La legge sul biotestamento non piace alla Chiesa


Su Notizie ProVita il resoconto del testo approvato il 20 aprile:
Con 367 presenti (gli altri 263 non erano probabilmente interessati a questioni di vita o di morte…), 326 sì e 37 no, i deputati hanno aperto anche in Italia le porte all’eutanasia
“Con questo voto, che spero possa presto trovare analogo riscontro in Senato, la cultura dei diritti civili fa un altro passo avanti nel nostro Paese. E la politica mostra che il ritardo nei confronti della società e delle sue domande può essere colmato” è lo sconcertante commento della Presidente della Camera Laura Boldrini.
Il testo di legge, di cui abbiamo parlato più volte, anche recentemente è composto da diversi articoli ed ha subito vari emendamenti, anche all’ultimo minuto. Ma vediamo cosa prevede il testo approvato ieri.
La legge sull’eutanasia, all’art. 1, “tutela il diritto alla vita, alla salute, ma anche il diritto alla dignità e all’autodeterminazione” (un po’ come la legge 194 sull’aborto, che inizia, incredibilmente, con la frase: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”); prosegue poi con concetti in linea di massima condivisibili: il paziente deve essere informato e prestare il proprio consenso per i trattamenti sanitari cui dovrebbe sottoporsi (cosa che, del resto, è già prassi consolidata). Meno condivisibile è invece la modifica introdotta al testo base, in cui si equipara l’idratazione e la nutrizione ad un trattamento medico, essendo veicolata attraverso strumenti sanitari. Come se bere attraverso una cannula piuttosto che dal bicchiere faccia davvero differenza.
Ma il vero “cuore” (perdonate l’uso palesemente improprio della parola) della legge (dove non c’è scritta la parola “eutanasia”, ma dove c’è l‘eutanasia passiva…) si manifesta nell’articolo 3 e seguenti, in cui si introducono le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT): “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata fiduciario, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
Sarebbe interessante a questo punto immaginare un modello di DAT: un tabellone con migliaia di righe comprendenti tutti i “trattamenti sanitari” e “scelte diagnostiche” possibili ed immaginabili, e migliaia di colonne indicanti le condizioni di disabilità in corrispondenza delle quali il trattamento è accettato o rifiutato. Tutto questo sottoscritto in un momento in cui il “paziente” potrebbe godere di perfetta salute. Probabilmente neppure un medico sarebbe in grado di predisporre un documento del genere (né avrebbe senso farlo).
La conseguenza? Il DAT sarà un semplice foglietto in cui una persona sana scriverà: “nel caso in cui dovessi essere incapace di intendere e volere, vi chiedo gentilmente di praticarmi l’eutanasia lasciandomi morire di fame e sete se necessario (qualcuno lo scriverebbe apertamente?). Tutti i nobili principi dell’autodeterminazione, del consenso informato, delle libere scelte terapeutiche si arenano così inesorabilmente di fronte all’ovvia considerazione che un paziente non è in grado di decidere quali trattamenti siano proporzionati al suo stato e alle sue aspettative di vita, men che meno anni prima che si manifesti una patologia. Questa scelta non può che essere presa dal medico, certamente in condivisione con il paziente, ma non certo nei termini perentori indicati dalla legge. Già, perché il medico è tenuto a rispettare le DAT e a praticare l’eutanasia omissiva, a prescindere da quanto egli ritenga ragionevole la decisione del paziente.
Un emendamento dell’ultima ora ha ampliato la tutela della libertà del medico, introducendo una sottospecie di obiezione di coscienza, seppur blanda e indiretta: qualora le richieste del paziente siano “contrarie alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”, il medico può decidere di non assecondare le DAT “senza obblighi professionali”, sibillina frase che, per i più, significa “senza che ne debba rispondere civilmente o penalmente”.
