Le recensioni di Vito Mancuso


Avevo perso di vista il teologo "eterodosso" Vito Mancuso, editorialista per La Repubblica. L'ho ritrovato casualmente come recensore di alcuni libri (e riflessioni culturali) interessanti:
1. Il Dante laico un eretico in ParadisoCollocò i papi all’inferno, separò teologia e politica e le sue opere furono bandite (La Repubblica, 27 maggio 2017)
2. Quei padri troppo ansiosi di essere amici dei figliL’enigma di un genitore. La recensione del prof. Vito Mancuso al nuovo libro di Massimo Recalcati 
Schermata 2017-03-30 alle 22.09.51Essere figli, ovvero l’arte di vivere e di nutrire la vita: è questa la posta in gioco. Infatti ben prima di avere uno o più figli, a tutti si impone il fatto di essere figlio, di essere figlia, vale a dire di ricevere la vita, il corpo e il carattere da “Altro”, come scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro (“Il segreto del figlio”, Feltrinelli) usando sempre regolarmente la maiuscola. Qual è il senso di questa maiuscola? Nessuna somiglianza con il “totalmente Altro” mediante cui Rudolf Otto o Max Horkheimer alludevano al “Numinoso”, nulla a che fare con Dio. Tuttavia l’uso così reiterato del maiuscolo segnala pur sempre una trascendenza, il desiderio di indicare qualcosa di più grande di noi che ci attraversa e ci fonda nella nostra più intima identità. Vale a dire: la nostra più intima identità non è nostra. È Altro. Ecco il mistero, il segreto dell’essere uomini in quanto tutti inevitabilmente figli. Tutta la parabola della modernità occidentale è stata vissuta all’insegna dell’uscita dalla condizione di figlio su cui il cristianesimo aveva strutturato fino ad allora la coscienza occidentale: Dio come Padre e la Madonna come Madre, con tutta la storia dell’arte a testimone. Si pensi, di contro, alle celebri parole con cui Kant apre lo scritto sull’Illuminismo del 1784: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minore età». Ovvero l’uscita dalla condizione di figlio.L’Occidente non ha più voluto concepire la propria identità all’insegna dell’essere figlio e così la sua maggiore età ha coinciso logicamente con l’abbandono del Padre. Sto parlando della “morte di Dio”, proclamata prima sommessamente da Hegel con il saggio Fede e sapere del 1802, poi trionfalmente da Nietzsche con La gaia scienza del 1882. Il non voler più essere figli ha significato necessariamente la morte di Dio.
Ma la questione al centro del libro di Recalcati è la figliolanza e al riguardo io chiedo: è naturale, per chi è inevitabilmente e primariamente figlio, non riconoscere che la sua identità passa necessariamente dal rapporto di dipendenza in quanto rapporto con “Altro”? Non lo è, e forse il sempre più manifesto malessere che circonda l’esistenza occidentale dipende proprio dall’oblio della nostra condizione di figli. Anzi, forse con i nostri figli non sappiamo più avere un rapporto autorevole e che sia per loro realmente di guida (mentre indugiamo nella retorica del dialogo e dell’empatia così fortemente criticata da Recalcati) proprio perché a nostra volta non sappiamo più essere figli e rapportarci a un padre, cioè a una dimensione più importante di noi. La morte di Dio all’interno di una civiltà non è una cosa da poco e non passa senza conseguenze anche per le minute esistenze dei singoli.
Il punto non è certo il ritorno alla fede in Dio del passato, quanto piuttosto la necessità di una gerarchia mentale che faccia evitare quella «sorta di immedesimazione confusiva frutto di un’orizzontalizzazione del legame che smarrisce ogni senso di verticalità», con la conseguente «retorica pedagogica del dialogo oggi imperante». Il concetto centrale del libro infatti è che con i figli non si tratta tanto di dialogare e di cercare empatia, quanto piuttosto del «riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita altra, straniera, distinta, differente». Si tratta cioè di arrivare a comprendere che il figlio è «un mistero che resiste a ogni sforzo di interpretazione», è «un segreto indecifrabile che deve essere rispettato come tale». Parole antiche, che fanno venire in mente il Profeta di Gibran: «I vostri figli non sono i vostri figli… Essi non vengono da voi, ma attraverso voi, e non vi appartengono».
