La donna nella Chiesa. Riflessioni ecclesiali in occasione della festa delle donne



La Chiesa sta riflettendo e, lentamente, camminando versa una maggiore valorizzazione del ruolo ecclesiale delle donne. Sull'argomento è recente un intervento di papa Francesco (il video ripropone una sua una omelia dello scorso anno) che ha messo in evidenza la questione delle suore "colf" di vescovi e cardinali "denunciata" proprio da l'Osservatore Romano.

In un libro presentato in questi giorniDiez cosas que el papa Francisco propone a las mujeres (“Dieci cose che Papa Francesco propone alle donne”), di María Teresa Compte Grau edito da Publicaciones Claretianas (Madrid, 2018, pagine 85), il papa scrive:
Mi preoccupa il persistere di una certa mentalità maschilista, perfino nelle società più avanzate, dove si consumano atti di violenza contro la donna, trasformandola in oggetto di maltrattamento, di tratta e di lucro, come pure di sfruttamento nella pubblicità e nell’industria del consumo e del divertimento. Mi preoccupa anche che, nella stessa Chiesa, il ruolo di servizio a cui ogni cristiano a chiamato, scivoli a volte, nel caso delle donne, verso ruoli più di servitù che di vero servizio. (...)
Credo che sia necessaria una rinnovata ricerca antropologica che incorpori i nuovi progressi della scienza e delle attuali sensibilità culturali per approfondire sempre più non solo l’identità femminile, ma anche l’identità maschile, al fine di servire meglio l’essere umano nel suo complesso.
Andare avanti in questo è prepararci ad una umanità nuova e sempre rinnovata, spero che questo libro generi una maggiore sensibilità e riconoscimento della missione e della vocazione delle donne. Dall’esempio di Maria, modello di una donna, ma anche icona di una Chiesa chiamata nella sua interezza a essere una Madre che ama con tenerezza e affetto  tutti, uomini e donne non devono perdere di vista questa prospettiva che è così cruciale oggi.
La riflessione si associa alla denuncia di alcune suore di essere trattate come "colf a stipendio basso", polemica che mi lascia un po perplesso considerando che nessuna suora è ancora obbligata a svolgere mansioni che non approva. Così ancora Aleteia:
Suore che si sentono sfruttate alla stregua di colf sotto-pagate da vescovi e cardinali. Si alzano alle sei del mattino, lavano, cucinano, fanno servizi e non siedono neppure alla stessa tavola che preparano.
Ovviamente non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma casi del genere ne esistono, eccome. A denuciarlo è l’Osservatore Romano (1 marzo):
Una suora (che resta nell’anonimato), giunta a Roma dall’Africa nera una ventina di anni fa, da allora accoglie religiose provenienti da tutto il mondo e da qualche tempo ha deciso di testimoniare ciò che vede e che ascolta sotto il sigillo della confidenza.
«Ricevo spesso suore in situazione di servizio domestico decisamente poco riconosciuto. Alcune di loro servono nelle abitazioni di vescovi o cardinali, altre lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgono compiti di catechesi e d’insegnamento. Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata…. In questo tipo di “servizio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come i laici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta». 
La suora sostiene che queste religiose raramente sono invitate a sedere alla tavola che servono.
«Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori domestici sono quasi sempre donne, religiose?». 
Queste religiose, sempre secondo questa suora, provano una profonda frustrazione ma restano omertose. Non hanno il coraggio di denunciare la loro situazione personale. Hanno storie complesse.   
Nel caso di suore straniere venute dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa, una fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europa grazie alla superiora…. Se una di queste religiose torna nel proprio paese, la sua famiglia non capisce. Le dice: ma come sei capricciosa! Queste suore si sentono in debito, legate, e allora tacciono. 
 Dal punto di vista lavorativo, spesso le religiose non hanno contratto o una convenzione coni vescovi o le parrocchie con cui collaborano. Quindi non possono godere di tutele, per così dire, “sindacali”.
