Giovani: sono loro i «nuovi credenti»?

di Claudio Cristiani, Avvenire, 22.11.2015
 
Pronti a una conversione «esplosiva»

​«Non è una fede per vecchi»: comincia fin dal titolo con una provocazione (benefica) il recentissimo saggio che Claudio Cristiani, educatore e autore di manuali di religione per le secuole secondarie, dedica a «la prima generazione di 'nuovi credenti'» (Edb, pp. 196, euro 20); le sue tesi sono ben sintetizzate nel brano che pubblichiamo in questa pagina. Secondo Cristiani, nei giovani d’oggi è latente una straordinaria potenzialità di conversione che – se esplodesse – metterebbe addirittura in difficoltà la capacità della Chiesa di accoglierla, «costringendoci a prendere una posizione non più scontata» rispetto alla fede. Il saggio si raccomanda soprattutto ai formatori e agli insegnanti impegnati a trasmettere il Vangelo alle nuove generazioni. 

In un saggio comparso nel 2010 intitolato La prima generazione incredula, il teologo Armando Matteo ha affrontato con lucida schiettezza il problema della disaffezione dei giovani rispetto alla fede, attribuendo ad essi «una sordità che dice incredulità, ovvero un’assenza di antenne per ciò che la Chiesa è e compie, quando vive e celebra il Vangelo. Una sordità, poi, avallata da una cultura diffusa resasi ormai estranea al cristianesimo e da una recente ondata di risentimento anticattolico che non piccola presa ha proprio sulle nuove generazioni».

In effetti, alcune analisi condotte da sociologi e istituti di ricerca sembrano confermare questa tesi. Tesi che, però, non è del tutto condivisa da molti, tra gli altri da Alessandro Castegnaro, che a partire dalle indagini condotte con l’Osservatorio socio-religioso triveneto arriva a conclusioni più raffinate e che colgono sfumature tali da non permettere di liquidare i problemi dei giovani in ordine alla fede come una grossolana «assenza di antenne». Io sono convinto che la generazione dei giovani di oggi sia ben lontana dall’essere sorda o priva di «antenne» per captare l’annuncio delVangelo, anche se è evidente la distanza rispetto ai modi e al linguaggio con cui la Chiesa cerca di diffondere questo annuncio. Credo invece che sia la meglio disposta, da molti anni a questa parte, a riscoprire l’originalità del messaggio cristiano e a viverlo senza ipocrisie. È quella che può offrire a tutti, anche e soprattutto a chi giovane non è più (almeno anagraficamente), l’occasione imperdibile di riavvicinarsi quanto più possibile alla prima generazione dei credenti.

Anziché essere una «generazione incredula », quella dei giovani di oggi potrebbe invece trasformarsi nella prima generazione dei nuovi credenti, espressione di quella novità di cui la Chiesa (e con essa il mondo intero) ha bisogno. Serve però creare le condizioni affinché questo accada. Condizioni che iniziano a rendersi visibili, o almeno intuibili, nell’indirizzo che papa Francesco ha impresso al proprio pontificato. I messaggi che il papa sta lanciando sono tali da facilitare e incoraggiare un riavvicinamento dei giovani (e non solo dei giovani) alla fede. E non è un caso che papa Francesco abbia approfittato soprattutto della XXVIII Giornata della gioventù a Rio de Janeiro, nel luglio del 2013, per rendere più chiari e leggibili, attraverso i suoi gesti e i discorsi rivolti ai giovani, i criteri ispiratori della sua missione e la visione di Chiesa con la quale saremo chiamati a confrontarci nei prossimi anni.

Una visione di Chiesa resa ancora più esplicita nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, in cui il papa esprime quale dovrebbe essere il nuovo approccio nei confronti dei giovani: «La pastorale giovanile, così come eravamo abituati a svilupparla, ha sofferto l’urto dei cambiamenti sociali. I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite. A noi adulti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono. Per questa stessa ragione le proposte educative non producono i frutti sperati».

Il tempo che stiamo vivendo appare veramente come un kairós, un «tempo di grazia», il «tempo giusto» per un nuovo rapporto tra i giovani e la fede. Abbiamo tutti la percezione di vivere in un contesto di Chiesa che pare apprestarsi a vivere una stagione nella quale i giovani vengono invitati a «fare rumore» (come ha detto il papa a Rio de Janeiro), a farsi sentire, a dire non solo le loro attese e i loro bisogni, ma anche le loro proposte, che Francesco in prima persona dichiara di non volere ignorare. Tutto questo merita attenzione. E soprattutto fa intendere che non solo è possibile, ma in questo momento è nevralgico e decisivo parlare non solo del rapporto tra i giovani e la fede, ma anche del rapporto tra i giovani e la fede vissuta dentro questa Chiesa, la Chiesa di papa Francesco.