Ma la domanda è: la nostra cultura, così priva del senso dell’Altro e ossessionata dal desiderio di avere perché tutto ha un prezzo e si può comprare pagando (anche un figlio!), è in grado di concepire ancora il significato di termini come “mistero” e “segreto”, e di fermarsi con rispetto di fronte alla realtà indisponibile cui rimandano? Recalcati sostiene anche che essere figli significa essere eredi, il che comporta non solo ereditare dei beni ma anche costruirsi una propria e diversa identità perché «il figlio giusto è un erede, ma è anche sempre un eretico», non si limita cioè a ripetere il passato, ma lo riprende attualizzandolo originariamente nel suo presente. Si tratta quindi di evitare due estremi: da un lato ignorare completamente il padre, dall’altro rimanere appiattiti sull’identità paterna dimenticando che la condizione di figlio «esige sempre il diritto alla rivolta». Occorre avere un padre e al contempo superarlo, occorre avere un dogma e al contempo contestarlo, perché solo così si costruisce la personalità matura: mediante questo legame vero ma libero e creativo con il padre e con ciò che simboleggia in termini di passato, tradizione, autorità, legge. Appartenenza ed erranza. Ma perché questa delicata dialettica possa aver luogo, i figli, ben lungi dall’avere nei genitori dei comodi fornitori di servizi, «necessitano di trovare nei propri genitori degli ostacoli».
Quale tipo di ostacoli? Qui sta la differenza tra Edipo e il figlio ritrovato della parabola evangelica (tradizionalmente detto “figliol prodigo”) attorno ai quali è costruito il libro. Entrambi vivono l’esigenza insopprimibile di abbandonare la casa per costruirsi un’identità diversa da quella preparata per loro, ed entrambi iniziano il loro percorso con una trasgressione. Ma mentre nel caso di Edipo la legge del destino inesorabilmente si compie, nella parabola evangelica si assiste a un superamento della legge da parte del padre. Per favorire il compiersi dell’identità del figlio, il padre accetta la ribellione del figlio e divide in due le sue sostanze, anzi «soprattutto se stesso». Se però da parte del padre non c’è nessuna intransigente opposizione nel nome della Legge, non c’è neppure l’appiccicosa e fatua complicità di chi vuol compiere le stesse bravate del figlio. Il padre prende sul serio l’esigenza della libertà del figlio di provare se stesso ma rimane padre, non si trasforma in amico, e così rimane ancora fedele al suo ruolo di “ostacolo”. E proprio di questo il figlio ha bisogno, perché «non si può essere figli giusti se si rinnega il padre».
Eccoci al punto. Secondo Recalcati il dramma specifico dei nostri giorni consiste nel fatto che «i nostri figli vivono il dramma del vuoto della Legge», una nuova specie di smarrimento data dall’assenza di codici, valori stabili, punti di riferimento. Per questo, se il compito dei genitori è di «avere fede nel segreto incomprensibile del figlio», occorre essere consapevoli che questo compito sarà espletabile non sulla base dell’ideologia orizzontale del dialogo e dell’empatia, ma solo sulla base di una fede nell’Altro quale nuova legge della relazione umana. 