Stessa cosa “qualora sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione [delle DAT, n.d.r], capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Cioè al tabellone è sfuggita qualche riga. In questo caso però la decisione va presa di comune accordo con il fiduciario e, in caso di disaccordo, da un giudice (ed è già possibile passare idealmente in rassegna la galleria di cause ideologiche portate avanti dai sostenitori della “dolce morte” sulla pelle dei malati).
A questi spiragli di apertura verso l’obiezione di coscienza dei medici (seppur mai richiamata espressamente per non ferire nessuno), si contrappone un secco “no” a concedere a strutture sanitarie private convenzionate (si pensi ad esempio a quelle cattoliche) l’esonero dall’applicazione delle “norme non rispondenti alla carta di valori su cui fondano i propri servizi” (come inizialmente proposto). Al contrario il comma 9 dell’articolo 1 ribadisce che le strutture sanitarie dovranno organizzarsi per “la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge”; ossia dovranno trovare medici disposti a far morire i pazienti di fame e sete se richiesto anni prima nei DAT o da un fiduciario. L’obiezione di coscienza per i dirigenti ospedalieri non è prevista.
Ma nonostante queste decise prese di posizione contro l’obiezione di strutture sanitarie, chi ha portato da tempo avanti una battaglia in favore dell’eutanasia, come Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, nonché accompagnatore di DJ Fabo al suicidio assistito in Svizzera, tuona: “Si parla di situazioni di emergenza, dove il tempo è tutto e dove l’ostilità del medico o di una struttura potrebbero portare alla negazione di diritti che nessuna sentenza potrà più far tutelare” [Perché tanta fretta? per paura che il malato ci ripensi? ndr]. Ogni commento pare superfluo in una frase in cui si definisce “ostilità” il desiderio di non lasciar morire e “diritto” la rinuncia alla vita e in cui non si vede l’ora di “completare l’opera”.
Al momento sono stati rigettati gli emendamenti proposti dal M5S, che chiedeva l’eutanasia attiva, ossia la somministrazione di veleno a chi ne faccia richiesta. Ma non dubitiamo che presto la proposta tornerà e sarà sempre più difficile ostacolare lo scivolamento della sfera sul piano inclinato.
Prossimamente il testo passerà al Senato, in cui la maggioranza è meno schiacciante. Noi continueremo comunque a lottare perché alla fine la legge sia rigettata, il buon senso prevalga e si continui a regalare, a chi si trova nel momento peggiore della propria esistenza, una speranza di vita e non una promessa di morte.
Altri commenti: sul Corriere (" Passa il biotestamento, l’ira dei cattolici"), su La Repubblica (“Questa legge non ci piace, ci saranno derive pericolose”), su Famiglia Cristiana ("Biotestamento, passa la legge ma senza suicidio assistito") e su Avvenire ("Ecco i 5 punti critici: dalla relazione di cura alla obiezione") dove troviamo anche questo commento del direttore: "L'incredibile favola per cui chi la difende non conosce la vita (e la sofferenza)":
Gentile direttore,
Davide Trentini malato di Sla ha ottenuto l’eutanasia che desiderava in Svizzera, a costi che ben sappiamo, dopo anni di sofferenze e di assunzione di marijuana per lenire il dolore. E nella sua ultima lettera ha scritto: «Spero che l’Italia diventi un Paese civile e faccia una legge sul fine vita». Le chiedo: ma per quale ragione una persona nel pieno delle sue facoltà mentali non può decidere di fare di sé ciò che desidera? Chi siamo noi, dico la società, a opporci, a decidere per lui. Chi ci dà tutta questa arroganza e presunzione? La libertà è libertà. Se la si vuole far valere per le scelte di vita, deve valere anche per la scelta di morire. Siamo sempre noi e il contesto è sempre lo stesso. Insomma, “no” all’eutanasia e “no” a questa legge sulle Dat perché? Qual è il danno che riceve la cosiddetta società perbene che tanto si oppone? Sono certo che questi signori, che vogliono decidere con supponenza per gli altri, hanno avuto la grande fortuna, in vita loro, di non aver mai conosciuto la sofferenza fisica che è tortura e non sempre è sopportabile. (
Roberto Nuara, Monza)