Certo, la percezione immediata che si ha guardando il mondo dei ragazzi e dei giovani non incoraggia granché a sperare in una rinnovata e diffusa adesione alla fede cristiana. Parlo dei ragazzi e dei giovani in generale, non di quelli che siamo abituati a vedere osannanti al seguito del papa, o in altri raduni religiosi ai quali molti accorrono in massa. Senza nulla togliere, naturalmente, al coraggio e alla sincerità di coloro che, come a Rio de Janeiro, sanno dire in modo così aperto e limpido la loro adesione al messaggio evangelico.

Secondo un’indagine Iard condotta nel 2010, tra i giovani italiani di età compresa fra i 18 e i 29 anni, il numero di coloro che si dicono non credenti o agnostici è aumentato dal 2004 (dal 18,7 al 21,8%) ed è in continua crescita. Il dato è confermato da un’altra indagine del 2013 promossa nell’ambito di Rapporto giovani – una ricerca sulle nuove generazioni curata dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore –, dalla quale emerge che, tra i giovani fra i 19 e i 28 anni, a fronte di un 56% di coloro i quali ritengono che la dimensione religiosa in generale sia importante nella vita di una persona, il 15,2% si dichiara ateo e il 7,8% agnostico. Insomma, un buon 23% di giovani della religione non ne vuole sapere.

In crescita (secondo l’indagine Iard 2010) è anche il numero di coloro che non si vogliono identificare in nessuna Chiesa, men che meno in quella cattolica (dal 12,3 al 22,8% tra il 2004 e il 2010). Se poi è vero, come mettono in risalto alcune ricerche compiute da sociologi «indipendenti» (le cui indagini, cioè, non sono commissionate e in qualche misura condizionate da istituzioni religiose), che la percentuale dei giovani sopra i 15 anni che partecipano attivamente alla vita della Chiesa (catechismo, celebrazioni religiose, eccetera) o- scilla intorno al 5% (rispetto ai quali però Rapporto giovani oppone un 15,4% di giovani che frequentano la messa almeno una volta alla settimana), il panorama appare ancora più sconfortante.

A preoccupare non dovrebbe essere tanto il fatto che i giovani disertano le chiese (anche l’ottimistico 15,4%, infatti, non è un risultato che si possa definire brillante!). Questo allontanamento dalla pratica religiosa è solo la manifestazione evidente di qualcosa di ben più profondamente allarmante, e cioè che è grandissimo ed è in continuo aumento (ormai è la quasi totalità) il numero di giovani che da tempo non ha più o non ha mai avuto un approccio significativo e autentico con la figura di Gesù Cristo e con il suo Vangelo. E questo è qualcosa che va ben al di là della misurazione della partecipazione alla messa domenicale…

Di questi e, soprattutto, a questi giovani bisogna ricominciare a parlare: alla grandissima maggioranza di coloro che sono considerati e/o si sentono «lontani» e invece sono (e non sanno di essere) veramente «vicini», forse i più vicini (almeno se vogliamo fare ancora riferimento alla «logica» del Vangelo). Senza neppure dimenticare coloro che riteniamo essere «vicini» e invece si stanno allontanando, magari senza accorgersene, senza volerlo, eppure trascinati da chissà quali forze dentro o fuori di loro.

Per questi giovani «lontani-vicini» o «vicini- lontani», come amava dire il cardinal Martini, non si fa abbastanza, o forse nulla: non li si va a cercare, non li si incontra, non ci si mette sulla loro lunghezza d’onda, non si intercetta il loro linguaggio e non si va in profondità nel comprendere di che cosa hanno veramente bisogno. Si adottano «strategie» vecchie, inadeguate, alla fine inefficaci, perché messe in atto senza ascoltare davvero.

Il problema, insomma, non è tanto il fatto che i giovani non avrebbero più «antenne» per ricevere il messaggio evangelico trasmesso dalla Chiesa, ma è piuttosto quest’ultima che ha ormai «antenne» arrugginite, incapaci di veicolare ai giovani l’annuncio evangelico. «Antenne » che possono di sicuro tornare capaci di lanciare segnali percepibili da parte delle nuove generazioni, a condizione però di sintonizzarsi su frequenze diverse rispetto a quelle usate negli ultimi decenni. Senza illudersi che sarà facile, perché facile non sarà, e le resistenze da vincere, anche all’interno della Chiesa, non saranno di poco conto. E già si è visto, in qualche occasione. 

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