Vito Mancuso, Repubblica 30 marzo 2017
3. Amore o guerra il bivio fatale della teologia La pace fra le tre grandi religioni è l'unica ricetta contro il terrore. La recensione di Vito Mancuso al nuovo saggio di Jonathan Sacks
Schermata 2017-05-07 alle 10.02.46La questione al centro del nuovo libro di Jonathan Sacks ce la siamo posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni rabbino capo della “United Hebrew Congregations of the Commonwealth” e che è una delle voci più autorevoli dell’odierno dibattito teologico internazionale, assume una certa perentorietà. Eccola: “L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia”. Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che vogliono la pace e che però producono guerra e terrorismo? La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più; anzi, per Sacks il XXI secolo è “l’inizio di un processo di de-secolarizzazione” di cui la prova principale si chiama demografia: “In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità”, mentre “dove le comunità religiose scompaiono segue prontamente il declino demografico”. La religione quindi sarà sempre più rilevante ed è per questo urgente scioglierne le ambiguità: e se alla violenza da essa prodotta si deve rispondere militarmente per arginarne l’effetto, per estirparne in radice la causa si deve rispondere teologicamente: “Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore”…
Naturalmente la religione non è la causa diretta della violenza, visto che nessun secolo è stato meno religioso, e al contempo più violento, del Novecento. La radice della violenza non è la religione, la questione è molto più complicata, ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti in quanto animali sociali. È cioè la nostra tendenza a formare gruppi all’origine della civiltà a essere al contempo all’origine della violenza: “L’altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo e allo stesso tempo ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite come minacce al gruppo”. Quella volontà di relazione che positivamente genera coppie, famiglie, amicizie, comunità e che vince l’isolamento e ci fa sentire vivi, altrove causa aggregazioni sotto forma di banda, branco, clan, brigata che d’istinto fanno percepire gli altri come nemici. Un’umanità senza gruppi è impossibile, ma un’umanità strutturata per gruppi è naturalmente violenta. E il punto è che la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza: per questo appare come la maggiore generatrice di comunione e solidarietà, e insieme di intolleranza e di violenza. 
Contro questa ambiguità strutturale della natura umana manifestata dalla religione in sommo grado, Sacks propone “una teologia dell’Altro” il cui fine è generare un desiderio di immedesimazione verso chi, per l’istinto naturale, è solo un nemico: “Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro”. Questa teologia dell’Altro opera a livello metodologico spingendo a uscire dalla logica istintuale Noi-Loro per abbracciare la prospettiva spirituale che sa leggere la realtà anche dal punto di vista altrui, segno della vera saggezza e della vittoria sul “gene egoista” all’opera dentro ognuno di noi. È ciò che le religioni chiamano “conversione”. 
Il punto decisivo però è che le religioni capiscano che sono proprio loro, oggi, a doversi convertire per porre fine alla lotta reciproca simile a “rivalità tra fratelli”. Le tre religioni monoteistiche infatti sono “fratelli in competizione” per accaparrarsi il ruolo di vero depositario della rivelazione divina, nella convinzione che all’interno dell’umanità vi sia una posizione privilegiata: “il figlio preferito, il popolo eletto, il custode della verità”. Per questo la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam è stata finora all’insegna del superamento reciproco: “Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande: il cristianesimo ha fatto così con l’ebraismo, l’islam lo ha fatto con entrambi”. Il XXI secolo però, dice Sacks, “invita a una nuova lettura”. 
Egli dà l’esempio proponendo una “controlettura” di alcuni testi decisivi della Bibbia ebraica, perché “i testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione”. Tramite questa rilettura Sacks mostra in modo magistrale che ciò che i testi realmente dicono non è quanto recepito nei secoli passati all’insegna della differenza Noi/Loro e ancora oggi alla base della rivalità mimetica tra le tre religioni abramitiche, ma, esattamente al contrario, è il superamento di questa logica istintuale in vista della pace e della concordia.
