Perché il male? Perché le malattie? Le risposte dei biblisti Manicardi, Bianchi e Maggi

Enzo Bianchi Luciano Manicardi "Accanto al malato"


SACRALITÀ DELLA VITA O DELL’UOMO?

Perché le malattie?
Dagli inizi dell’umanità ci si è posto l’interrogativo: perché il male? Perché le malattie?
Non potendo trovare la risposta nell’umano, si è ricercata nel divino, nella religione anziché nella condizione esistenziale dell’uomo. E la risposta della religione fu che esistevano due divinità, una buona, ed era il Dio Creatore, quello della Vita, del Benessere, della Salute, e una divinità malvagia, ed era il Dio della Morte, della Malattia, della Povertà. Questa spiegazione era molto semplice, ma risolveva efficacemente il problema del perché della malattia, e della morte.

Il Dio unico di Israele
I problemi cominciarono a sorgere in Israele quando progressivamente questo popolo arrivò alla concezione di un unico Dio, il dio d’Israele, JHWH. Eliminata la divinità negativa, tutto, il bene e il male, la vita e la morte, la salute e la malattia, vennero attribuite a questo solo Dio: “Bene e male, vita e morte, tutto proviene da JHWH  ” (Sir 11,14).
Il continuo progresso teologico e spirituale del popolo d’Israele lo portò poi mano mano a eliminare ogni elemento negativo nella figura del suo Dio, escludendolo definitivamente come autore del male, che però restava, con il suo contorno di malattia, di povertà, di morte, di disgrazie.

L’invenzione del Peccato
Per risolvere questo problema si creò una figura teologica che tanto ha influito e ancora purtroppo influisce nella vita dei credenti, quella del peccato inteso come trasgressione alla legge divina. Pertanto non era Dio l’autore del male, e delle malattie, ma l’uomo, con il suo peccato, era responsabile del giusto castigo divino. Per discolpare Dio del male, si accusava l’uomo: le malattie diventano così il castigo di Dio per i peccati degli uomini, come insegna la Bibbia: “Non giunge al giusto alcun malanno, gli empi invece son pieni di mali” (Pr 12:21); “Chi pecca contro il proprio creatore cade nelle mani del medico” (Sir 38,15).
L’obbedienza a Dio era pertanto garanzia di vita e di salute:
“Servirete JHWH, il vostro Dio, ed egli benedirà il tuo pane e la tua acqua; io allontanerò la malattia di mezzo a te” (Es 23:25); “Ascoltami, o figlio, non mi disprezzare, alla fine troverai vere le mie parole. Sii diligente in tutte le tue opere e la malattia non ti avvicinerà” (Sir 31:22).
Mentre la trasgressione alla legge divina era severamente punita: “Dopo tutto questo JHWH lo colpì [re Ioram] con una malattia intestinale inguaribile. Andò avanti per più di un anno; verso la fine del secondo anno, gli uscirono le viscere per la gravità della malattia e così morì fra dolori atroci” (2 Cr  21:18-19).
La realtà mostrava però la non veridicità e la fragilità di questa teologia, in quanto l’esperienza rivelava che gli empi vivevano lungamente tra agi e ricchezze, mentre le persone pie e buone soffrivano malattie, miseria e morte precoce. Questa incoerenza tra teologia ed esperienza dell’uomo venne corretta, inasprendo però la figura di Dio. Pur di non smentire la dottrina, si arrivò infatti a colpevolizzare l’uomo per colpe e peccati non suoi. Infatti il castigo di Dio si estendeva non solo sui colpevoli, ma anche sui loro diretti discendenti, pertanto non c’era scampo alla sua punizione: “YHWH è lento all’ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Nm 14,18; Dt 5,9; Es 20,5).

La contestazione di Ezechiele
Questa teologia molto primitiva e oggettivamente traballante e ingiusta venne contestata dal profeta Ezechiele per il quale ogni persona era responsabile del suo castigo:
“Voi dite: Perché il figlio non sconta l’iniquità del padre? – Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, ha osservato tutti i miei comandamenti e li ha messi in pratica, perciò egli vivrà. Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre, né il padre non l’iniquità del figlio! Sul giusto rimarrà la sua giustizia e sul malvagio la sua malvagità” (Ez 18,19-20).

