Sulle baby gang


E' il tema del momento: diversi atti di violenza compiuti da baby gang a Napoli (ma non solo), hanno fatto scattare l'allarme e puntato i riflettori su un dramma che non è nuovo e non appartiene solo alla città di Napoli: la cronaca ci mostra come il problema dei ragazzi violenti non sia affatto limitato al Sud, visti i gravissimi episodi verificatisi a Zevio (VR) o a Torino. Napoli ha vissuto una escalation amplificata dai media:
Dieci ragazzi accoltellati da inizio dicembre ad oggi. Minorenni presi a pugni, a calci, accoltellati da altri minorenni. Un ragazzo accoltellato alla gola, Arturo e uno a cui hanno dovuto asportare la milza, aggredito all'uscita della metropolitana di Chiaiano. E ancora 17 rapine in due mesi, nel Napoletano, fatte da una banda di ragazzi fra cui quattro minorenni. Ragazzi che si fanno la guerra nel centro storico di Napoli, ragazzi che il giudice Nicola Quatrano ha legato addirittura ai militanti della Jihad, per quel «filo sottile ed esistenziale» rappresentato «dalla ricerca della morte». (da Vita che prosegue:
Un giornalista (del Corriere del Mezzogiorno) è stato per strada, ad aspettare e osservare: «Ogni occasione è buona per far scoppiare la rissa e lo si capisce da come si scrutano gli uni con gli altri, come se la strada fosse un ring dove battersi. […] Picchiare e farlo davanti a tutti, come in un film, peggio che in “Gomorra”. […] Picchiano anche davanti alle forze dell’ordine, senza paura di essere presi perché nessuno può fermare la furia di trenta ragazzini, che agiscono come uno squadrone militare». E poi come la follia è montata, così si scioglie, con tutti i ragazzi in fuga in direzioni diverse, come dissolti nel nulla. Questa mattina in Prefettura a Napoli c’è stato un vertice alla presenza del ministro dell'Interno, Marco Minniti. Al termine sono stati invitati anche Arturo, il 17enne ferito alla gola prima di Natale, che ieri è rientrato a scuola, e sua madre, Maria Luisa Iavarone, che dal giorno dell'aggressione non ha mai smesso di chiedere il coinvolgimento di tutti e ha lanciato un movimento civico "di madri ferite", che rimettano al centro la questione educativa. 
Viene tirata in ballo la famiglia (esiste veramente una famiglia? dov'è in questi casi? Che educazione viene trasmessa? Quali problemi ci sono all'interno di essa?), la criminalità organizzata (in cerca di manovalanza e capace di attrarre i giovanissimi), lo Stato assente (perchè tanta illegalità, che è sotto gli occhi di tutti, viene tollerata senza reagire?) la mancanza di ideali e di interessi e la dispersione scolastica:  il Rapporto del Ministero dell'Istruzione (Miur) pubblicato il 12 gennaio rileva ancora al 13,8% su base nazionale ma con punte molto più elevate in Sicilia, Sardegna e, appunto, Campania. 
Ancora su Vita si legge:
Dal punto di vista descrittivo queste sono bande di ragazzini molto piccoli, con alcune caratteristiche comuni: fanno parte di famiglie non solo molto povere ma "scassate", con figure materne e paterne deboli o inesistenti, genitori che non hanno prospettive di impiego né formazione, che abitano ai margini di quartieri e comunità già marginalizzate e visti come marginali da quelle stesse comunità. Sono famiglie e ragazzi che vivono ai margini dei margini. Alcuni di questi genitori sono nelle parti basse della criminalità organizzata o vi sono limitrofi, non hanno nessuna consapevolezza di come di educa un figlio, spesso sono disperati perché non sanno come pagare le bollette e le spese, spesso hanno caratteristiche psicosociali complesse. I figli non vanno a scuola, vivono alla giornata e si coagulano in una banda che non è organizzata con una gerarchia stabile, questa è una cosa diversa dalle bande di 17/19enni che vogliono prendere il posto dei boss in prigione: dobbiamo avere l’onestà di dire che si tratta di una cosa nuova, che ancora non abbiamo compreso. È una specie di gruppo informale che se ne sta senza far niente, gira in motorino, tira tardi e a un certo punto gli salta in testa di fare una cosa, un’avventura, e nel giro di pochissimi minuti si attivano e fanno un disastro terrificante, contro un singolo individuato in quel momento, non scelto prima, uno qualsiasi che si sono trovati casualmente davanti. Questi ragazzi possono avere o no armi, coltelli, mazze, catene, agire a mani nude o con i calci, di tutto. In aggiunta diciamo che alcuni - non tutti – possono avere fatto una specie di mix di birre, canne, altra roba chimica... Diciamo che questi sono quindi conglomerati occasionali di ragazzini molto giovani, che vengono dalla marginalità nella marginalità, che non hanno avuto dal punto di vista psicologico alcuna esperienza della frustrazione regolata, della regolazione emotiva e sostanzialmente – non lo dico per giustificarli – non sanno cosa si deve e si può fare e cosa non si deve e non si può fare. Non sono state intercettati da alcuna figura adulta di riferimento: che sia un nonno di buon senso, una nonna accudente, un parroco, un volontario… A un certo momento diventano una bomba che può fare cose terribili. 