È decisivo notare però che il criterio di questa sua “contro-narrazione” è qualcosa di esterno al testo sacro, è un’esigenza umana e divina che si chiama pace. Non è cioè la coerenza del testo in sé, non è neppure la tradizione interpretativa: è la pace il criterio decisivo. Per questo per Sacks il primato spetta all’etica, in perfetta continuità con la migliore tradizione ebraica da Moses Mendelsohn a Hermann Cohen, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Questa esigenza etica fa scoprire che “la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione” in base a cui “la nascita di Isacco non destituisce Ismaele” e “la scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù”. Non c’è quindi alcun posto privilegiato da contendersi, c’è invece la riscoperta di un Dio universale e veramente padre di tutti. Ecco perché, afferma Sacks, “la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli”, laddove l’essenziale è comprendere che il secondo patto particolare è in funzione del primo patto universale, e non viceversa come tutte le religioni hanno finora sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone alle religioni: prima la fede era finalizzata al Noi, ora deve essere finalizzata al Tutti: al Noi + Loro. Sacks lo afferma nel modo più chiaro: “Ciò che è universale viene prima; non si può amare Dio senza prima rendere onore alla dignità universale dell’umanità”.
Il problema è che i testi sacri delle tre religioni monoteiste contengono non pochi passi che, interpretati in modo letterale, producono violenza e odio. A tale riguardo scrive giustamente Sacks: “Possiamo e dobbiamo reinterpretarli”. Occorre quindi una grande, onesta, bonifica dei testi sacri, segnalando in essi quei brani che incitano all’odio e alla violenza con il metterli tra parentesi, magari stampandoli in corpo minore, di certo accompagnandoli sempre con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia e le istituzioni religiose non possono più esimersi, è il lavoro teologico designato da Sacks come indispensabile al nostro tempo per salvaguardare la pace. Questo processo virtuoso nel linguaggio laico si chiama autocritica, nel linguaggio religioso conversione, in ebraico “teshuvà”. Il nuovo libro di Jonathan Sacks ne è un bellissimo esempio e non poteva venire che da parte ebraica. Saranno capaci il cristianesimo e l’islam che, a differenza dell’ebraismo si considerano religioni universali valide per tutti, di raccogliere la sfida? 
La questione che muove il nuovo libro di Jonathan Sacks se la sono posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni il rabbino capo della “United Hebrew Congregations of the Commonwealth” e che è una delle voci più autorevoli dell’odierno dibattito teologico internazionale con ben sedici lauree ad honorem, assume una certa perentorietà. Eccola: “L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia” (22). Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che fanno della pace il loro fine (l’islam la porta scritta persino nel nome, visto che la radice “s-l-m” è la medesima di “salam”, pace) e che però producono conflittualità, guerra, terrorismo? 
La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più. Secondo Sacks il XXI secolo sarà “l’inizio di un processo di de-secolarizzazione”, l’inversione cioè di quel processo detto secolarizzazione in quanto fu in base al “saeculum”, cioè al mondo e alla sua temporalità, che l’uomo moderno prese a comprendere se stesso, non più in base a Dio e alla sua eternità. Ai nostri giorni le cose per Sacks stanno radicalmente mutando a causa del fallimento delle società occidentali rispetto al più radicale bisogno umano: “la ricerca di un’identità”. La principale prova del sorpasso della religione sulla secolarizzazione si chiama demografia: “In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità” (30), mentre “dove le comunità religiose scompaiono, segue prontamente il declino demografico” (50), sicché è inevitabile constatare che, “con la sola eccezione degli Stati Uniti, l’Occidente non sta tenendo conto dell’imperativo darwiniano di trasmettere i propri geni alla generazione successiva” (30). 
Insomma il futuro presenterà più religione e proprio per questo è quanto mai necessario sciogliere le ambiguità della religione. Questo è il lavoro da fare e si tratta di un lavoro teologico. Alla violenza prodotta dalla religione si risponde militarmente per arginarne l’effetto, ma si deve rispondere teologicamente per estirparne la causa. Scrive Sacks: “Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore” (30), e questo perché “le armi vincono le guerre, ma ci vogliono idee per vincere la pace” (28). 
L’ipotesi di lavoro: “I testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione. Questo tuttavia esigerà una rilettura radicale” (35). 
