Alla fine Dj Fabo si è fatto uccidere. I Radicali hanno
sapientemente sfruttato la sua vita e la sua morte per i loro miseri scopi,
selezionandolo tra tanti proprio in corrispondenza di una legge sul testamento
biologico alla Camera. Marco Cappato si è autodenunciato, puntando alla
gloria personale del martire per poter resistere sulla scena mediatica qualche
giorno di più, campando sulle spalle dell’ex dj.
E’ triste anche leggere chi accusa Fabiano Antoniani di essere un
“vigliacco”, mostrando incapacità di mettersi cristianamente nei panni di
quest’uomo e di provarne umana compassione. L’eutanasia, come ha sempre
spiegato Livio Melina, è una «risposta sbagliata, umanamente e
moralmente sbagliata, ad un problema vero, reale e drammatico» (L. Melina, Corso di bioetica, Piemme 1996,
p. 210). Fabiano, che ha chiesto la presenza di un sacerdote prima di
partire per la Svizzera, immerso nella cultura laicista, ossessionata dalla
morte e dal suicidio, che non riconosce alcun senso profondo della vita -se non
un mero e realativistico “bene” finché le cose vanno, appunto, bene-, si era
convinto che l’eutanasia fosse l’unica strada percorribile. E
sembra essere oggi la convinzione di tutti, conservatori e liberali, di
destra e sinistra (da Il Giornale e da Matteo Salvini fino al
Gruppo l’Espresso e a Roberto Saviano, uniti dalla stessa battaglia per
l’eutanasia legale).
In tanti casi, purtroppo, le obiezioni all’eutanasia
risultano sentimentalistiche e poco strutturate, ed è comprensibile
data la difficoltà della tematica: molto più facile diffondere facili slogan
sulla dolce morte che affrontare le
complesse argomentazioni contrarie. Non è nemmeno immediata la convergenza tra
credenti e non credenti, sopratutto quando i primi avanzano solo argomenti
-seppur legittimi- come l’indisponibilità della vita in quanto dono di Dio. Mons.
Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia della
Vita, ha giustamente ricordato che
si tratta di una «sconfitta
per tutti». Riteniamo perciò doveroso richiamare
le ragioni della nostra
posizione, di ordine sociale, morale, giuridico, politico e medico. Sono argomentazioni umane contro il suicidio di Stato, perché
l’affermazione del valore incondizionato e della dignità ontologica di ogni
vita umana non ha un carattere più confessionale dell’affermazione secondo cui
essa non possiede un valore intrinseco. Abbiamo cercato di uscire dal
tecnicismo per renderle accessibili a tutti (semplificando necessariamente una
realtà più complessa), qui sotto le nostre dieci ragioni.
1) NESSUN DIRITTO A RENDERE LO STATO COMPLICE DEL PROPRIO SUICIDIO.
Certamente ognuno ha il diritto di vivere e morire con dignità, di ricevere
trattamenti antidolorifici adeguati, rifiutare l’accanimento terapeutico e
trattamenti sproporzionati e di accedere a cure palliative. Tuttavia non esiste
alcun diritto di pretendere che
la classe medica e lo Stato siano complici della propria morte, che pratichino
intenzionalmente l’omicidio e commettano il reato di “omicidio del
consenziente”. Inoltre, ciascuno ha la “facoltà” di sopprimersi ma da qui a
sostenere l’esistenza del diritto a disporre della propria vita, c’è un
passo che il nostro umanesimo giuridico vieta di compiere. Il suicidio,
infatti, non è mai stato riconosciuto come diritto e non figura nella Dichiarazione
dei Diritti dell’uomo. Non può esistere in una società civile il
diritto di disporre di un altro, o di sé mediante l’aiuto di un altro. Cesare
Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha dichiarato: «non esiste un diritto
costituzionale alla morte. La Costituzione indica che la salute di ciascun
cittadino è anche “interesse della collettività”, ma la salute presuppone la
vita».
