e il suo mistero; anzi, essa stessa era ormai divenuta mare.  (Parabola indiana).

L’AIUTO VERSO I NOSTRI FRATELLI
“Un uomo bussò alla porta di un amico per chiedergli un favore: ‘Puoi prestarmi quarantamila denari? Devo saldare un debito’.
L’altro chiese alla moglie di prendere tutti i loro risparmi e gli oggetti di valore: il piccolo tesoro, però, si rivelò insufficiente. Chiesero aiuto ai vicini e, alla fine, fu raccolta la somma necessaria.
Quando l’uomo se ne fu andato, la donna notò che il marito stava piangendo.
‘Perché sei triste?’ Gli domandò. ‘Per il fatto che ci siamo indebitati con i vicini e non sai se saremo in grado di onorare il nostro debito?’.
‘No, affatto. Piango perché nutro un grande affetto per quell’amico, eppure non mi sono mai preoccupato per lui. Mi è ritornato alla mente soltanto quando si è presentato alla nostra porta per chiedere un prestito’.
Andate, dunque, e raccontate la storia di ciò che è accaduto questo pomeriggio. E ricordate che dobbiamo aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedano.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 174-175)


IL POVERO ACROBATA
La Madonna, con il Bambino Gesù fra le braccia, aveva deciso di scendere in Terra per visitare un monastero. Orgogliosi, tutti i monaci si misero in una lunga fila, presentandosi ciascuno davanti alla Vergine per renderle omaggio. Uno declamò alcune poesie, un altro le mostrò le miniature che aveva preparato per la Bibbia e un terzo recitò i nomi di tutti i santi. E così via, un monaco dopo l’altro, tutti resero omaggio alla Madonna e al Bambino.
All’ultimo posto della fila ne rimase uno, il monaco più umile del convento, che non aveva mai studiato i sacri testi dell’epoca. I suoi genitori erano persone semplici, che lavoravano in un vecchio circo dei dintorni, e gli avevano insegnato soltanto a far volteggiare le palline in aria.
Quando giunse il suo turno, gli altri monaci volevano concludere l’omaggio perché il povero acrobata non aveva nulla di importante da dire e avrebbe potuto sminuire l’immagine del convento. Ma anche lui, nel profondo del proprio cuore, sentiva un bisogno immenso di offrire qualcosa a Gesù e alla Vergine.
Pieno di vergogna, sentendosi oggetto degli sguardi di riprovazione dei confratelli, tirò fuori dalla tasca alcune arance e cominciò a farle volteggiare: perché era l’unica cosa che egli sapesse fare.
Fu solo in quell’istante che Gesù Bambino sorrise e cominciò a battere le mani in braccio alla Madonna. E fu verso quel monaco che la Vergine tese le braccia, lasciandogli tenere per un po’ il bambinello. 


STORIA PER L’ANIMA
«Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese. Il monaco gliela diede immediatamente. Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l'inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore. Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”»

Una domenica, verso mezzogiorno,
una giovane donna stava lavando l’insalata in cucina,
quando le si avvicinò il marito che, per prenderla in giro, le chiese:
«Mi sapresti dire che cosa ha detto il parroco nella predica di questa mattina?».
«Non lo ricordo più», confessò la donna.
«Perché allora vai in chiesa a sentir prediche, se non le ricordi?».
«Vedi, caro: l’acqua lava la mia insalata e tuttavia non resta nella sua coppa;
eppure la mia insalata è completamente lavata».
Non è importante prendere appunti.
È importante lasciarsi «lavare » dalla Parola di Dio.

QUALCHE SEME GERMOGLIERA’ E ILLUMINERA’ IL CAMMINO“Un contadino si diresse verso i campi per seminare. Ma accadde che rovesciò una parte delle sementi lungo il cammino, e subito arrivarono gli uccelli a banchettare.
Poi, per l’accanimento della sfortuna, un’altra parte fu versata in una pietraia: germogliò quasi subito, perché c’era soltanto un velo di terra sopra i sassi. Quando il sole divenne cocente, le piccole gemme seccarono, poiché non avevano radici.
Un’altra parte ancora scivolò tra i rovi e, crescendo, fu soffocata dalla malerba, che gli impedì di produrre alcunché.
L’ultima semente fu sparsa su una terra grassa e feconda. Attecchì e diede molti frutti – e un seme ne produsse trenta, un altro sessanta e un altro ancora cento.
Ecco perché dovete spargere le vostre sementi in tutti i luoghi nei quali vi troverete a passare : qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino delle generazioni a venire.”