“Una teologia dell’Altro è ciò che propongo in questo libro” (36), laddove questa teologia dell’Altro è operante anzitutto a livello metodologico, spingendo l’interprete a uscire dalla logica ristretta Noi-Loro imposta dall’istinto naturale per abbracciare invece la prospettiva spirituale di chi sa immedesimarsi nell’Altro, leggere le cose non più solo dal proprio punto di vista ma anche da quello altrui, il che è poi la vera conversione, la vittoria sull’egoismo fondamentale, su quel “gene egoista” che opera dentro ognuno di noi.   
Perché l’uomo è violento? “Siamo potenzialmente violenti perché, in quanto animali sociali, formiamo gruppi per competere per le risorse contro altri gruppi” (43). Il nostro altruismo da un lato ci porta a formare gruppi ma dall’altro è la medesima radice che ci porta a lottare contro altri gruppi. Il medesimo uomo, che da solo sa controllare il suo istinto violento, quando è in gruppo (sia esso banda, branco, clan, plotone, brigata…) non ha più freni e anzi pratica senza scrupoli quella violenza che da solo gli risulterebbe impossibile. Il branco, il gruppo, trasforma. 
“Ciò che c’è di meglio in noi e ciò che c’è di peggio derivano entrambi dalla stessa fonte: la nostra tendenza a costituirci in gruppi… La moralità trasforma l’Io dell’interessa personale nel Noi del bene comune, ma l’atto stesso di creare un Noi crea simultaneamente un Loro… sicché persino le più universalistiche delle religioni, e qui Sacks intende evidentemente il cristianesimo, sono state capaci di vedere coloro che erano al di fuori della fede come Satana, l’infedele, l’anticristo” (193).   
“Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro” (193). 
“Un’etica umanitaria, al contrario di un’etica di gruppo, richiede il più difficile di tutti gli esercizi di immaginazione: il rovesciamento dei ruoli – mettersi al posto di coloro che disprezzi” (197). Sacks riconosce che le religioni solitamente, ben lungi dal fare ciò, lo rendono addirittura quasi impossibile perché “è difficile identificarsi con qualcuno che noi crediamo essere fondamentalmente in errore” (197). Le religioni vogliono convertire gli altri, non identificarsi con loro. La riposta di JS ha invece un’effettiva originalità sia per la fondazione che presenta sia per la tesi che sostiene: Ma si tratta di qualcosa di risolutivo? Avendo dichiarato ciò, si è forse trovata la strada per la risoluzione definitiva del rapporto tra i tre monoteismi? Io penso di no. E per i seguenti motivi.Il motivo fondamentale: non ci sono fratelli maggiori tutti i fratelli hanno pari dignità. E qui siamo alla parabola dei tre anelli, non ci sono cose nuove rispetto a quanto insegnava la favola dei tre anelli ripresa da Boccaccio nel Decamerone (anno) e resa ancora più famosa da Lessing che costruì attorno a essa il dramma Nathan il saggio (anno). Qui l’idea è quella che i tre monoteismi depongono la pretesa di essere la religione autentica e prendono a rispettarsi e a stimarsi reciprocamente perché nessuno sa qual è dei tre anelli l’originario e quali invece solo copie. 
Ma se facessimo un passo avanti e arrivassimo a dire che quegli anelli sono tutti e tre delle copie perché non esiste nessun anello di un padre consegnato a un figlio, ma esiste una ricerca a tastoni, inquieta, contraddittoria, e tuttavia autentica e foriera di effettive tracce, sentieri che conducono in avanti per quanto tutti designati a interrompersi nel bosco della vita. Se dicessimo che tutte le religioni sono sentieri verso una cifra che nessuno finora ha raggiunto e che nessuno raggiungerà, un po’ come il monte Kailash in Tibet, la montagna sacra a tre religioni (buddhismo…) che nessuno ha mai voluto raggiungere per far vivere il senso dell’ineffabile e del mistero incontaminato e indisponibile, unica vera immagine del Divino. L’ineffabile, mistero sommo, che nessuna religione… le religioni si devono convertire a qualcosa di più importante che le scavalca e di cui esse si devono mettere al servizio. I libri sacri non sono la verità, piuttosto contengono la verità, tracce di verità, in mezzo peraltro a tracce di falsità, e il compito della ricerca spirituale è fornire i criteri per l’interpretazione autentica, i quali criteri non possono che essere il bene, la giustizia, il rispetto incondizionato della vita. 