Il prof. Etienne Montero,
docente di Diritto civile all’Università di Namur (Belgio), ha giustamente
sottolineato: «E’ falso
presentare il “diritto all’eutanasia” come corollario del diritto di disporre
di se stessi. L’eutanasia, infatti, non riguarda solo il diritto rivendicato da
alcuni di disporre della propria vita, ma anche quello concesso alla categoria
dei medici di procurare la morte di altri uomini. Ora, una società non
può appropriarsi di
un tale diritto senza ledere gravemente il valore sociale della persona» (in Eutanasia,
Ares 2005, p. 194). Il fondamento dell’ordinamento giuridico, secondo il quale
nessun uomo può disporre della vita di un altro -nemmeno se consenziente-
verrebbe completamente stravolto. E’ cruciale che il
divieto di uccidere rimanga alla base della società
democratica, come garanzia di comprensione, di apertura e di tolleranza, in
particolare verso i più deboli. Lo stato di necessità del paziente non può mai giustificare
la violazione di tale divieto in quanto «alla preoccupazione di
alleviare la sofferenza corrisponde l’omicidio. Come potrebbe lo stato di
necessità discolpare il medico che, per eliminare la sofferenza, toglie la
vita, quando, cioè, il valore sacrificato è il bene supremo, condizione e
supporto di tutti gli altri beni?» (p.
196).
2) NON ESISTE L’AUTODETERMINAZIONE TOTALE DELLA PROPRIA VITA.
E’ persistente l’errata convinzione che il singolo sia il solo arbitrio della
propria esistenza, invece, ha spiegato Stelio
Mangiameli, docente di Diritto costituzionale all’Università
di Teramo, «non c’è un diritto
all’autodeterminazione nella Costituzione che discenda, in particolare,
dall’articolo 32, la norma che riguarda la tutela della salute». Lo Stato,
infatti, è chiamato a proteggere la vita e la salute dei propri cittadini, anche
contro la loro stessa volontà: non esiste alcuna
autodeterminazione radicale poiché la vita non è a disposizione del cittadino.
A dimostrarlo è la legge che rende obbligatorie le cinture di sicurezza in
automobile, avente come unico scopo quello di salvaguardare la vita del
guidatore, anche se lui non è d’accordo. Allo stesso modo è da intendersi
l’obbligo di indossare il casco protettivo in moto o in un cantiere. Non esiste alcuna
autodeterminazione assoluta
tale tanto da pretendere che un chirurgo ci amputi un braccio solo sulla base
della nostra libera volontà ed esplicita richiesta, nessun ospedale avvierebbe
terapie specifiche (o semplici risonanze magnetiche) semplicemente perché lo
richiede la libera coscienza del paziente, allo stesso modo il principio del
rispetto alla vita impedisce al paziente di chiedere, in nome dell’autonomia
assoluta, cure inutilmente aggressive o senza alcuna efficacia prevaricando la
coscienza e la decisione del medico. Senza contare che accettare questa
presunta totale autonomia del paziente, lasciandogli la schiacciante
responsabilità di ogni iniziativa, vorrebbe dire negare l’esigenza di competenza legata alle decisioni mediche. Gli
interessi in gioco sono quindi talmente grandi che la volontà del malato non
può esserne il criterio determinante: l’autonomia del paziente esiste, ma
non è assoluta ed
è controbilanciata dalla responsabilità di curarsi, poiché la salute
rappresenta anche un bene sociale.