La logica di Giobbe
Quindi ognuno sconta il proprio peccato. Ed era già un passo avanti. Ma anche questa teologia non era del tutto convincente, in quanto la pratica quotidiana dimostrava il contrario: persone malvage che vivevano bene e persone pie colpite da tutti le malattie. Sicché anche questa teologia viene contestata dall’autore del Libro di Giobbe (sec. V?), dove viene presentato l’uomo più buono e pio della terra, colpito da ogni sorta di male e malattia, a dimostrazione che non era vero che il male era una punizione per le colpe degli uomini, ma che andava fatalmente accettato: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (Gb 2,10).
Pertanto si tornava daccapo: tutto proveniva da Dio, il bene come il male, e il problema del perché il male e le malattie restò senza soluzione, continuando però a persistere la convinzione dello stretto legame tra la malattia, il peccato dell’uomo e quindi l’infermità come castigo divino.

La responsabilità della Chiesa
Questa relazione tra la malattia e la colpa dell’uomo è penetrata mettendo le radici nell’intimo delle persone, e nonostante Gesù abbia smentito categoricamente alcuna relazione tra la malattia e il peccato, questo fa che le persone quando vengono a conoscenza di essere affette da una malattia hanno dapprima una reazione di incredulità (Non è possibile!), poi di rifiuto/rabbia (Perché proprio a me?) e infine il devastante senso di colpa: Che cosa ho fatto di male per meritare questo?
Enorme è la responsabilità della Chiesa che ignorando il messaggio evangelico ha favorito la categoria veterotestamentaria della malattia come conseguenza del peccato. E così il concetto del castigo divino è stato inculcato generazione dopo generazione fin dalla più tenera età, cominciando dai bambini, che venivano al mondo già gravati da una colpa, il peccato originale, e ai quali veniva fin dalla più tenera età insegnato l’Atto di Dolore: Mi pento con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi… Questa orazione, strettamente legata al sacramento della Confessione, è stata trasmessa inalterata di generazione in generazione con l’unica leggera variante del passaggio dal voi al tu (da vostri a tuoi castighi).
La Chiesa è responsabile di aver continuamente alimentato il senso di colpa nelle persone, basta pensare la formula liturgica dell’atto penitenziale nella celebrazione eucaristica, il Confiteor, dove il fedele si deve battere il petto accompagnandolo dall’espressione: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni per mia colpamia colpamia grandissima colpa …”. Tutti, giovani e anziani, bambini e persone mature, tutti accomunati dalla grandissima colpa.

Religione imposta
Come è stata possibile questa deriva dal messaggio evangelico, portatore di gioia e serenità agli uomini, amati da Dio indipendentemente dal loro comportamento? Un Padre che, secondo Gesù, non ama gli uomini per i loro meriti, ma per i loro bisogni (Lc 18,9-14), un Dio che non solo non castiga i cattivi, ma che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (Lc 6,35)?
La frattura è databile tra il terzo e il quarto secolo, quando il cristianesimo da fede perseguitata si trovò a essere, per vicende storico-politiche, religione imposta. Ma non si può imporre nulla con il vangelo, tutto incentrato sull’amore di Dio, e allora si ricorre alla paura del castigo divino, al terrore che suscita l’idea di una pena eterna, senza fine, l’inferno.
Per questo gradualmente la Chiesa ha abbandonato il Vangelo di Gesù e si è orientata sempre più verso la Legge di Mosè. Mentre Gesù voleva portare Dio agli uomini, e l’unico modo per farlo era attraverso la misericordia, la Chiesa decise di portare gli uomini a Dio, attraverso l’obbedienza alla sua legge. Se Gesù aveva dichiarato, facendo sue le parole del Signore nel profeta Osea “Voglio la misericordia e non il sacrificio” (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7), la Chiesa dimenticò la misericordia e si incentrò tutta sul sacrificio, abbandonando di fatto il vangelo di Gesù per la Legge di Mosè, preferendo il Decalogo alle Beatitudini.