Il 21 secolo si salverà solo se saprà ritrovare questo senso… non del relativismo (che peraltro si genera come reazione a un precedente assolutismo) quanto piuttosto della relatività e della relazione tra tutte le strade, tutte buone e tutte cattive, tutte in parte vere e tutte in parte false, e soprattutto tutte relative a un più originario senso del bene e della giustizia. Il rabbino Jonathan Sacks (bio) inizia il suo nuovo libro citando Pascal: “Gli uomini non fanno mai il male così completamente ed entusiasticamente come quando lo fanno per una convinzione religiosa”. È vero, a patto di includere sotto la categoria di religione anche ogni tipo di ideologia politiche totalitarie 
“La religione sotto la forma del politeismo è entrata nel mondo come giustificazione del potere… era la giustificazione trascendentale dello Stato”; di contro, “il monoteismo abramitico emerse come una potente protesta… come rifiuto dell’imperialismo e dell’uso della forza che rendeva alcuni uomini padroni e altri schiavi” (14). Non è vero, perché anche la Bibbia conosce e tollera la schiavitù, sia la Bibbia ebraica sia il Nuovo Testamento. Manca nel libro di Sacks un adeguato confronto con la tesi di Jan Assmann, già avanzata da David Hume, secondo cui il monoteismo è necessariamente intollerante con il suo comandare “Non avrai altro Dio”. Le religioni si devono convertire e il libro di Jonathan Sacks è un grande esempio di conversione. La sua forza sta nella volontà di reinterpretare i testi sacri nella direzione della pace e della concordia, al fine di mostrare che ciò che realmente dicono non è quanto è stato recepito nei secoli passati (Noi/Loro), è una contro-lettura. Fino a quando la religione ragiona in base al noi, è di questo mondo. La religione inizia il suo vero compito quando scioglie il noi, il grosso animale, e colloca il singolo nella sua irriducibile alterità di fronte al mistero dell’essere e del nulla, della vita e della morte. La più bella definizione di religione che io conosca è quella coniata dal matematico e filosofo Alfred Whitehead: “Religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine”. Religione significa legame, relazione, e scegliere di legare la propria intimità non alla logica dell’istinto naturale Noi/Loro ma a quella della cultura spirituale che la supera significa compiere la più sorprendente e liberante relazione, il modo più leggero e più innovativo di stare al mondo, quello di persone come Gandhi, Martin Luther King, Martin Buber, Yoshua Heschel, Oscar Romero (cfr elenco in fondo al libro).  
42: “Ogni gruppo comporta l’aggregazione di più individui per formare un Noi collettivo. Ma ogni Noi si definisce di fronte a un Loro”. Lo stesso vale per l’Io, anche l’Io si definisce di fronte a un Tu, Io-Tu diceva Martin Buber.
55: “L’altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo, mentre, allo stesso tempo, ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite minacce al gruppo” (55). 
51: “La violenza non ha nulla a che vedere con la religione in sé; ha a che fare con l’identità e la vita nei gruppi”; il punto però, come fa notare subito dopo Sacks, è che “la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza”, ed è per questo che appare come la maggiore generatrice di intolleranza e di violenza. Ma è la storia recente a mostrare con evidenza palmare come l’eliminazione della religione non risolva per nulla il problema della violenza, anzi l’accresca, visto che nessun secolo è stato meno religioso e al contempo più violento del Novecento. 
53: “La tendenza degli uomini a formare gruppi, di cui la religione è uno degli aspetti più efficaci, è una fonte di violenza e di guerra. Ma l’alternativa – un’umanità senza gruppi o identità – è impossibile”, e lo è perché è contraria alla logica della vita che è l’aggregazione. Infatti nell’Occidente senza più religione si soffre per assenza di significato, materialismo, narcisismo, corruzione. 