Occorre inoltre sottolineare l’illusione che la richiesta di eutanasia sia
davvero manifestazione di un atto libero di autonomia: quando il paziente
arriva a chiedere la morte è sempre in una fase di poca lucidità che compromette la
reale autonomia della sua richiesta. La legge belga del 2002, ad esempio,
garantiva l’accesso all’eutanasia se si dimostrasse «sofferenza fisica o psichica
costante e insopportabile che non può essere alleviata». E’ una contraddizione dare tanto peso alla libera volontà di
una persona che si trova smarrita ed in preda a indicibili sofferenze, è errato
pensare che il malato in un tale stato psicofisico possa prendere una decisione
veramente libera. I tentativi di suicidio sono segnali di disagio, di sconforto
e una persona in tale stato non ha alcuna lucidità per essere consapevolmente
autonoma. Come ha spiegato ancora il giurista belga Etienne Montero,
docente di Diritto civile all’Università di Namur, «la tesi dell’autonomia è
quantomeno un po’ ingenua. Si suppone che gli ospedali siano pieni di pazienti
perfettamente lucidi, al riparto da ogni manipolazione da parte dell’equipe
sanitaria, da ogni pressione cosciente o incosciente dei familiari; che siano
perfettamente informati sul loro stato di salute» (in Eutanasia,
Ares 2005, p. 192).
3) LA DIGNITA’ DELLA VITA E’ INTRINSECA ED INDIPENDENTE DALLA
MALATTIA.
Preso atto dei primi due punti, uno degli argomenti più usati a sostegno
dell’eutanasia è che ciascuno sarebbe giudice della propria dignità,
dando una nozione squisitamente soggettiva e relativa di essa, misurabile
secondo metri diversi: concedere la morte sarebbe così un favore a colui che
ritiene la sua vita priva di dignità. Al contrario, invece, la dignità del
vivere ha una nozione oggettiva,
sulla quale si basano le nostre tradizioni filosofiche e giuridiche. La Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo, ad esempio riconosce la «dignità inerente a tutti i membri
della famiglia umana» e
considera come oggettivo che «i
popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei
diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana».
La dignità ontologica è a prescindere da quanto un singolo uomo percepisca,
in un tal momento, degna o meno la sua vita: la sola appartenenza al genere
umano, si evince dalla Dichiarazione universale appena citata, rende degna la
sua vita. Se lo Stato ed il medico danno seguito alla richiesta di morte
assistita, invece, è perché arbitrariamente ritengono e concordano sul fatto
che la vita del tale paziente non valga più la pena di essere vissuta: la decisione di
praticare l’eutanasia fa sempre seguito ad un arbitrario giudizio di valore sulla qualità della vita e attribuire
questo potere al medico e allo Stato è riconoscere, nella legge, che alcune
vite sono effettivamente indegne e senza valore.
Ne consegue una indebita discriminazione statale verso le migliaia
di persone che vivono nelle stesse, se non peggiori, condizioni di chi chiede
l’eutanasia e che non ritengono affatto indegna la propria vita. A vivere come
Dj Fabo, infatti, c’è Matteo
Nassigh, che ha addirittura chiesto all’ex dj di ripensarci. Un’altra è Rita
Coruzzi, tetraplegica, che è a sua volta intervenuta recentemente.
Non esistono criteri oggettivi per definire quale vita non sia dignitosa, non è
la gravità a determinarlo e nemmeno la consapevolezza della propria condizione.
C’è un valore intrinseco della vita che resiste anche se viene meno il valore
attribuito alla vita da noi stessi o dagli altri: «L’attacco che la malattia porta al
valore attribuito di una persona non riesce mai a distruggere completamente la
sua dignità», ha spiegato il bioeticista Daniel Sulmasy,
direttore del MacLean Center for Clinical Medical Ethics dell’Università di
Chicago. «Se un paziente è in
coma e noi diciamo che ha perso la razionalità, e quindi il fondamento della
propria dignità ed il proprio valore, diciamo una cosa sbagliata. Quando
consentiamo ai medici di uccidere un paziente, ancorché con il suo
consenso, stiamo dicendo che esistono persone a proposito delle
quali possiamo a buon diritto affermare che non hanno valore. E se è così, il
fondamento etico della medicina viene minato irreparabilmente, insieme a quello
di tutta la morale».
4) POCHISSIMI PAESI HANNO LEGALIZZATO L’EUTANASIA.
