LA PASSIONE: UN AMORE IN CRISI?
Da "Il Vangelo dell'amore" (Youcanprint, 2015) di p.Stefano Liberti
Una delle cose che impressionano di più chi
contempla il volto della Sindone è lo sguardo sereno che emana: mostra un uomo
che ha subito flagellazioni di ogni tipo ma che mantiene un aspetto che non fa trapelare
alcuna sofferenza o segno di vendetta e mostra, come fosse solo addormentato,
il compimento di una vita spesa per amore. É l’uomo della passione. Passione
nel nostro vocabolario non è solo il termine atroce della sofferenza che spontaneamente
applichiamo a quella vissuta da Gesù, ma passione è anche l’amore più intenso
che lega due persone o lo stile con cui si fa qualcosa in cui ci si mette
cuore, testa, energia, tempo, vita. Dalla Sindone traspare un amore tenacemente e
gratuitamente offerto; un amore fragile e disarmato; un amore rivolto verso
tutti, anche verso i nemici che lo hanno messo a morte.
Gesù
viene inchiodato alla croce, senza opporre la pur minima resistenza. Viene
deriso, insultato, provocato, lasciato solo dai suoi. Eppure dal suo cuore esce
ancora amore: “Padre, perdonali perché
non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
Colui che
durante il processo «non aprì la sua bocca» e, spogliato delle sue vesti, si
rivestì di sacro silenzio ora che è reso del tutto impotente ed è là sospeso
tra cielo e terra, inchiodato e senza alcuna difesa, in una disfatta che sembra
totale, ora egli parla. E la prima parola che udiamo da lui sulla croce è
perdono, vale a dire «per-dono», dono al superlativo, dono di quell’amore che
l’ha spinto lì: «Padre, perdona loro
perché non sanno quello che fanno». Commenta l’abate Elredo di Rievaulx:
«’Padre’, dice, ‘perdonali’. Che cosa si poteva aggiungere di dolcezza, di
carità a una siffatta preghiera? Tuttavia egli aggiunse qualcosa. Gli sembrò
poco pregare, volle anche scusare. ‘Padre, disse, perdona loro perché non sanno
quello che fanno’» ( Specchio della carità III,5)[1].
LA
CROCIFISSIONE: TALAMO NUZIALE?
Il talamo è il letto nuziale, il luogo
dove i coniugi riposano, dialogano e “consumano” il loro amore. Giunta l’ora
del supremo sacrifico, Gesù sale sul Calvario in obbedienza al Padre, si
distende sul ruvido talamo della croce, si lascia inchiodare ed elevare da
terra. Con le braccia aperte unisce simbolicamente a sé tutti gli uomini e
offre a loro una concreta immagine visibile del suo amore nuziale.
La
Croce è il segno massimo della fedeltà di Dio ed è il segno massimo della
nostra infedeltà. Il segno massimo del suo amore, il segno massimo della nostra
cattiveria.
É nel mistero della
Croce che si rivela appieno la potenza incontenibile della misericordia del
Padre celeste. Per riconquistare l’amore della sua creatura, Egli ha accettato
di pagare un prezzo altissimo: il sangue del suo Unigenito Figlio. La morte,
che per il primo Adamo era segno estremo di solitudine e di impotenza, si è
così trasformata nel supremo atto d’amore e di libertà del nuovo Adamo. Ben si
può allora affermare, con san Massimo il Confessore, che Cristo “morì, se così
si può dire, divinamente, poiché morì liberamente” (Ambigua, 91, 1056).
Nella Croce si manifesta l’eros di
Dio per noi. Eros è infatti - come si esprime lo
Pseudo Dionigi - quella forza “che non permette all’amante di rimanere in se
stesso, ma lo spinge a unirsi all’amato”[2].
Quale più “folle eros”[3]
di quello che ha portato il Figlio di Dio ad unirsi a noi fino al punto di
soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti?[4]
L'unica prova che renderebbe
credibili le sue pretese è di salvare se stesso. E questa è la sfida che
lanciano contro di lui: “Salva te stesso”
(Mt 27,40). Gesù non accetta la sfida, perché non vuole identificarsi con il
loro schema messianico, neppure per rendersi credibile. Non sfrutta le sue
potenzialità per il suo tornaconto. Nel rimanere sulla croce i presenti non
vedono il dono di sé, ma l'impotenza, come esplicitamente dicono i sacerdoti: “Non può salvare se stesso”. Non pensano
che Gesù possa essere un Messia che non scende dalla croce per amore. Il suo
stare sulla croce non è impotenza, ma libero dono, e il silenzio della croce
mostra che il Dio di Gesù Cristo fa i miracoli, ma non salva il mondo con la
potenza dei miracoli, bensì con la generosità dell'amore, che giunge al dono di
sé.
Cristo stesso si è trovato in
balìa della solitudine, del silenzio; si è sentito abbandonato, lasciato a se
stesso dentro l’umiliazione della morte in croce, appeso sul legno come un
malfattore qualsiasi. In un certo senso, Cristo ha vissuto e attraversato tutte
quelle situazioni drammatiche, anche le più estreme, che squartano il cuore
dell’uomo e segnano l’esistenza umana. Le ha attraversate emergendo alla luce,
alla Vita vera. Per questo, dopo di lui, nessuna notte è così notte, nessun
buio è così buio. Ogni uomo, per quanto viva situazioni angosciose, finisce per
trovarsi dove Cristo è già passato, così può sempre incontrarlo. Quando l’uomo
arriva al fondo più fondo senza nessuna via d’uscita, si imbatte in Cristo che
ha attraversato il baratro della morte e dell’angoscia, pronto a stendere la
mano verso di lui. Anche nel mondo della tenebra Cristo affianca l’uomo come il
buon Samaritano per soccorrerlo e sostenerlo[5].