Girard: Non è la religione che dà origine alla violenza, è la violenza che dà origine alla religione, essendo l’atto religioso primario il sacrificio, in particolare il sacrificio umano: è da questo atto di violenza che nasce la religione, la quale si assume il compito di deviare la violenza interna che distruggerebbe il gruppo verso qualcosa di esterno, definito classicamente come capro espiatorio (86-87). 
“Girard ha poi anche indicato che una delle prime forme di conflitto non è tra padre e figlio ma tra fratelli” (101). Quattro esempi biblici nel libro della Genesi: Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli; a cui si può aggiungere il mito di Romolo e Remo per quanto riguarda la storia romana. Anche l’osservazione di molte specie animali mostra come “l’atto di violenza primario sia il fratricidio non il parricidio” (103). 
“L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam si definiscono tutti attraverso una serie di racconti relativi al fattore identificato da Girard come radice della violenza, la rivalità fraterna. È qui che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione se vogliamo comprendere e sanare l’odio che porta alla violenza nel nome di Dio” (105). Il che vale però per il rapporto tra i tre monoteismi, ma non per altre forme di violenza religiosa che riguardano le religioni monoteiste nel loro rapporto con religioni non monoteiste, per esempio i conflitti tra musulmani e hindu nella regione del Kashmir o quelli tra musulmani e buddhisti in Myanmar.  Il libro riporta anche una documentazione sconvolgente su ciò che viene definita “giudeo fobia” del mondo arabo e islamico
C’è una lotta delle religioni per accaparrarsi il ruolo di reali discendenti di Abramo. Agli ebrei che fanno discendere se stessi da Abramo e da suo figlio Isacco contrapposto al figlio Ismaele avuto dalla schiava egiziana, san Paolo nella Lettera ai Galati contrappone un nuovo parallelismo, quello tra Ismaele e gli ebrei, e quello tra Isacco e i cristiani. Commenta Sacks: “Probabilmente è difficile per un cristiano capire come si sente un ebreo quando legge testi come questi: ci si sente come diseredati, violati, derubati dell’identità” (109). Ma aggiunge poco dopo: “L’ironia della storia che l’islam più tardi facesse al cristianesimo qualcosa di non molto diverso da quello che Paolo aveva fatto all’ebraismo” (111), dicendo che Gesù non era il figlio di Dio ma un profeta in funzione del più grande di tutti i profeti, Muhammad, e che i cristiani hanno falsificato Gesù elevandolo a figlio di Dio. 
Citazione di p. 112: “la loro relazione è quella di una rivalità tra fratelli, carica di desiderio mimetico: il desiderio per la stessa cosa, la promessa di Abramo”. Le tre fedi abramitiche sono “fratelli in competizione” (112). “Al centro di tutte e tre le fedi c’è l’idea che all’interno dell’umanità c’è una posizione privilegiata: il figlio preferito, il popolo eletto, il custode della verità” (112). 
“Così è stata la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam. Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande. Il cristianesimo ha fatto così con l’ebraismo. L’islam lo ha fatto con entrambi” (113), ma Sacks non dice che in precedenza l’ebraismo aveva fatto con le religioni dei popoli circostanti ritenute idolatrie, vanità, superstizioni. Forse la chiave di tutto sta nella necessaria rivalutazione delle religioni non abramitiche, forse è Abramo con la sua pretesa di essere diverso il problema di fondo.  
“Il XXI secolo ci invita a una nuova lettura” (117). Ciò che guida la lettura è qualcosa di esterno al testo. Il testo acquista un significato e ne perde un altro in base a qualcosa di esterno a esso, in base a un’esigenza del soggetto, un’esigenza che si chiama pace. O anche bene, giustizia, amore. Non è la coerenza del testo in sé, non è neppure la tradizione interpretativa, è la pace il criterio decisivo. Per questo secondo Sacks l’etica riveste tanta importanza da diventare il faro verso cui orientare ogni altra considerazione, facendosi in questo il continuatore della migliore tradizione ebraica, da Mendelsohn, a Buber, Heschel, Jonas e Levinas. 