A nostro avviso la verità non è mai dettata dai numeri e continueremmo a
sostenere una tal convinzione anche rimanessimo soli. Tuttavia, da un punto di
vista esclusivamente laico (dunque relativista), non può essere ininfluente il
consenso sociale tanto che, per creare pressione verso l’approvazione di una
legge, sempre si utilizza l’argomento del “tutti gli altri Paesi ecc.”.
Sul tema della morte assistita nessuno avanza questa affermazione in quanto
soltanto Olanda, Belgio (anche sui minori), Svizzera e Oregon hanno approvato
l’eutanasia attiva (Lussemburgo ha una legislazione particolare). Nel resto del
mondo, ad accettarla sono stati solo Cina, Colombia e Giappone. Quasi tutti i
paesi mondiali, quindi, non ritengono civile e dignitoso il suicidio di Stato
e non hanno
alcuna intenzione di
diventare complici della morte dei loro cittadini. In Italia, va precisato
rispetto al dibattito odierno, l’eutanasia attiva continuerebbe ad essere
vietata anche se fosse già vigente la legge sul testamento biologico discussa
alla Camera.
5) LE PRINCIPALI ASSOCIAZIONI MEDICHE SONO CONTRARIE.
Un altro dato frequentemente dimenticato è che il rispetto e la protezione
della vita, mediante le sue azioni terapeutiche, costituisce il fondamento dell’etica
medica: è ciò su cui si basa il rapporto di fiducia
medico-paziente, il quale verrebbe a mancare -assieme al vincolo di solidarietà
sociale- non appena la classe medica verrebbe investita dal potere inedito di
procurare la morte. Il principio medico basilare (ippocratico) è la salvaguardia
della vita (senza
ovviamente sconfinare nell’accanimento terapeutico): dare la morte è
violazione del fondamento della medicina. Per questo tutte le principali
associazioni mediche si sono schierate contro all’eutanasia e al suicidio
assistito, tra esse: la World Medical Association, la American
Psychiatric Association, la British
Medical Association, la Association
for Palliative Medicine, la British
Geriatric Society, l’American
Medical Association, la German Medical Association, l’Australian Medical Association,
la New Zealand Medical Association, la Organización
Médica Colegial de España, la Società di anestesia, analgesia,
rianimazione e terapia intensiva, la Massachusetts Medical Society,
l’American Nurses
Association ecc.
Il bioeticista Daniel
Sulmasy dell’Università di Chicago, ha spiegato che «l’opinione
pubblica non si rende conto che questa pratica mina le basi stesse della
medicina». Lucien Israel,
specialista in Neurologia e attuale vice-presidente dell’Union nationale
inter-universitaire (UNI), ha aggiunto: «Non si può offrire questa immagine
del medico agli studenti di medicina o la medicina diventerà qualcosa di
terribile. È assolutamente indispensabile manifestare il rispetto totale della
vita umana».
6) PIANO INCLINATO.
Una volta accettata la legittimità dell’eutanasia volontaria in nome
dell’autonomia, ha spiegato il prof. Francesco D’Agostino,
docente di Filosofia del diritto presso l’Università degli studi di Roma
Tor Vergata, «si giunge
facilmente e rapidamente ad accettarla anche se involontaria, in nome di
principi ritenuti all’inizio troppo fragili, come quello della compassione o
del consenso presunto da parte del paziente alla sua soppressione» (in Eutanasia,
Ares 2005, p. 8). L’approvazione di una legge sull’eutanasia libera, infatti, porta inevitabilmente a conseguenze incontrollabili:
il fenomeno del piano inclinato (o slippery
slope). Per fare accettare la legge, ha riflettuto Etienne
Montero, docente di Diritto civile all’Università di Namur
(Belgio), «si giura che sarà
applicata esclusivamente su esplicita richiesta e in casi “limite”. Ma, una
volta eliminato il divieto, l’atto eutanasiaco si banalizzerà, il senso della
trasgressione svanirà, e ciò che una volta era proibito rischierà di apparire a
poco a poco come normale» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 190).