«Quindi – lamenta un’altra religiosa al quotidiano della Santa Sede – vengono pagate poco o per niente. Così accade nelle scuole o negli ambulatori, e più spesso nel lavoro pastorale o quando si occupano della cucina e delle faccende domestiche in vescovado o in parrocchia. È un’ingiustizia che si verifica anche in Italia, non solo in terre lontane».
 Ma come si risolve questa incresciosa situazione che coinvolgerebbe molte religiose? Partendo dal riconoscimento delle stesse. Perché le religiose hanno la sensazione di essere poco valorizzate rispetto alla loro vocazione appannaggio di quella maschile. Rimarca sempre la stessa suora:
«Dietro tutto ciò, c’è purtroppo ancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che il prete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericalismo uccide la Chiesa».
 «Ho conosciuto delle suore che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e mi hanno raccontato che, quando erano malate, nessun prete di quelli che servivano andava a trovarle. Dall’oggi all’indomani venivano mandate via senza una parola. A volte succede ancora così: una congregazione mette una suora a disposizione su richiesta e quando quella suora si ammala viene rimandata alla sua congregazione… E se ne invia un’altra, come se fossimo intercambiabili».
 Insomma, le suore non chiedono la luna, ma solo più rispetto. Come conclude questa religiosa:«Da parte mia, quando vengo invitata a fare una conferenza, non esito più a dire che desidero essere pagata e qual è il compenso che mi aspetto. Ma, è chiaro, mi adeguo alle disponibilità di quanti me lo chiedono. Le mie sorelle e io viviamo molto poveramente e non miriamo alla ricchezza, ma solo a vivere semplicemente in condizioni decorose e giuste. È una questione di sopravvivenza per le nostre comunità».
Essere riconosciute per il loro lavoro è anche una sfida spirituale.
«Il riconoscimento del loro lavoro costituisce anche, per molte, una sfida spirituale. «Gesù è venuto per liberarci e ai suoi occhi noi siamo tutti figli di Dio» precisa suor Marie. «Ma nella loro vita concreta certe suore non vivono questo e provano una grande confusione e un profondo sconforto». 
E' ancora l'Osservatore Romano a presentare un "manifesto per le donne nella Chiesa":
È frutto di un percorso di condivisione fatto con una trentina di donne appartenenti a varie realtà ecclesiali di tutta Italia il Manifesto per le donne nella Chiesa recentemente uscito sul sito www.glistatigenerali.com: «Attraverso il metodo della revisione di vita, sperimentato per la prima volta in un gruppo facebook, abbiamo ragionato — spiegano le firmatarie — su ciò che abbiamo vissuto, ma anche su ciò che auspichiamo alla luce della Parola di Dio, ben sapendo di non essere delle teologhe, ma delle semplici donne credenti, che si sentono figlie della Chiesa e sanno di poter parlare a cuore aperto ai propri pastori e a tutta la comunità. Questo documento da un lato riassume ciò che, come donne, abbiamo sperimentato e sperimentiamo nelle comunità cristiane e dall’altro rappresenta una dichiarazione d’intenti riguardo al come vogliamo agire nella Chiesa, più ancora che al cosa fare». Dopo la pubblicazione, è stata data la possibilità di firmare anche a quanti seguono la pagina facebook del progetto: in un paio di giorni le firme sono triplicate. Evidentemente il messaggio, chiaro e argomentato, ha colto nel segno. Precise sono le richieste che il manifesto avanza. «Chiediamo: rispetto nei confronti del nostro impegno, la possibilità di esprimere un servizio coerente con le nostre competenze e capacità; che i presbiteri ai quali le nostre comunità sono affidate conoscano e apprezzino il femminile, che abbiano un rapporto sano e sereno con le donne, che siano persone psicologicamente mature; che si prenda in considerazione che la ricerca vocazionale femminile ha aperto nuovi e più articolati orizzonti, in una maturazione di prospettive che necessita di attenzioni e risposte; che si riconosca la possibilità per le donne di avvicinarsi al