Spiritualità del dolore
La malattia venne così vista sempre più come necessaria espiazione per le offese recate a Dio, e il dolore anziché essere alleviato divenne la via maestra per la santificazione, sofferenza che se non era presente nella vita del credente andava ricercata, dando via libera a quanto di più tenebroso abita nel profondo dell’uomo, in un crescendo di sadomasochismo mascherato da spiritualità, e chiamato penitenza, sacrificio, mortificazione¸ vocaboli assenti in Gesù.
Sicché la malattia anziché essere combattuta, era vista come un dono, una strada privilegiata offerta da Dio per unirsi ai dolori e alle sofferenze di Gesù nella sua Passione, e le sofferenze venivano offerte a Dio quale espiazione per le proprie colpe, per la salvezza dei peccatori, e quella delle anime sante del purgatorio… Più si soffriva e più si era certi di essere in comunione con Dio.
Espressione di questa deriva è la risposta che Madre Teresa di Calcutta, diede a un malato di cancro che gridava i suoi dolori atroci: “Stai soffrendo come Cristo in croce, di sicuro Gesù ti sta baciando!” , e lui che risponde “Per favore digli di smettere di baciarmi”.
A giustificare tale delirio, si creò tutto un repertorio di espressioni o versetti biblici completamente estrapolati dal loro contesto, estraniati, manipolati, quali: È la volontà di Dio… Non cade foglia senza che Dio non voglia… È la croce del Signore… È una prova… Il Padre pota… ecc.
Il risultato è stato quello di una mistica del dolore, una spiritualità lugubre, listata a lutto, della quale ancora portiamo le conseguenze e che avrebbe bisogno di atti coraggiosi per sostituire formule teologiche e preghiere senz’altro degne di rispetto, di venerazione, ma non più in sintonia con il messaggio di Gesù e con la dignità dell’uomo. Se non si ha il coraggio di porre il vino nuovo in otri nuovi (Mc 2,22), si continua a intossicare l’animo delle persone con riti, liturgie, preghiere che vanno collocate con rispetto e onore nel museo della Chiesa ma non nella vita dei credenti.
Un esempio di formule venerande ma ormai inadeguate è la conosciutissima preghiera della Salve Regina (sec XI), composta dal monaco benedettino tedesco Ermanno di Reichenau, detto il contratto o lo storpio (lat.Hermannus Contractus) (1013 –1054),  venerato come beato. Figlio di nobili, nacque deforme e all’età di sette anni fu affidato al monastero benedettino di Reichenau. La sua grave malformazione fisica (non poteva stare eretto né tanto meno camminare) gli fece avere il soprannome, con cui è ancor oggi noto, di “contratto” Alla sua penna si deve la preghiera della Salve regina, dedicata alla Madonna:
Ad te clamamus, exsules filii Evae,
ad te suspiramus, gementes et flentes
in hac lacrimarum valle.
A Te ricorriamo, noi esuli figli di Eva;
a Te sospiriamo, gementi e piangenti
in questa valle di lacrime.

Questa preghiera si può comprendere benissimo datandola al tempo in cui fu scritta, dall’ambiente dove venne redatta e soprattutto da chi fu scritta, ma dopo mille anni avrebbe bisogno di essere se non pensionata almeno riveduta.
Questa spiritualità, che sguazza piamente nella valle di lacrime, vedrà il suo cantore in uno dei più grandi poeti del ‘300, Jacopone da Todi (1230-1306), che nel suo “O Signor per cortesia, mandami la malattia”, chiede a Dio di inviargli una cinquantina di malanni: dalla febbre continua all’idropisia, dal mal di denti al mal di testa e di ventre, la tisi, il fegato infiammato, gotta, emorroidi, ecc. Ma Jacopone non è soddisfatto e conclude il suo inno affermando: “Signore mio, non è una espiazione sufficiente questa sofferenza che ho descritto, perché tu mi hai creato per amore, e io ti ho ucciso per la mia folle ingratitudine”.
Nello stilare l’elenco dei malanni da chiedere al Signore per punirlo delle sue colpe, Jacopone si è ispirato alla cinquantina di maledizioni che il Signore scaglierà su quanti trasgrediranno la Legge divina, contenute nel Libro del Deuteronomio (Dt 28,15-68), elenco agghiacciante dove ogni malattia viene ricordata, dalla consunzione, la febbre, l’infiammazione, ulcere, scabbia, emorroidi “da cui non potrai guarire”, delirio, cecità, pazzia, ecc. Il sacro autore, preso dallo scrupolo di non aver elencato abbastanza disgrazie, scrive: “Anche ogni altra malattia e ogni altro flagello, che non sta scritto nel libro di questa Legge, JHWH manderà contro di te, finché tu non sia distrutto” (Dt 28,61).