“É giunta l’ora che il figlio dell’uomo sia
glorificato” (Gv 12,23). É l’ora della Croce! È l’ora della sconfitta di
Satana, principe del male, e del trionfo definitivo dell’amore misericordioso
di Dio. Cristo dichiara che sarà “innalzato
da terra” (v.32), un’espressione dal doppio significato: “innalzato” perché
crocifisso, e “innalzato” perché esaltato dal Padre nella Risurrezione, per
attirare tutti a sé e riconciliare gli uomini con Dio e tra di loro. L’ora
della Croce, la più buia della storia, è anche la sorgente della salvezza per
quanti credono in Lui.
AMORE E CROCE
La
morte non è stata introdotta dal peccato umano, ma è parte della vita, evento
ineludibile, ma non finale. Il peccato l’ha resa esperienza di lutto, angoscia,
separazione dolorosa, fonte di paura.
Non è la morte un male, bensì il nostro modo di
concepirla. Il suo pungiglione, che ci avvelena l’esistenza, è il peccato (1Cor
15,56). Se faccio del mio io il mio dio, principio e fine di tutto, allora per
me la morte è la fine di tutto. L’uomo, essere corporeo, è delimitato dallo
spazio e dal tempo: occupa un certo luogo per un certo numero di giorni. Ma il
limite del suo spazio non è luogo di lotta, bensì di alleanza con gli altri; il
limite del suo tempo non è la fine di tutto, ma la comunione con il suo
principio. É l’interpretazione più bella, l’unica ragionevole, della vita e
della morte[6].
L’unica
preoccupazione riguardante la “sorella” morte, è per San Francesco quella
espressa da una sua nota preghiera: “Signore, concedimi di morire per amore tuo
come tu sei morto per amore dell’amor mio”.
La
morte, compresa e vissuta quale uscita da sé, quale dedizione totale di sé,
costituisce un’esigenza interna della persona che ama veramente. (…) Cristo ha
voluto affrontare la morte come atto d’amore per la sua Sposa/ Umanità. Così
facendo, Dio non è venuto meno al suo progetto iniziale: condurre ogni umana
persona alle nozze con sé[7].
La
croce è l'ora del massimo amore; è quindi l'ora in cui è possibile conoscere
Gesù, in cui è possibile vedere il suo vero volto, in cui è possibile capire
che Gesù è Dio e Dio è amore e l'amore è dono infinito di sé. Sulla croce Gesù compie la sua piena donazione: si
spoglia di ogni cosa per donarcela. Ci dona il suo perdono e la sua giustificazione,
poi sua madre perché d’ora in poi diventi anche nostra madre[8], poi il suo stesso
rapporto col Padre, che sembra perdere in quel grido angosciato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.
Infine il suo stesso Spirito che, nell’atto del morire, dona a noi
consegnandocelo (“E, chinato il capo,
consegnò lo spirito”, Gv 19,30).
La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere
a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta
che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria e la nostra morte:
è necessario morire così per dare frutto. È una legge biologica, ma è anche il
segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà,
di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il
dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli
altri.
Dal costato di Cristo trafitto dal soldato scaturisce
sangue ed acqua, simboli dei sacramenti dell’Eucaristia e del Battesimo che ci
rendono figli nel Figlio, creature amate e “sposate” da lui. Il costato inoltre
richiama quel torpore fatto scendere da Dio su Adamo per togliere una sua
costola e formarvi la Donna-Eva.
Cristo – quale nuovo e definitivo Adamo -, mentre viene
trafitto al costato, fa uscire da sé quella pienezza di vita e d’amore, quella
potenza amante dello Spirito che plasmano la nuova Donna che Cristo ha già
posto e contemplato accanto a sé. Allora il primo “storico” Adamo era stato
fatto sprofondare in un misterioso sonno di morte per permettere a Dio di
prendere da lui la costola per plasmare/costruire Eva, “carne della sua carne”.
Adesso Cristo, ultimo Adamo, calato nel sonno di morte, si lascia trafiggere al
costato perché, col dono estremo di sé e della sua vita, venga formata la
Donna-Sposa-Chiesa[9].
[4] Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2007
[5] G. Mazzanti, Uomo
donna mistero grande, p.92
[6] S. Fausti, Una
comunità legge il vangelo di Giovanni, p.211
[7] G. Mazzanti, Uomo
donna mistero grande, p.28-29.
[8]
“É
nell’evento della morte del Cristo in croce che Maria viene resa “Donna” e
“Madre”. Madre anche di quella moltitudine di figli rappresentata dalle tre
lingue in cui è scritta la condanna a morte di Gesù Cristo. Le tre lingue –
greco, latino ed ebraico – stanno come a rappresentare l’umanità nel suo
complesso, quasi a dire: tutti gli uomini, di qualunque nazione e lingua, nati
da Cristo e da Maria, sono chiamati alle nozze con il Signore”. G.
Mazzanti, Uomo donna mistero grande,
p.64.
[9] Idem, p.66. Scriveva Giovanni Crisostomo: “Dal fianco di Cristo fu formata la Chiesa,
come dal fianco di Adamo fu formata Eva (…). E come allora prese dal fianco
durante il sonno, mentre Adamo dormiva, così ora, dopo la sua morte, diede il
sangue e l’acqua. La morte è ora ciò che fu allora il sonno. Vedete come Cristo
ha congiunto a se stesso la sposa?”, Catechesi battesimali, 7,17-18.