L’EVIDENZA
Un prete conversava di fede e religione con un amico che si professava totalmente ateo e indifferente.
«Sei un’ottima persona ed un caro amico. Perché non ti decidi anche a diventare cristiano?» chiese il prete.
«Perché se essere cristiani è quello che mi dici tu, non ne ho la forza. E se è quello che vedo in giro, proprio non mi interessa».
Un turista era arrivato in una città e guardava ammirato le numerose chiese che si affacciavano sulla strada che stava percorrendo in taxi.
«Gli abitanti di questa città amano molto Dio» disse all’autista.
«Se amano Dio non lo so. Di sicuro non si amano tra loro!» rispose il taxista.

«Non c’è peggior sordo di chi non vuol vedere» diceva Lao Tze. La gente non usa più le orecchie per ascoltare. Si ascolta con gli occhi. Che cosa vede la gente quando guarda un «cristiano»?


LA GROTTA AZZURRA
Era un uomo povero e semplice.
La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava in casa spossato e pieno di malumore. Guardava con astio la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini dei bar.
«Quelli sì che stanno bene», brontolava l’uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d’uva nel torchio. «Non sanno che cosa vuol dire tribolare... Tutto rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!».
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell’uomo. E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa. «Ah, sei tu, Signore?», disse l’uomo, quando lo vide. «Non provare a rabbonirmi. Lo sai bene quant’è pesante la croce che mi hai imposto». L’uomo era più imbronciato che mai. Il Signore gli sorrise bonariamente. «Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare un’altra scelta», disse. L’uomo si trovò all’improvviso dentro una enorme grotta azzurra. L’architettura era divina. Ed era piena di croci: piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte. «Sono le croci degli uomini», disse il Signore. «Scegline una». L’uomo buttò con la malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita. Provò una croce leggerina, ma era lunga e ingombrante. Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e di sacrificio. Un’altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell’uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi. Afferrò una croce d’argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e di abbandono. La posò subito. Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po’ logorata dall’uso.Non era troppo pesante, né troppo  ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L’uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante. «Prendo questa!», esclamò. Ed uscì dalla grotta. Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce. E in quell’istante l’uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta. E che portava da tutta la vita.

«Come in un sogno mattutino, la vita si fa sempre più luminosa a mano a mano che la viviamo,
e la ragione di ogni cosa appare finalmente chiara» (Richter).


ME STESSO
"Nel parco di un manicomio incontrai un giovane con il volto pallido, trasognato, ma bello. Sedetti accanto a lui e gli chiesi: -Perché sei qui?-  Mi rivolse lo sguardo e poi rispose: 'E' una domanda poco opportuna, la tua; comunque ti spiegherò. Mio padre voleva fare di me una copia di se stesso e così mio zio. Mia madre vedeva in me l'immagine del suo illustre genitore. Mia sorella mi esibiva suo marito, marinaio, quale modello perfetto da imitare, mentre mio fratello riteneva che dovessi essere identico a lui, bravissimo atleta...E anche i miei insegnanti: il dottore in filosofia, il maestro di musica e colui che mi insegnava letteratura erano ben decisi nel desiderare e volere che io fossi uno specchio della loro vita...Per questo sono qui. Trovo l'ambiente più sano. Qui, almeno, posso essere me stesso...'".


IL FORESTIERO
Una storiella sulla paura... di non avere abbastanza coraggio (e predisposizione) di gettare sul prossimo una luce di ottimismo e di benevolenza.

C’era una volta un uomo seduto ai bordi di un’oasi all’entrata di una città del Medio Oriente.
Un giovane si avvicinò e gli domandò:
«Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?».
Il vecchio gli rispose con una domanda: «Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?».
«Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là».
«Così sono gli abitanti di questa città» gli rispose il vecchio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all’uomo e gli pose la stessa domanda:
«Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?».
L’uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: «Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?».
«Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli».
«Anche gli abitanti di questa città sono così» rispose il vecchio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all’abbeveraggio aveva udito le conversazioni
e quando il secondo giovane si allontanò si rivolse al vecchio in tono di rimprovero:
«Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?».
«Figlio mio», rispose il vecchio, «ciascuno porta il suo universo nel cuore.
Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui.
Al contrario, colui che aveva degli amici nell’altra città troverà anche qui degli amici leali e fedeli.
Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in loro».