Gesù e i malati
Al tempo di Gesù predomina la spiritualità farisaica, con la dottrina del merito e del castigo, e la malattia viene vista come espressione della punizione divina per il peccato, come insegna il Talmud: “Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica: Benedetto il giudice giusto” (Ber. 58b).
Questa dottrina non risparmiava neanche gli innocenti, quali i bambini: “Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione. Se non vi sono giusti, allora i bambini soffrono per il male dell’epoca” (Shab. 33b).
Nel vangelo di Giovanni si legge che, quando i discepoli vedono “un uomo cieco dalla nascita”, chiedono a Gesù se “ha peccato lui o i suoi genitori perché sia nato cieco” (Gv 9,1-3). La cecità non era considerata un’infermità come le altre ma, impedendo lo studio della Legge, era ritenuta una maledizione divina per le colpe dell’uomo. Gesù con la sua risposta esclude tassativamente alcun collegamento tra infermità e peccato: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (Gv 9,3).
Gesù non si occupa della dottrina, ma dell’uomo. Per questo non tratta della malattia ma si prende cura dei malati. Esclude in maniera categorica l’idea del castigo divino e soprattutto cambia il concetto del peccato: da offesa a Dio a offesa all’uomo (Mc 7,20-23).
Il Cristo inizia la sua attività liberando e guarendo le persone, come descrive l’evangelista Matteo: “E percorreva l’intera Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e proclamando la buona notizia del Regno e guarendo ogni malattia e infermità nel popolo” (Mt 4,23). C’è uno strettissimo legame tra l’annuncio del Regno di Dio, la società alternativa proposta da Gesù, e la guarigione. Gesù con il suo insegnamento e la sua attività smentisce la falsa immagine di Dio come colui che punisce con la malattia il peccatore. Dio è colui che libera dalle malattie non colui che le invia.
Gesù non chiede agli infermi di accettare la loro malattia come espressione della volontà divina, o di offrire a Dio le proprie sofferenze per salvare l’umanità peccatrice, ma lui si offre al malato per curarlo e guarirlo. Neanche afferma che queste sofferenze siano state loro inviate da Dio, come croce da portare per tutta la loro esistenza.
No. Gesù semplicemente guarisce.
Gesù non elabora una teologia del male o una spiritualità della sofferenza. Lui non dà spiegazioni, agisce. Non teorizza, lui risana. Là dove c’è morte lui comunica vita, dove c’è debolezza lui trasmette forza, dove c’è disperazione infonde coraggio, tanto da poter far esclamare a San Paolo “Quando sono debole, è allora che sono forte!”  (2 Cor 12,10).
L’azione del Cristo non è solo una risposta alle domande di aiuto (“Se vuoi, puoi purificarmi!”, Mc 1,40). Gesù precede le richieste degli infermi, risuscitando la speranza in chi aveva perduto ormai ogni illusione: “Vuoi guarire?” (Gv 5,6).