Di positivo in questi giorni abbiamo visto che questi episodi hanno suscitato una forte reazione. Non siamo una città che accetta tutto ciò con indifferenza. La città è stata positivamente attiva, ha visto straordinaria mobilitazione di ragazzi e di genitori non dei quartiere bene ma degli stesi quartieri, genitori a loro volta fragili e insicuri che però si sono mobilitati in sostegno della legalità. Una città indignata, molto preoccupata, che ha accolto le vittime, si è schierata al loro fianco, ha preso le distanze da questa minoranza, migliaia di persone che non vogliono essere identificati con queste minoranze. Dalle scuole, dalle parrocchie, dai centri sportivi, si sono fatti sentire, sono reattivi. È una cosa buona, anche se è vero che ci sono parti che hanno paura di parlare.
Anche su La Nuova Bussola Quotidiana si intervista chi lavora per la legalità e lotta contro il degrado:
«Le scuole sono letteralmente invase dai corsi sulla legalità», ma l'esperienza sul campo ci dice che questi progetti «non funzionano con gli ultimi, con chi vive ai margini. Non arrivano a chi avrebbe bisogno di lavorare presto per sostenersi e sostenere famiglie in difficoltà. A chi neanche frequenta il biennio dell’obbligo»...  Quello che sta accadendo oggi è una nuova ‘malattia’ che colpisce i giovani. Una malattia per la quale, abbandonati da tutto e tutti, senza prospettive, covano il non senso, lo nutrono con le fiction e le bravate che devono essere sempre più cattive. È una solitudine disperata...
Queste riflessioni danno risposta anche a Saviano per il quale "solo la scuola può salvare i ragazzi". Certo, prosegue l'intervistato su Vita, le scuole sono importanti, ma 
serve formazione professionale - qui a Napoli manca del tutto - stage nel territorio per imparare un’arte, con un artigiano, al fianco di qualcuno che ti passa un sapere che ti dà identità e di cui puoi vivere. Servono politiche attive del lavoro presso i giovani, non solo la scuola. E poi educatori nel territorio, che seguono le situazioni più fragili e a rischio, che significa le famiglie molto giovani e povere, dando supporto alle funzioni genitoriali e educative, che costruiscano nel tempo centri di aggregazione giovanile dove è possibile vivere “avventure” e “sfide” positive su tutto l’arco dai 10 ai 25 anni: sport regolare, riadattare un locale abbandonato, aprire un’attività con i fondi della nuova legge “Resto al Sud” insieme ai miei compagni, a Sanità sta funzionando. La scuola non basta. Il tutto con risorse certe per i prossimi 10 anni. Ora, tutte queste cose, note da tempo, sono attività strategiche, la condizione necessaria per battere anche questi fenomeni di violenza: bisogna farle, ma sapendo che non sono sufficienti...
Accanto a tutto ciò ci deve essere non tanto un cambio della legge ma la certezza delle sanzioni, anche non penali: il programma educativo deve essere realizzato davvero, la sua esecuzione deve essere seguita e sorvegliata in maniera forte. E se il ragazzo ha bisogno di aiuto specifico perché ha delle sofferenze specifiche, vanno affrontate anche quelle. 