Si trova sempre ciò che si cerca.

UNA VITA NASCOSTA
Figlio di una ragazza madre, era nato in un oscuro villaggio.
Crebbe in un altro villaggio, dove lavorò come falegname fino a trent’anni.
Poi, per tre anni, girò la sua terra predicando.
Non scrisse mai un libro.
Non ottenne mai una carica pubblica.
Non ebbe mai né una famiglia né una casa.
Non frequentò l’università.
Non si allontanò più di trecento chilometri da dov’era nato.
Non fece nessuna di quelle cose che di solito si associano al successo.
Non aveva altre credenziali che se stesso.
Aveva solo trentatré anni quando l’opinione pubblica gli si rivoltò contro.
I suoi amici fuggirono.
Fu venduto ai suoi nemici e subì un processo che era una farsa.
Fu inchiodato a una croce, in mezzo a due ladri.
Mentre stava morendo, i suoi carnefici si giocavano a dadi le sue vesti,
che erano l’unica proprietà che avesse in terra.
Quando morì venne deposto in un sepolcro messo a disposizione da un amico mosso a pietà.
Due giorni dopo, quel sepolcro era vuoto.
Sono trascorsi venti secoli e oggi Egli è la figura centrale nella storia dell’umanità.
Neppure gli eserciti che hanno marciato, le flotte che sono salpate,
i parlamenti che si sono riuniti, i re che hanno regnato,
i pensatori e gli scienziati messi tutti assieme,
hanno cambiato la vita dell’uomo sulla terra quanto quest’unica vita nascosta.

Quest'unica vita nascosta in un dischetto di pane
e in qualche goccia di vino.


DIO E’ AMORE
Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che "Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!" il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: "ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?"
Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.
La domanda "se Dio è tutto perché ha creato il mondo?" può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.


LA MOGLIE PERFETTA
Mulla Nasrudin era seduto nel negozio del tè quando arrivò un vicino per parlare con lui.
«Sto per sposarmi, Mulla», gli disse l’amico, «e sono molto eccitato. Tu non hai mai pensato di sposarti?».
Nasrudin rispose: «Sì, ci ho pensato. Quand’ero giovane lo desideravo molto. Volevo trovare la moglie perfetta. Mi sono messo in viaggio per cercarla e sono andato a Damasco. Là ho incontrato una bella donna piena di grazia, gentile e molto spirituale, ma che non conosceva il mondo. Allora mi sono rimesso in viaggio e sono andato a Isphahan. Là ho incontrato una donna che era sia spirituale che mondana, bella sotto molti punti di vista, ma non riuscivamo a comunicare. Alla fine sono andato al Cairo e dopo molte ricerchel’ho trovata. Era profonda di spirito, piena di grazia, bella sotto tutti i punti di vista, a suo agio sia nel mondo che nei regni che lo trascendono. Sentivo di aver trovato la moglie perfetta».
L’amico gli fece un’altra domanda: «Allora perché non l’hai sposata, Mulla?».
«Ahimè» disse Nasrudin scuotendo la testa, «anche lei stava cercando il marito ideale».
Uno scapolo chiese al computer di trovargli la compagna perfetta:
«Voglio una ragazza piccina e graziosa, che ami gli sport acquatici e le attività di gruppo».
E il computer rispose: «Sposa un pinguino».
Amare significa accogliere un «altro» con il suo modo di essere, la sua diversità, i suoi difetti, non la copia di qualche nostro stupido sogno.
Il marito perfetto è quello che non vuole una moglie perfetta.