La dimostrazione nei fatti è ciò che è accaduto nei Paesi
Bassi, dove l’eutanasia era illegale ma non perseguita, poi è
diventata legale solo per chi era in grado di esprimersi e scegliere
liberamente. Oggi subiscono l’eutanasia anche persone che non sono in grado di
intendere e di volere, perché la famiglia decide al posto loro: il 32% delle
morti per suicidio assistito sono non-volontarie. Senza contare la
legalizzazione, prima per i malati terminali, poi per gli anziani, dei depressi
ed infine dei bambini. Dopo dieci anni la legge belga sull’eutanasia è
stata dichiarata “fuori controllo” dall’Istituto europeo di bioetica,
mentre 1 su 30 decessi in Olanda avviene oggi per eutanasia (compresi anziani,
depressi, persone scontente della vita ecc.). Secondo uno studio ad un paziente su cinque l’eutanasia
viene somministrata senza che questi abbia dato il suo esplicito consenso. Nel
2012 diversi medici e scienziati belgi hanno firmato un articolo scrivendo: «Per depenalizzare l’eutanasia, il
Belgio ha aperto un vaso di Pandora. Come previsto, una volta tolto il divieto,
si cammina rapidamente verso una banalizzazione dell’eutanasia. Dieci anni dopo
la depenalizzazione dell’eutanasia in Belgio, l’esperienza dimostra che una
società che sostiene l’eutanasia rompe i legami di solidarietà, fiducia e
sincera compassione che sono alla base del “vivere insieme”, arrivando ad
auto-distruggersi». Nell’Oregon,
invece, dopo cinque anni dalla legge Measure
16, al suicidio assistito ha avuto accesso non chi sperimentava un’agonia
insopportabile, ma chi viveva una perdita di autonomia (85%), l’incapacità di
svolgere attività che rendono la vita attraente (77%), la perdita di funzioni
organiche (63%), il fatto di pesare su famiglia e amici (34%).
7) CONSEGUENZE SOCIALI PER TUTTI.
Alcuni ritengono che la richiesta di eutanasia esprima una scelta privata e che
in una democrazia laica e pluralista nessuno possa opporvisi in nome delle
proprie convinzioni morali o religiose. Tale convinzione è sempre contraddetta
dal motto latino “Lex creat mores” (la legge crea costume): ogni legge
crea una mentalità e ha un profondo impatto sul tessuto sociale e sulla vita di
chi è a favore e di chi è contrario. Nessuna “scelta privata”, dunque, il
suicidio di Stato è inoltre un atto tutt’altro che neutrale: il permesso
statale di togliere la vita equivarrebbe a consacrare una visione ben precisa,
e di parte, della persona umana, veicolando valori sociali, morali e culturali
che di necessità influenzano tutti.
Verrebbe iscritta nella legge una visione antropologica ben precisa,
imponendola a tutti gli uomini. Per questo si può rifiutare l’eutanasia senza
urtare il
pluralismo caratteristico delle democrazie moderne ed in nome della salvaguardia di interessi generali ritenuti
superiori, tra cui l’integrità della professione medica, i fondamenti
dell’ordinamento giuridico, la protezione di tutti i malati della società ecc.
Ad esempio, la sola possibilità di accedere legalmente
all’eutanasia creerebbe indebite pressioni mentali sui disabili e malati, facendoli
sentire ancora di più un peso sociale. «Il
messaggio diffuso che è una scelta dignitosa abbandonare la vita quando vengono
meno determinate condizioni è molto pericoloso, e rischia inoltre di
colpevolizzare chi invece accetti di affidarsi al sostegno di altri
convincendolo che sarebbe meglio liberarli del proprio peso», ha detto Luciano
Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di
Milano. Un paziente, tutt’altro che pienamente libero e autonomo nelle sue
decisioni, sarà ancor di più fragile e incline a cedere alla pressione
esercitata dalla sola esistenza della legge sull’eutanasia, si sentirebbe
egoista a non accettare di alleggerire legalmente l’esistenza delle persone che
si prendono cura di lui, convincendosi di essere solo uno sperpero economico.