Mi colpisce sempre la veemenza con la quale i sostenitori dell’eutanasia accusano di non sapere nulla del dolore e della malattia quanti, come noi, non accettano invece l’idea di una “morte a comando” somministrata per forza di legge dello Stato. Che grande e tragica confusione c’è dentro questa presunzione, gentile signor Nuara... Lei, che pure sento sinceramente e pensosamente attento alle ragioni degli altri, pensa davvero che cattolici e laici che concepiscono una medicina ippocratica, al servizio della vita e non della morte, siano tutti dei marziani o dei privilegiati assolti dalla fatica di vivere e dal dolore della malattia? Un’incredibile favola nera. La mia esperienza, che è almeno pari alla sua, mi porta a dire l’esatto contrario di ciò che lei afferma: chi conosce davvero la malattia e la disabilità (che, come nel caso di Eluana Englaro, non sempre e non necessariamente coincide con la malattia) non ama la morte, e non la desidera né per sé né per chi ha accanto. La subisce o le va incontro, come parte della vita. E se ha princìpi e fede, come i cristiani, le dà il giusto valore.

Ho compassione e rispetto per il signor Trentini e leggo e ascolto con attenzione le parole che ha lasciato e che interpellano e commuovono anche me. So bene, per di più, che cosa vuol dire lottare con una malattia come la sclerosi multipla (questa e non la Sla, a differenza di ciò che lei scrive, era la malattia del cinquantenne toscano). La Sm, che è progressivamente invalidante, colpisce – secondo stime attendibili – circa 110mila italiani. Tra essi ci sono diverse persone che conosco e stimo, alcuni miei cari amici e una donna – Francesca – a cui sono specialmente vicino e a cui voglio molto bene...
Sono i cammini percorsi personalmente – da figlio – accanto a mia madre Graziella, a mio padre Giorgio e al mio secondo padre Gino e al padre che è stato per tutti noi san Giovanni Paolo II ad aiutarmi a dire parole che è sempre difficile trovare. Sono i volti, i civili e vibranti appelli di vita, la schiettezza umana e la santità cristiana che ho incontrato in donne, uomini e bambini malati e disabili – e con quanta intensità in questi anni da cronista d’“Avvenire”! – che mi spingono a non lasciar correre davanti all’accusa, che rivolge anche a me, di «supponenza» di fronte al male e alla sofferenza. Non si offenda, ma ciò che lei afferma a questo proposito non è solo ingiusto è totalmente senza senso.

Penso che Davide Trentini al pari di ogni altro essere umano fosse libero di decidere per il bene o per il male, per la vita o per la morte. La nostra libertà è anche questo. E da cristiano so che Dio-Amore – il Padre della vita, il Figlio e Fratello che è morto e risorto per noi, lo Spirito che ci incendia se sappiamo accoglierlo – ci consegna tutta intera questa vertiginosa libertà. Per questo, da cittadino della città dell’uomo, penso che l’unica “opposizione” possibile a un suicidio tentato o richiesto non sia solo di testa, ma prima di tutto di cuore. Penso che stia nello slancio, che è impulso naturale e imperativo morale, di colui o colei che afferra la mano della persona che sta per lanciarsi nel vuoto. E penso che lo stesso sentimento porti, come ha detto il cardinale Edoardo Menichelli, assistente nazionale dei medici cattolici al nostro giornale, ad avere per chi in qualunque modo si toglie la vita non un giudizio, ma una carezza. Pensieri che mi conducono a una constatazione: nel mondo e in Italia – provo a dirglielo senza polemica, perché sono stanco di polemiche su questioni come questa – il problema non sia l’«opposizione alla morte» che lei chiama perbenista e che io riconosco come semplicemente e puramente umana e necessariamente ragionevole, ma una certa e pressante propaganda dell’idea di fissare per legge il «dovere di cooperare al suicidio» di un’altra persona.
E non c’entra il dolore insostenibile. Il dolore, gentile signor Nuara, si può combattere efficacemente. E non solo «assumendo marijuana», ma in molti modi e la buonissima legge italiana sulle cure palliative li conosce praticamente tutti. Si tratta di riconoscerlo, senza strumentalità. Senza farsi incantare, come sembra – sembra! – fare lei, dallo slogan “spinello libero e morte libera”.

Arrivo alla conclusione. L’Italia del Duemila ha ormai bisogno di una buona legge sul «fine vita», che assicuri consenso informato, tuteli dalle cure sproporzionate e dannosamente accanite, non fornisca alcun alibi all’abbandono terapeutico, rispetti la libertà delle persone tanto quanto la scienza e la coscienza del personale sanitario. Non ci serve, invece, una legge ambigua che genererebbe più contenziosi giudiziari, che rispetto delle persone e delle loro volontà. L’Italia, insomma, non ha bisogno che nel nome del libertarismo si arrivi a incrinare e persino a capovolgere i princìpi solidaristici e il favor vitae che Costituzione, ordinamento legislativo e deontologia medica pongono alla base della relazione tra medico e paziente, e tra luoghi di cura e malati e disabili. Sì, dunque, a una legge fatta bene, no a una legge mortalmente confusa; e mille volte no al conseguente avvio di derive verso la “morte a comando” per ordine o concessione dello Stato. Sembra banale dirlo, e preoccupa ritrovarsi a ricordare qualcosa che dovrebbe essere di solare evidenza.

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