I DUE SPECCHI
Un giorno Satana scoprì un modo per divertirsi. Inventò uno specchio diabolico che aveva una magica proprietà: faceva vedere meschino e raggrinzito tutto ciò che era bello e buono, mentre faceva vedere grande e dettagliato tutto ciò che era brutto e cattivo. Satana se ne andava in giro dappertutto con il suo terribile specchio. E tutti quelli che ci guardavano dentro rabbrividivano: ogni cosa appariva deformata e  mostruosa.
Il maligno si divertiva moltissimo con il suo specchio: più le cose erano ripugnanti più gli piacevano. Un giorno, lo spettacolo che lo specchio gli offriva era così piacevole ai suoi occhi che scoppiò a ridere in modo scomposto: lo specchio gli sfuggì dalle mani e si frantumò in milioni di pezzi. Un uragano potente e maligno fece volare i frammenti dello specchio in tutto il mondo.
Alcuni frammenti erano più piccoli di granelli di sabbia ed entrarono negli occhi di molte persone. Queste persone cominciarono a vedere tutto alla rovescia: si accorgevano solo più di ciò che era cattivo e vedevano cattiveria dappertutto.
Altre schegge diventarono lenti per occhiali. La gente che si metteva questi occhiali non riusciva più a vedere ciò che era giusto e a giudicare rettamente.Non avete, per caso, già incontrato degli uomini così?
Qualche pezzo di specchio era così grosso, che venne usato come vetro da finestra. I poveretti che guardavano attraverso quelle finestre vedevano solo vicini antipatici, che passavano il tempo a combinare cattiverie.
Quando Dio si accorse di quello che era successo si rattristò. Decise di aiutarli.
Disse: «Manderò nel mondo mio Figlio. È Lui la mia immagine, il mio specchio. Rispecchia la mia bontà, la mia giustizia, il mio amore. Riflette l’uomo come io l’ho pensato e voluto».
Gesù venne come uno specchio per gli uomini. Chi si specchiava in Lui, riscopriva la bontà e la bellezza e imparava a distinguerle dall’egoismo e dalla menzogna, dall’ingiustizia e dal disprezzo.
I malati ritrovavano il coraggio di vivere, i disperati riscoprivano la speranza.
Consolava gli afflitti e aiutava gli uomini a vincere la paura della morte.
Molti uomini amavano lo specchio di Dio e seguirono Gesù. Si sentivano infiammati da Lui.
Altri invece ribollivano di rabbia: decisero di rompere lo specchio di Dio. Gesù fu ucciso. Ma ben presto si levò un nuovo possente uragano: lo Spirito Santo. Sollevò i milioni di frammenti dello specchio di Dio e li soffiò in tutto il mondo.
Chi riceve anche una piccolissima scintilla di questo specchio nei suoi occhi comincia a vedere il mondo e le persone come li vedeva Gesù: si riflettono negli occhi prima di tutto le cose belle e buone, la giustizia e la generosità, la gioia e la speranza; le cattiverie e le ingiustizie invece appaiono modificabili e vincibili.

Lo ha assicurato Gesù: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro difensore che starà sempre con voi, lo Spirito della verità».


ANGELI SMEMORATI
Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!
“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:
“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”!
L'AVVISOLa strada che portava alla chiesa attraversava il paese. La vecchietta la percorreva ad occhi bassi biascicando qualche preghiera mentre di sottecchi guardava la gente, come tutti i giorni. «Giovinastri... Ubriaconi... Svergognata... Sporcizia... Fannullone... ».
Affrettava il passo per trovare la pace della preghiera. Quel giorno arrivò alla porta della chiesa e la trovò chiusa. Bussò. Niente da fare. Vide un biglietto attaccato con del nastro adesivo. Lo lesse. Diceva: «Io sono lì fuori».

«Tu dici di amarmi e te ne resti lì seduto a braccia conserte? Mangi, bevi, ti metti comodo per leggere le parole che io ho dette, piangi ricordando che io sono stato crocifisso; poi, te ne vai a letto e ti addormenti... Non hai vergogna? È così che mi ami? Questo tu lo chiami amore? Su, alzati!». Mi alzai di scatto e gettandomi ai suoi piedi esclamai: «Perdono, Signore, perdono! Comanda e ubbidirò». «Prendi il tuo bastone – mi disse Cristo – e va’ a trovare gli uomini, non temere di parlar loro.Va’ a dir loro che ho fame, che busso alle porte, tendo la mano e grido: fate la carità, cristiani!» (N. Kazantzakis).