Se anche lo Stato riconosce l’esigenza di dare la morte a persone come lui,
allora davvero la sua vita è in una condizione realmente priva di dignità. Si
sentirebbe un mostro ad ostinarsi nel rifiutare di esercitare il suo “diritto”
all’eutanasia. «Una volta che
l’eutanasia sarà legalizzata, la norma si ribalterà e la domanda da porre alla
persona vulnerabile diventerà: perché non ti sei ancora suicidata?», ha spiegato il bioeticista americano Daniel
Sulmasy. Credendo di dover assecondare le richieste di
eutanasia, la società corre il rischio di suscitarle, con varie pressioni più o
meno inconsce. Un sondaggio del 2011 ha rilevato che ben il 70% di oltre 500 disabili intervistati
teme che l’apertura al suicidio assistito possa esercitare pressione sui pazienti vulnerabili spingendoli a
“porre fine alle loro vite in modo prematuro”. Iona
Heath, presidente del Royal College of General
Practitioners, ha scritto sul British
Medical Journal: «L’influenza
che una legislazione sulla morte assistita può avere sul paziente è
intrinsecamente rischiosa. E’ fin troppo facile per le persone malate e
disabili credere di stare diventando un fardello intollerabile per le persone
più vicine a loro. In tali circostanze una richiesta di morte assistita diventa
una sorta di sacrificio da parte della persona morente, con la
complicità interessata dei parenti, professionisti e tutori».
8) EFFICACI ALTERNATIVE ALL’EUTANASIA.
Oltre ai pochi casi mediatici sfruttati dagli avvoltoi radicali, esiste una
realtà di migliaia di disabili che non ha alcuna intenzione di porre
fine alla sua vita. Questo dimostra che le alternative ci sono e uno Stato
civile dovrebbe investire sulle risorse che permettono il sostegno a queste
persone, non togliere il problema uccidendo i disabili. Le alternative sono il
sostegno psicologico, la cura affettiva, le cure palliative e, nei casi
terminali, anche la sedazione profonda (o il coma farmacologico). Proprio il
progresso nelle cure palliative ha superato la necessità di chiedere
la morte assistita in caso di dolore, il principale testimone di questo è stato
l’oncologo Umberto Veronesi,
che ha affermato: «Nessuno mi ha mai chiesto di
agevolare la sua morte. Ho posto da sempre un’attenzione estrema al controllo
del dolore e, per mia fortuna, nessuno dei miei pazienti si è mai trovato in
una condizione di sofferenza tale da chiedere di accelerare la sua fine».
Sul British Medical Journal si legge: «adeguate cure mediche, consulenza
e una presenza amorevole accanto al malato spesso rimuovono la richiesta di eutanasia».
Solitamente alcuni sostengono che tali alternative non sarebbero
efficaci in quanto esisterebbe una presunta eutanasia clandestina,
quindi tanto varrebbe depenalizzarla. Tale argomento nasce da una confusione
tra il diritto ed i fatti: il diritto non indica ciò che è, ma ciò che deve essere. Se dovesse
limitarsi a ratificare il fatto compiuto, non avrebbe più alcuna funzione
normativa e perderebbe la sua ragion d’essere. L’adeguamento del diritto ai
fatti è un mito duro a morire, senza contare che
l’esistenza di una eutanasia clandestina è tutta da dimostrare. Non esistono
studi in merito, solo dichiarazioni di qualche militante pro-eutanasia come l’Associazione Luca Coscioni, smentita dal prestigioso Istituto di ricerche
farmacologiche di Milano. Infine, la legalizzazione dell’eutanasia in Olanda,
ad esempio, non ha affatto contribuito a far emergere il fenomeno della
clandestinità: il rapporto Van der Wal e Van der Maas (La Aia, 1996) ha
certificato che quasi un migliaio di eutanasie è stato praticato senza il
consenso del paziente ed oltre il 50% dei medici non ha compilato il modulo da
inviare al pubblico ministero in caso di eutanasia.