E la Legge?
Quel che caratterizza l’azione sanatrice di Gesù è che le guarigioni le ha quasi sempre compiute in un giorno in cui non solo era proibito curare, ma anche visitare i malati, il sabato. Considerato il comandamento più importante, quello che Dio stesso osservava, l’osservanza di questo unico comandamento equivaleva all’ubbidienza di tutta la Legge, mentre la sua violazione alla trasgressione di tutta la Legge e per questo era punita con la morte.
Tra l’osservanza della Legge divina e la salute e il benessere dell’uomo Gesù non ha mai avuto dubi ha sempre scelto quest’ultima, suscitando le proteste dei capi religiosi. “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato!” (Lc 13,14). Gesù sfida le autorità dichiarando che “È permesso fare del bene anche di sabato” (Mt 12,10). Il bene dell’uomo è per Gesù più importante dell’ubbidienza alla legge divina, e  per restituire vita agli infermi Gesù ha messo in pericolo la sua: “Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato” (Gv 5,16).
L’insegnamento dei vangeli è che ogni qualvolta ci si trova davanti al conflitto tra l’osservanza della dottrina e il bene concreto dell’uomo è questo che va scelto.
Associati all’azione vivificante del Padre, Gesù non invia i discepoli a convertire i peccatori, ma, come lui, a curare e a guarire, ad alleviare le sofferenze dell’umanità:
“E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi; “Essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni” (Lc 9,2.6).
L’invito di Gesù continua nel tempo, ed è compito della comunità dei credenti la cura dei malati rispondendo all’appello di Gesù “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36), come ben comprese la comunità cristiana primitiva:
“Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (Gc 5,13-15).
Va dato atto che gli ospedali o nosocomi (dal greco nósos/malattia e komeîn/curare), nacquero proprio per iniziativa dei cristiani. Fu uno dei primi concili, quello di Nicea (325) a stabilire la costruzione di un ospedale in ogni città dotata di cattedrale: il culto spirituale a Dio non poteva essere dissociato dalla cura fisica degli uomini, e gli ospedali ebbero poi il loro grande sviluppo attraverso gli ordini religiosi.

Sacralità e mistero della vita
La sacralità della vita fu quindi elemento importante e centrale nella comunità cristiana, che da sempre la difende dal suo inizio alla sua fine. Questa consolidata e indiscussa verità, patrimonio della fede dei credenti, ha iniziato però a scricchiolare dal secolo scorso, quando lo straordinario progresso della medicina, della scienza unita alla tecnologia, ha fatto sì che tante malattie, considerate inevitabilmente mortali, non lo fossero più, restringendo sempre più gli ambiti della mortalità, ma ponendo un problema: fin dove la scienza medica può arrivare? Fin dove la tecnica si può spingere nel sostituire parti malate con elementi artificiali?
Il problema che oggi si pone è infatti se la persona abbia o no la possibilità di decidere fin dove il rispetto della sacralità e del mistero della vita lo può e deve mantenere vivo, anche se artificialmente, e dove la sua dignità gli permetta di decidere di non prolungare cure e tecniche che protraggono la vita biologica a scapito di profonde sofferenze per l’uomo interiore.
Pertanto il dilemma è:
se è sacra la vita, questa va difesa e prolungata a oltranza;
se è sacro l’individuo, costui ha il diritto di decidere una morte dignitosa.
La risposta a questo dilemma nessuno la può dare se non la stessa persona. Nessuna legge civile, nessuna dottrina religiosa, nessuna istituzione, si può sostituire all’individuo, alle sue convinzioni etiche e religiose.
La soluzione ideale è quella dove il conflitto viene superato e si riesce a far coincidere e fondere la sacralità della vita con quella dell’individuo. Ma la complessità della psiche umana, il mutarsi delle circostanze, può far sì che una scelta che era ben chiara e consapevole non lo sia più, che alla fine il desiderio di sopravvivenza sia più forte delle proprie convinzioni e decisioni, e che si preferisca l’incertezza di una vita mantenuta artificialmente alla certezza della morte.
Pertanto non resta che accompagnare la persona in ogni suo passo, anche se a volte contraddittorio, garantendo, qualunque sia la sua scelta, il supporto non solo altamente tecnologico, ma profondamente umano della struttura che si prende cura della sua persona nella malattia, nella sua vita, e nella sua fine.

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