IL SEGRETO
Celebravano i 50 anni di matrimonio. Erano felici, circondati da figli e nipoti.
Al marito fu chiesto quale fosse il segreto di un matrimonio così duraturo.
Il vecchio signore chiuse un attimo gli occhi e poi, come ripescando nella memoria un ricordo lontano, raccontò.
«Lucia, mia moglie, era l’unica ragazza con cui fossi mai uscito.
Ero cresciuto in un orfanotrofio e avevo sempre lavorato duro per ottenere quel poco che avevo. Non avevo mai avuto tempo di uscire con le ragazze, finché Lucia non mi conquistò. Prima ancora di rendermi conto di quello che stava accadendo, l’avevo chiesta in moglie.
Eravamo così giovani, tutti e due. Il giorno delle nozze, dopo la cerimonia in chiesa, il padre di Lucia mi prese in disparte e mi diede in mano un pacchettino. Disse: “Con questo regalo, non ti servirà altro per un matrimonio felice”.
Ero agitato e litigai un po’ con la carta e con il nastro prima di riuscire a scartare il pacchetto.
Nella scatola c’era un grosso orologio d’oro. Lo sollevai con cautela.
Mentre lo osservavo da vicino, notai un’incisione sul quadrante: era un’esortazione molto saggia e l’avrei vista tutte le volte che avessi controllato l’ora».
L’anziano signore sorrise e mostrò il suo vecchio orologio. C’erano delle parole un po’ svanite, ma ancora leggibili incise sul quadrante.
Quelle parole recavano in sé il segreto di un matrimonio felice.
Erano le seguenti: «Di’ qualcosa di carino a Lucia».
Di’ qualcosa di carino alla persona che ami. Adesso.


CHI NON PREGA?
Un contadino, durante un giorno di mercato, si fermò a mangiare in un affollato ristorante dove pranzava di solito anche il fior fiore della città. Il contadino trovò un posto in un tavolo a cui sedevano già altri avventori e fece la sua ordinazione al cameriere. Quando l’ebbe fatta, congiunse le mani e recitò una preghiera. I suoi vicini lo osservarono con curiosità piena di ironia, un giovane gli chiese: «A casa vostra fate sempre così? Pregate veramente tutti?».
Il contadino, che aveva incominciato tranquillamente a mangiare, rispose: «No, anche da noi c’è qualcuno che non prega».
Il giovane ghignò: «Ah, sì? Chi è che non prega?».
«Be’», proseguì il contadino, «per esempio le mie mucche, il mio asino e i miei maiali...».

Mi ricordo che una volta, dopo aver camminato tutta la notte, ci addormentammo all’alba vicino a un boschetto. Un derviscio che era nostro compagno di viaggio lanciò un grido e s’inoltrò nel deserto senza riposarsi un solo istante. Quando fu giorno gli domandai: «Che ti è successo?». Rispose: «Vedevo gli usignoli che cominciavano a cinguettare sugli alberi, vedevo le pernici sui monti, le rane nell’acqua e gli animali nel bosco. Ho pensato allora che non era giusto che tutti fossero intenti a lodare il Signore, e che io solo dormissi senza pensare a lui» (Sa’di).


SUL PATIBOLO
Il giorno delle nozze, un principe fece il suo ingresso nella capitale del suo regno accanto alla sposa novella.
I due sposi avanzavano in una splendida carrozza, mentre ai lati della strada due ali di folla applaudivano.
Ma, nella piazza davanti al castello, tutti ammutolirono.
Su un alto patibolo, un malfattore stava per essere impiccato. Il condannato aveva già infilato la testa nel cappio.
La principessa scoppiò in lacrime.
Il principe chiese al giudice se era possibile annullare l’esecuzione, come dono di nozze alla sua sposa.
La risposta fu un secco «no».
«Ci sono dunque delitti che non possono trovare perdono?», chiese la principessa con un filo di voce.
Uno dei consiglieri del principe fece notare che, secondo un’antica consuetudine della città, qualsiasi condannato poteva riscattarsi pagando la somma di mille ducati.
Una somma enorme. Dove si poteva trovare tanto denaro?
Il principe aprì la sua borsa, la svuotò e ne uscirono ottocento ducati.
La principessa, frugando nel suo elegante borsellino, ne trovò altri cinquanta.
«Non potrebbero bastare ottocentocinquanta ducati?», chiese.
«La legge ne vuole mille!», ribatterono.
La principessa scese e fece una colletta tra paggi, cavalieri e passanti.
Fece il conto finale: novecentonovantanove ducati.
E nessuno aveva più un ducato.
«Dunque per un ducato quest’uomo sarà impiccato?», esclamò la principessa.
«È la legge», rispose impassibile il giudice e fece cenno al boia di cominciare l’esecuzione.
A quel punto la principessa gridò: «Frugate nelle tasche del condannato, forse qualcosa ce l’ha anche lui».
Il boia ubbidì e da una delle tasche del condannato saltò fuori un ducato d’oro.
Quello che mancava per salvargli la vita.