9) L’EUTANASIA E’ FALSA COMPASSIONE.
Il malato che chiede la morte in realtà invoca una compagnia che lo assista,
gli stia vicino e lo aiuti a trovare un senso al suo soffrire. «La vera radice del dolore», ha
scritto Johan Menten,
oncologo e primario del reparto di Radioterapia e cure palliative di Lovanio
(Belgio), «è la perdita del
senso della vita, che espone l’essere umano alla peggiore sofferenza possibile» (in Eutanasia,
Ares 2005, p. 61). La richiesta di eutanasia non è la manifestazione di un
autonomo esercizio di disponibilità in merito alla propria vita, ma la
dichiarazione di essere caduti in stato di abbandono. Perché l’uomo può portare
qualunque dolore ma se non ne afferra il significato del motivo per cui lo
fa allora cede alla minima sofferenza, non è un caso che Dj
Fabo abbia
scritto nel suo testamento: «Le
mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non
trovando più il senso della
mia vita ora». Il suo fisiatra, che lo ha seguito negli ultimi anni, Angelo
Mainini, ha dichiarato: «nessuno è stato in grado di dare a
Fabo la motivazione sufficiente a continuare ad amare la sua. In decenni a
contatto diretto con pazienti come Fabo vediamo che il problema è avere o non
avere qualcosa per cui valga la pena vivere. Penso a tante persone come lui,
anche più sofferenti, che a un certo punto trovano la spinta per voler proseguire sulla strada
della vita». Al contrario, la tetraplegica Rita
Coruzzi è
riuscita ad accettare felicemente la stessa disabilità di Fabiano proprio
quando, ha scritto, «ho riscoperto la vita e ne ho
trovato il lato positivo. Ho imparato per esperienza diretta che non è mai
troppo tardi, anche nelle condizioni più improbabili, per sentirsi vivi e avere
un motivo per dire alla vita il tuo personale “grazie”».
Negare al disabile o al malato la compagnia che chiede, l’aiuto a
trovare il significato della sua vita che lo aiuterebbe ad accettare la sua
condizione, è un tradimento morale della
sua reale richiesta. Il card. Carlo Maria Martini ha
detto che «mostruoso è l’amore che uccide, la compassione che cancella
colui del quale non può sopportare il dolore, una filantropia che non sa se
intenda liberare l’altro da una vita divenuta di peso o liberare sé dal peso
dell’altro» (C.M. Martini,
citato in D. Tettamanzi, Eutanasia.
L’illusione della buona morte, Piemme 1995, p. 27-28). E’ “falsa
compassione” quella a favore dell’eutanasia, ne ha parlato più volte anche Papa
Francesco. Il compianto Salvatore Crisafulli,
paralizzato a letto dal 2003 a causa di un incidente automobilistico, ha scritto con le palpebre queste parole: «Ma cos’è l’eutanasia, questa morte
brutta, terribile, cattiva e innaturale mascherata di bontà e imbellettata col
cerone di una falsa bellezza? Dove sarebbe finita l’umana
solidarietà se
coloro che mi stavano attorno durante la mia sofferenza avessero tenuto
d’occhio solo la spina da sfilare del respiratore meccanico, pronti a cedermi
come trofeo di morte, col pretesto che alla mia vita non restava più dignità?
Credetemi, la vita è degna di essere vissuta sempre, anche da paralizzato,
anche da intubato, anche da febbricitante e piagato. Sì, la vita, quel dono
originale, irripetibile e divino che non basta la legge o un camice bianco a
togliercela, addirittura, chissà come, a fin di bene, con empietà travestita da
finta dolcezza».
10) L’EUTANASIA NON E’ CIO’ CHE CHIEDE LA MAGGIORANZA DEI MALATI.
Che vi sia un consenso comune tra le persone sane verso l’eutanasia non
stupisce, d’altra parte la disinformazione mediatica è a livelli estremi.