cuore della vita ecclesiale e che si attribuisca il dovuto valore all’autentico desiderio di partecipare a una ministerialità più attiva, compresa quella sacramentale. E che pertanto è legittimo e va nel senso del bene per la Chiesa intera iniziare a concepire risposte concrete in questo ambito. Non siamo dei sostituti d’azione, ma possiamo “inventare” forme nuove che arricchiscono la Chiesa. Non chiediamo posti di potere, ma di essere pienamente riconosciute come figlie di Dio e membri della comunità alla pari degli uomini». Per questo, proseguono le autrici, «siamo pronte a metterci al servizio della Chiesa con tre criteri: Assertività: non temiamo di proporre, di chiedere riconoscimento per ciò che facciamo e portiamo alla comunità; Libertà: il nostro agire non è finalizzato a conquistare posti di prestigio e questo ci mette in condizioni di non ricattabilità; Alleanza femminile: là dove siamo e tra noi scegliamo di essere alleate delle sorelle che incontriamo e soprattutto di non cadere nella rivalità tra donne per ottenere l’approvazione maschile». Il manifesto così si conclude: «Abbiamo deciso di trovarci tra donne adulte, che hanno vissuto e vivono un percorso di fede per condividere e scambiare e siamo pronte ad accogliere quante decideranno di unirsi a noi. Vogliamo dare un messaggio chiaro sul genere di femminilità di cui riteniamo che la Chiesa abbia bisogno. Vogliamo farci conoscere per testimoniare che nella Chiesa ci sono donne che non si sottomettono e poter così avvicinare anche altre sorelle nella fede che si sentono disorientate da quest’ondata tradizionalista. Non rinunciamo a portare avanti istanze serie e grandi»
(Fonte: "L'Osservatore Romano" - 1 marzo 2018)
 Guarda anche la pagina fb: Donne per la Chiesa


Il video delle intenzioni di preghiera del pontefice per il mese di Maggio 2016 era dedicato alle donne:
È innegabile il contributo delle donne in tutti gli ambiti dell’attività umana, iniziando dalla famiglia.
Ma soltanto riconoscerlo… È sufficiente?
Abbiamo fatto molto poco per le donne che si trovano in situazioni molto difficili, scomparse, emarginate, e perfino ridotte in schiavitù.
Dobbiamo condannare la violenza sessuale che soffrono le donne ed eliminare gli ostacoli che impediscono il loro pieno inserimento nella vita sociale, politica ed economica.
Se pensi che questo è giusto, fa conoscere questa petizione con me. È una preghiera: perché in tutti i Paesi del mondo le donne siano onorate e rispettate, e sia valorizzato il loro imprescindibile contributo sociale.

Concludo con la riflessione del biblista Alberto Maggi: "Peccato che sia femmina":
La tradizione religiosa giudaica, confluita nel Talmud, considerava la nascita di una bambina un castigo divino (“Maledetti coloro le cui figlie sono femmine”, Qiddushin B. 82b), e si insegnava che “il mondo non può esistere senza maschi e senza femmine, ma felice colui i cui figli sono maschi e guai a colui i cui figli sono femmine” (Baba.B.B. 16b). In un mondo dove si insegnava che “la migliore delle donne pratica l’idolatria” (Qid. Y. 66 cd) e che “chiunque discorre molto con una donna, è causa di male a se stesso, trascura lo studio della Legge e finisce nella Geenna” (P. Ab. 1,5), la rivoluzionaria normalità con la quale Gesù si rapportava con le donne non doveva essere ben vista, anche da parte della primitiva comunità cristiana, come traspare nel vangelo di Giovanni, dove i discepoli, sorpreso il loro maestro in colloquio con una samaritana, “si meravigliavano che parlasse con una donna” (Gv 4,27), essere inferiore che non merita alcuna attenzione da parte degli uomini. In una società in cui i rabbini non si mostravano in pubblico neppure con la propria moglie, e se l’incontravano non la salutavano, Gesù non esita ad accogliere nel suo gruppo anche delle femmine, con evidente grande scandaloper la presenza di queste “donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni. Giovanna, moglie di Cuza, l’amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni” (Lc 8, 2-3).