LA PROPAGANDA
Al tempo della propaganda antireligiosa, in Russia, un commissario del popolo aveva presentato brillantemente le ragioni del successo definitivo della scienza. Si celebrava il primo viaggio spaziale.
Era il momento di gloria del primo cosmonauta, Gagarin. Ritornato sulla terra, aveva affermato che aveva avuto un bel cercare in cielo: Dio proprio non l’aveva visto. Il commissario tirò la conclusione
proclamando la sconfitta definitiva della religione. Il salone era gremito di gente. La riunione era ormai alla fine.
«Ci sono delle domande?».
Dal fondo della sala un vecchietto che aveva seguito il discorso con molta attenzione disse sommessamente: «Christòs ànesti», «Cristo è risorto». Il suo vicino ripeté, un po’ più forte: «Christòs ànesti».Un altro si alzò e lo gridò; poi un altro e un altro ancora. Infine tutti si alzarono gridando: «Christòs ànesti», «Cristo è risorto».
Il commissario si ritirò confuso e sconfitto.
Al di là di tutte le dottrine e di tutte le discussioni, c’è un fatto. Per la sua descrizione basterà sempre un francobollo: Christòs ànesti. Tutto il cristianesimo vi è condensato. Un fatto: non si può niente contro di esso.
I filosofi possono disinteressarsi del fatto. Ma non esistono altre parole capaci di dar slancio all’umanità: Gesù è risorto.


IL DUBBIO CHE PORTA AL TRAMONTO
Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione. Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa. Ben presto fu buio.
La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicchè non si poteva vedere assolutamente nulla. Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa. Nella caduta, l’alpinista poteva  appena vedere  delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità. Continuava a cadere…e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte. D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:
”Dio mio, aiutami!”
Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:
”Cosa vuoi che io faccia?”
“Mio Dio, salvami!”
“Credi realmente che io possa salvarti?”
“Sì, mio Signore. Lo credo”
Allora, recidi la corda che ti sostiene!”
Ci fu un momento di silenzio;
poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che  l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda…  A soli due metri dal suolo…


L’ARAZZO
Un giovane monaco fu inviato per alcuni mesi in un monastero delle Fiandre a tessere un importante arazzo insieme ad altri monaci.
Un giorno si alzò indignato dal suo scranno.
«Basta! Non posso andare avanti! Le istruzioni che mi hanno dato sono insensate!», esclamò. «Sto lavorando con un filo d’oro e tutto ad un tratto devo annodarlo e tagliarlo senza ragione. Che spreco!».
«Figliolo», replicò un monaco più anziano, «tu non vedi questo arazzo come va visto. Sei seduto dalla parte del rovescio e lavori soltanto in un punto».
Lo condusse davanti all’arazzo che pendeva ben teso nel vasto laboratorio, e il giovane monaco rimase senza fiato.
Aveva lavorato alla tessitura di una bellissima immagine della Pasqua e il suo filo d’oro faceva parte dei luminosi raggi attorno al Signore Risorto.
Ciò che al giovane era sembrato uno spreco insensato, era meraviglioso.

Tante cose della vita sembrano non avere senso.

L’UOMO NEL POZZO
Un uomo cadde in un pozzo da cui non riusciva a uscire.
Una persona di buon cuore che passava di là disse: «Mi dispiace davvero tanto per te. Partecipo al tuo dolore».
Un politico impegnato nel sociale che passava di là disse: «Era logico che, prima o poi, qualcuno ci sarebbe finito dentro».
Un pio disse: «Solo i cattivi cadono nei pozzi».
Uno scienziato calcolò come aveva fatto l’uomo a cadere nel pozzo.
Un politico dell’opposizione si impegnò a fare un esposto contro il governo.
Un giornalista promise un articolo polemico sul giornale della domenica dopo.
Un uomo pratico gli chiese se erano alte le tasse per il pozzo.
Una persona triste disse: «Il mio pozzo è peggio!».
Un umorista sghignazzò: «Prendi un caffè che ti tira su!».
Un ottimista disse: «Potresti star peggio».
Un pessimista disse: «Scivolerai ancora più giù».
Gesù, vedendo l’uomo, lo prese per mano e lo tirò fuori dal pozzo.