Chiunque preferirebbe morire in fretta e senza sofferenze piuttosto che
sommersi dai tubi e tormentati da atroci dolori. Ma si
omette di dire ai
futuri pazienti che è vietato ogni accanimento terapeutico, che rimarranno
responsabili delle decisioni che li riguardano e che non esistono più dolori
che la medicina palliativa non può controllare. Inoltre il soggetto, divenuto
disabile, cambia radicalmente idea sulla vita rispetto a quando
immaginava la sua condizione da sano. Lo sa bene chi lavora quotidianamente con
i malati gravi, come Bernardette Wouters,
vicepresidente dell’Associazione europea di cure palliative: «Tutti gli operatori sanitari sanno
che il parere di una persona sana e quello di un malato sono due cose
totalmente diverse. Molti pazienti ricoverati in unità di cure palliative per
terminarvi la loro vita avevano giurato che non avrebbero mai sopportato di non
essere autosufficienti, che si sarebbero suicidati in quel caso…e invece non
tornano più sull’argomento. Se l’eutanasia fosse davvero ciò che i pazienti
desiderano, l’Inami (Institut national d’assurance maladie invalidité) non
avrebbe più problemi finanziari da molto tempo, le case di riposo e di cura
sarebbero vuote, deserte le corsie dei reparti ospedalieri per malattie
croniche…». E ancora: «La
maggior parte di richieste sono indotte dal dolore, dalla paura di soffrire,
dalla disperazione, dall’accanimento terapeutico, dall’abbandono della famiglia
o degli operatori sanitari o dalla mancanza di senso» (in Eutanasia,
Ares 2005, p. 74,75). Tutte situazioni risolvibili.
Il fisiatra di Dj Fabo, dott. Mainini,
direttore sanitario della fondazione “Maddalena Grassi”, ha detto: «Fare una legge su situazioni così
mutevoli significherebbe voler dare confini netti e cose che non possono averli.
Un caso come quello di Fabo, tra centinaia di disabili, non ci è mai capitato
prima: la stragrande maggioranza chiede di ricevere tutte le cure
possibili per una vita pienamente degna, e purtroppo non le hanno. Questo è il
grande diritto inascoltato, vivere, ma non viene difeso con la forza con cui si
reclama un diritto di morire. All’inizio molti pensano di voler morire, ma con
il tempo il giudizio nel 99% dei casi muta, strada facendo cambiano
le priorità e, con il giusto accompagnamento, riescono ad apprezzare ciò che
quella loro nuova vita può offrire. Se attorno hanno persone che amano e
scadenze attese con gioia, come la nascita di un nipotino o la laurea di un
figlio, anche solo riuscire a fare quel sorriso o muovere la testa li appaga
pienamente». Lo stesso ha detto Piero
Morino, direttore dell’unità di Cure palliative della Asl
Toscana centro.
La più vasta indagine su questo tema ha mostrato che solo il 7% dei
pazienti affetti da sindrome locked-in ha manifestato pensieri o intenzioni
di morte. Inoltre, ha proseguito la Wouters, «l’esperienza
dimostra che alcuni pazienti vogliono sentirsi dire “no!”. Perché “no!”
significa che si è ancora pronti a spendersi in un rapporto». Sappiamo, inoltre, che chi arriva
a chiedere l’eutanasia molto spesso soffre di disturbi depressivi e dunque si è soventemente privati
della possibilità di una richiesta davvero autocosciente. L’agnostico Lucien
Israel, luminare francese dell’oncologia, ha detto: «I rarissimi malati che,
spontaneamente, mi hanno chiesto di aiutarli a morire se le cose si fossero
complicate, non hanno rinnovato la loro richiesta nel momento in cui questa
poteva essere soddisfatta. Altro che autodeterminazione: per me, l’eutanasia è
una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di una
malato grave o in fase terminale». Il caso straordinario di un paziente che richiede
lucidamente l’eutanasia, quindi, non può legittimare una legislazione: è
sbagliato, infatti, costruire una norma generale sulla base di un caso
eccezionale o marginale. Esiste il divieto, infatti, ad adottare “leggi per
casi specifici”.