Interviene anche Vino Nuovo scrivendo:
... proprio in questi giorni, la cronaca ci mostra come il problema dei ragazzi non sia affatto limitato al Sud, visti i gravissimi episodi verificatisi a Zevio (VR) o a Torino, che significa Nord, eccome Nord. Questo vuol dire che il problema è italiano, globale. Quindi nostro, di tutti e tutti dobbiamo farcene carico, come diceva don Milani.
Perché sarà anche questione di scarso (scarsissimo) senso dello Stato, carenza di supporti, di adeguati finanziamenti, di scelte politiche (anche se gli ingenti fondi della Cassa del Mezzogiorno sono stati "fagocitati", e alla grande, da mafia e 'ndrangheta, ricordo ancora le parole dell'on. Flaminio Piccoli in visita nella sua città, non proprio ieri), ma non si può sempre delegare ad altri, occorre che ciascuno si assuma la propria responsabilità...
Ma dove stanno le famiglie e le comunità?
Si parla spesso di un ruolo dei genitori da recuperare, ma qui talvolta non sembra trattarsi di recupero bensì di una totale rifondazione. Non occorre invocare, come ha detto qualcuno, un coprifuoco per i ragazzi minorenni, è necessario che le famiglie tornino ad essere tali, vale a dire la prima comunità educativa nel senso più autentico del termine.
E cosa c'è di più educativo della testimonianza di mamma e papà? Non è solo la fede ad essere tramandata, ma anche il senso dello Stato, il senso di appartenenza ad una comunità più grande, il senso del bene comune e della legalità, come insegna la dottrina sociale della Chiesa che invita non solo a costruire la città di Dio, ma anche quella degli Uomini...
Si parte dalla famiglia, prima comunità dove s'impara a balbettare la socialità e la fratellanza: regole ben precise, ma anche tanta solidarietà. La famiglia non è chiusa in stessa, fa parte di una comunità più grande, civile ed ecclesiale e l'azione educativa si allarga, e si condivide. I genitori s'impegnano a esplicare il loro ruolo di cittadini e al contempo di membri di una Chiesa, ma accettano che altre persone possano venire in loro aiuto per quanto riguarda la crescita dei figli.
Spesso si parla di "comunità educante", intendendo anche la scuola e tutti coloro che contribuiscono all'educazione, ma forse oggi occorre davvero compiere un passo ulteriore e giungere a quella "alleanza di tipo civile" che viene invocata da più parti, dove ciascuno si sente responsabile in prima persona.
I genitori potranno dire di aver rinunciato ad una gratificazione personale di vario tipo in nome dei figli, magari anche, se non è troppo gravoso per il bilancio familiare, ad un avanzamento di carriera: l'importante è esserci, e non solo fisicamente ("un padre insegnante che trascorre il pomeriggio chiuso nel suo studio non mi ha dato nulla", diceva uno studente alle soglie dell'Esame di Stato). Ma non basta ancora se pensiamo a cosa significa per una comunità parrocchiale avere dei genitori che si mettono a disposizione nel fine-settimana per tenere aperto l'oratorio, la catechesi o l'animazione dei giovani (coppie di genitori, non solo mamme).
O il valore aggiunto della buona volontà delle persone per la vita di un quartiere o una città. E il concetto di casa si allarga poi fino a comprendere la nostra "casa comune", dice Bergoglio, il creato, il mondo intero con tutti i suoi abitanti. Un mondo da abitare come casa nostra, ma se non abitiamo neanche quella come si fa?
Così di fronte all'attualità del bullismo e dei crimini "per scherzo", ma anche della crisi che attanaglia i nostri giovani come del resto tanti adulti, cominciamo ad allontanare ogni alibi e rimbocchiamoci le maniche. Non è sempre responsabilità di altri (la politica, la Chiesa, il parroco di turno ...), ma innanzitutto "nostra". Non occorre alimentare il numero dei "rancorosi" che ritengono di non aver ricevuto nulla: ma noi che abbiamo dato? Che cosa diamo?
So di aver semplificato alla grande, ma anche un Sinodo sui giovani non potrà risolvere problemi se gli adulti, genitori innanzitutto, resteranno ad aspettare ... che le soluzioni cadano dal cielo, come la neve. Costruire il futuro è un'altra cosa.

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