Il più grande bisogno del mondo
Un po’ più di gentilezza e un po’ meno avidità.
Un po’ più dare e un po’ meno pretendere.
Un po’ più sorrisi e un po’ meno smorfie.
Un po’ meno calci a chi è steso per terra.
Un po’ più «noi» e un po’ meno «io».
Un po’ più risate e un po’ meno pianti.
Un po’ più fiori sulla strada della vita.
E un po’ meno sulle tombe.


IL RUMORE DI UNA PORTA
Ho sentito il rumore di una porta che si chiude.
Ho pensato: qualcuno è uscito. ...
Succede di pensare sempre così al rumore di una porta che si chiude.
Ho vagato alla ricerca di chi mi avesse lasciato.
Ma le amarezze erano sempre lì, sedute di fronte.
Più in là ho scorto le solitudini che non si erano mosse di un centimetro. Erano lì anche le illusioni, sghignazzanti.
E più in là, in piedi, mi guardavano fisso, come statue di cera, i rimpianti.
Gli abbandoni e i tradimenti facevano ancora bella mostra di sé, vicino alla finestra.
Eppure, ho sentito il rumore di una porta che si chiudeva.
Allora sono andato a sbirciare nell’ angolo più scuro della stanza, ma i rimorsi erano sempre lì, con occhi di fuoco.
Vicino a loro le nostalgie confabulavano con i ricordi, i quali indicavano, compiaciuti, gli insuccessi e le sconfitte.
Al centro della stanza danzavano allegramente le rinunce e i rifiuti, al suono melodioso delle indifferenze e apatie.
Eppure, ho sentito il rumore di una porta che si chiudeva.
Ebbi paura alla sensazione che qualcuno si era seduto accanto a me.
Mi voltai e mi sentii dire:
" Coraggio: sono io, non aver paura "
Allora ho capito che il rumore di quella porta che si chiude è perché Qualcuno è entrato.


AL SUO POSTO
Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina.
In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevuto il significativo titolo di «Cristo delle grazie».
Arrivava gente da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.
Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiedere anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all’immagine, pregò: «Signore, voglio soffrire con te. Lasciami prendere il tuo posto. Voglio stare io sulla croce».
Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.
Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse: «Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione: qualunque cosa succeda, qualunque cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio».
«Te lo prometto, Signore». Avvenne lo scambio.
Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c’era Sebastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell’eremita. I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva. Finché un giorno...
Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenticò sul gradino la sua borsa piena di monete d’oro. Sebastiano vide, ma conservò il silenzio.
Non parlò neppure un’ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne andò.
Né aprì bocca quando davanti a lui si inginocchiò un giovane che chiedeva la sua protezione prima di intraprendere un lungo viaggio per mare.
Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l’uomo ricco che, credendo che fosse stato il giovane a derubarlo della borsa di monete d’oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.

Si udì allora un grido: «Fermi!».
Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare. Sebastiano spiegò come erano andate le cose.
Il ricco corse allora a cercare il povero.
Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio.
Quando nel santuario non rimase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò.
«Scendi dalla croce. Non sei degno di occupare il mio posto. Non hai saputo stare zitto».
«Ma, Signore» protestò, confuso, Sebastiano. «Dovevo permettere quell’ingiustizia?».
«Tu non sai» rispose il Signore, «che al ricco conveniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un’ingiustizia.
Il povero, al contrario, aveva un gran bisogno di quel denaro.
Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l’imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare».