Sacks scrive che “la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione” (124); “Contro-narrativa” (135); “La nascita di Isacco non destituisce Ismaele” (137);“La contro-narrazione allude alla più profonda delle verità del monoteismo: che Dio può scegliere, ma che Dio non respinge” (138); “La scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù” (157). 
“All’apparenza la Genesi è una serie di racconti in cui il più vecchio è soppiantato dal più giovane. Al di là dell’apparenza, in una serie di contro narrazioni, narra la storia opposta… narrazioni che rivelano il loro pieno significato solo a coloro che si sono sottoposti a un lungo processo di crescita morale” (188). Ecco quindi il criterio decisivo che guida la lettura: l’etica, il bene, la giustizia, la pace. “L’effettivo lavoro teologico di questo libro sta qui, nell’attenta lettura dei testi biblici, specialmente quelli il cui tema è la rivalità fraterna. Questo è ciò che ha portato alla lotta tra ebrei, cristiani e musulmani, ed è qui che troveremo la soluzione” (123).“Il modo in cui impariamo a non commettere il male è lo sperimentare un evento dalla prospettiva della vittima” (174). 
Sacks distingue l’amore dalla giustizia e sostanzialmente dice che è giusto con tutti, ma ama di più Israele. 
Poi omette di analizzare le dure pagine della Bibbia ebraica che grondano di violenza, come il massacro di circa 3000 israeliti da parte di Mosè e dei leviti (Esodo 32,28), i proclami di distruzione totale delle città e di esecuzione dei prigionieri compresi donne e bambini (Deuteronomio 7), il massacro di 450 sacerdoti di Baal da parte del profeta Elia e delle sue milizie (1 Re 18,40). Io penso che il problema della violenza religiosa è così grave da richiedere ancora più coraggio rispetto al già molto coraggio mostrato da Sacks. Fino a quando non si giungerà a dichiarare che i testi sacri contengono pagine inaccettabili dal punto di vista del primato dell’etica e del bene del mondo, non si completerà quel lavoro teologico giustamente designato da Sacks come indispensabile per il nostro tempo. La teologia deve richiamare le religioni all’autocritica, a ciò che nel linguaggio religioso si chiama conversione, nel greco biblico metanoia, in ebraico teshuvà.    
Dio è universale, ma la nostra relazione con lui è particolare… Ecco perché la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli (209), laddove l’importante è comprendere che il patto particolare è in funzione del patto universale, e non viceversa come tutte le religioni (ognuna dal punto di vista del proprio patto particolare) hanno finora sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone alle religioni: prima tutto era finalizzato al Noi (sia questo Noi ebraico, cristiano o musulmano), ora tutto deve diventare finalizzato al Tutti, al Noi + Loro. Sacks lo afferma nel modo più chiaro: “Ciò che è universale viene prima; non si può amare Dio senza prima rendere onore alla dignità universale dell’umanità” (215). 
“Non siamo tutti uguali. Ci siamo Noi e Loro. Ma Dio è universale e particolare, il che significa che lo si può trovare tra Loro come tra Noi. Dio trascende le nostre particolarità” (219).  
“Le letterature sacre dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam contengono tutte dei passi che, interpretati in modo letterale, sono in grado di condurre alla violenza e all’odio. Possiamo e dobbiamo reinterpretarli” (233). Occorrerebbe una grande onesta bonifica dei testi sacri, segnalando quei passi che incitano all’odio e alla vendetta e mettendoli come tra parentesi, o stampandoli in corpo minore o accompagnandoli con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia non può più esimersi. Dove trovare l’energia necessaria per rovesciare la tendenza aggressiva in tendenza armoniosa e relazionale? Dove trovare l’energia necessaria per applicare la regola d’oro?
Vito Mancuso, La Repubblica 6 maggio 2017

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