LA SOLUZIONE
Un'allegra e vorace comunità di piccioni aveva eletto come domicilio il sagrato di una chiesa. Dopo i matrimoni, le fessure del lastrico si riempivano di chicchi di riso che facevano la gioia dei volatili.
Qualche chicco finiva anche oltre il portale della chiesa e, presi dall'entusiasmo, i piccioni finirono per entrare dentro la chiesa.
Qualcuno restava dentro anche durante le funzioni domenicali, e operava incursioni che disturbavano e distraevano i fedeli. Senza contare le «firme» oltraggiose lasciate sulle statue dei santi.
Il parroco, esasperato, convocò in seduta straordinaria il Consiglio Pastorale, mettendo all'ordine del giorno la soluzione del problema.
«Dobbiamo assolutamente fare qualcosa per impedire ai piccioni di entrare in chiesa!».
Parlò per primo un consigliere, forse discendente di Erode, che disse: «Buttiamo del riso avvelenato e facciamoli fuori tutti!».
L'anima francescana di molti consiglieri si ribellò con veemenza: «Questo mai! Portiamoli in qualche cascina in campagna dove vivranno felici e in compagnia!».
Ma anche questa soluzione non sembrò praticabile. Furono ugualmente bocciate la proposta di procurare un rapace opportunamente addestrato per catturare i piccioni, come pure quella di installare pesanti reti sulle porte e sulle finestre della chiesa.
Alla fine, quando cominciava a serpeggiare un silenzio imbarazzato, il più anziano del Consiglio domandò: «Insomma, voi volete che i piccioni non entrino più in chiesa?».
«Sì!» gridarono in coro i consiglieri.
«Volete proprio non vederceli mai più?».
«Sì!» urlarono i consiglieri, spazientiti.
«Allora è facile» replicò il vecchietto. «Fate così: battezzateli, fategli fare la Prima Comunione, cresimateli e in chiesa non li vedrete mai più...».

E' proprio così...


LA MORTE DELLA PARROCCHIA
Sui muri e sul giornale della città comparve uno strano annuncio funebre: «Con profondo dolore annunciamo la morte della parrocchia di Santa Eufrosia. I funerali avranno luogo domenica alle ore 11».
La domenica, naturalmente, la chiesa di Santa Eufrosia era affollata come non mai. Non c’era più un solo posto libero, neanche in piedi. Davanti all’altare c’era il catafalco con una bara di legno scuro.
Il parroco pronunciò un semplice discorso: «Non credo che la nostra parrocchia possa rianimarsi e risorgere, ma dal momento che siamo quasi tutti qui voglio fare un estremo tentativo. Vorrei che passaste tutti quanti davanti alla bara, a dare un’ultima occhiata alla defunta. Sfilerete in fila indiana, uno alla volta e dopo aver guardato il cadavere uscirete dalla porta della sacrestia. Dopo, chi vorrà potrà rientrare dal portone per la Messa».
Il parroco aprì la cassa. Tutti si chiedevano: «Chi ci sarà mai dentro? Chi è veramente il morto?».
Cominciarono a sfilare lentamente. Ognuno si affacciava alla bara e guardava dentro, poi usciva dalla chiesa.  Uscivano silenziosi, un po’ confusi.

Perché tutti coloro che volevano vedere il cadavere della parrocchia di Santa Eufrosia e guardavano nella bara, vedevano, in uno specchio appoggiato sul fondo della cassa, il proprio volto.
«Anche voi, come pietre vive, formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pietro 2,5).
Se c’è polvere nelle sale della tua parrocchia, c’è polvere sulla tua anima.


IL PASSEROTTO BEIGE
C’era una volta un passerotto beige e marrone che viveva la sua esistenza come una successione di ansie e di punti interrogativi.
Era ancora nell’uovo e si tormentava: «Riuscirò mai a rompere questo guscio così duro? Non cascherò dal nido? I miei genitori provvederanno a nutrirmi?».
Fugò questi timori, ma altri lo assalirono, mentre tremante sul ramo doveva spiccare il primo volo: «Le mie ali mi reggeranno? Mi spiaccicherò al suolo... Chi mi riporterà quassù?».
Naturalmente imparò a volare, ma cominciò a pigolare: «Troverò una compagna? Potrò costruire un nido?».
Anche questo accadde, ma il passerotto si angosciava: «Le uova saranno protette? Potrebbe cadere un fulmine sull’albero e incenerire tutta la mia famiglia... E se verrà il falco e divorerà i miei piccoli? Riuscirò a nutrirli?».
Quando i piccoli si dimostrarono belli, sani e vispi e cominciarono a svolazzare qua e là, il passerotto si lagnava: «Troveranno cibo a sufficienza? Sfuggiranno al gatto e agli altri predatori?».
Poi, un giorno, sotto l’albero si fermò il Maestro. Additò il passerotto ai discepoli e disse: «Guardate gli uccelli del cielo: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai... eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre!».
Il passerotto beige e marrone improvvisamente si accorse che aveva avuto tutto... E non se n’era accorto.


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