 Nel Talmud è scritto che è meglio che “le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne” (Sota B. 19a), e nella lingua ebraica non si conosce un termine per indicare “discepola”, che esiste solo al maschile. È evidente che con questa mentalità la presenza delle donne nella comunità cristiana doveva essere proprio insopportabile ai discepoli. Nei Libri apocrifi, meno preoccupati dell’ortodossia teologica, si avvertono tutte le tensioni tra i maschi, capitanati da Pietro, e le femmine, rappresentate da Maria Maddalena. Nel Vangelo di Tommaso, (apocrifo della metà del secondo secolo), Pietro chiede addirittura che le donne vengano cacciate dalla comunità: “Simon Pietro disse: Maria se ne vada da noi, ché le donne non meritano la vita!”. Più sconcertante della richiesta di Pietro è la sorprendente risposta di Gesù, che accoglie la protesta del discepolo: “Gesù rispose: Ecco, io la trarrò così da renderla uomo”, per arrivare poi alla deduzione teologico-spirituale che solo “ogni donna che si fa uomo entrerà nel regno dei cieli” (Vang. Tom. 114). In un altro testo Pietro, a nome dei discepoli, si rivolge al Signore lamentandosi che “noi non siamo capaci di sopportare questa donna [Maria Maddalena], perché ella ci toglie ogni occasione; non ha lasciato parlare nessuno di noi, ma è lei che parla sempre” (Pistis Sophia, 36). Maria Maddalena dal canto suo risponde accusando di misoginia Pietro “che è solito minacciarmi e odia il nostro sesso” (P.S. 2, 72). Pietro inoltre trova intollerabile la pretesa delle discepole di prendere la parola nell’assemblea cristiana, e arriva a chiedere: “Signor mio, cessino le donne di domandare, così che noi pure chiediamo!”. E ancora una volta Gesù accondiscende alle lamentele di Pietro e “dice a Maria e alle donne: Date opportunità ai vostri fratelli maschi di chiedere loro pure” (P.S. 2,146).
Il disagio dei discepoli a dover convivere e sopportare le donne, che pretendevano la parità di trattamento nella comunità cristiana, non traspare solo dagli scritti apocrifi, ma è ben documentato anche dai testi canonici, come si legge nella Prima Lettera ai Corinzi. L’autore dello scritto cerca di togliere la parola alle donne (che pur Paolo aveva concesso, cf 1 Cor 11,5), e non potendosi appellare all’insegnamento di Gesù, fa ricorso all’Antico Testamento: “Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (1 Cor 14,34-35; Gen 3,16). Similmente, nella Prima Lettera a Timoteo si trova scritto: “La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo” (1 Tm 2,11). Per giustificare la sua misoginia l’autore si deve arrampicare sugli specchi, arrivando a scomodare perfino Adamo ed Eva, “perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre” (1 Tm 2,13-14). Per le povere donne, sempre colpevoli di tutto, l’unica salvezza è quella di sfornare figli a getto continuo: “Essa potrà essere salvata partorendo figli” (1 Tm 2,15).
 La difficoltà di accettare che una donna possa far parte dei seguaci di Gesù è attestata anche nell’interpretazione che è stata data di un versetto della Lettera ai Romani, dove Paolo saluta: “Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,6). Si tratta di marito e moglie, credenti della prim’ora, che Paolo definisce non solo apostoli, ma persino insigni. Ma più la Chiesa si istituzionalizzava e si trasformava in un’organizzazione monarchica, governata con fare autoritario da soli maschi, più questo testo creava difficoltà: come poteva una donna essere parificata nientemeno agli apostoli e per giunta essere considerata insigne! E nonostante che padri della Chiesa dello spessore di Giovanni Crisostomo rendessero omaggio a Giunia (“Quant’è grande la sapienza di questa donna, che è stata ritenuta degna persino del titolo di apostolo”, Ad Romanos 31,2), dal tempo di Bonifacio VIII (1230-1303), il testo fu modificato. Il tremendo papa autoritario, con la Bolla “Periculoso, De statu Monachorumin sexto”, nel 1298, confinò l’attività delle monache all’interno dei monasteri per cercare di arginarne il loro influsso, e fu da allora che, per sminuire l’importanza delle donne nella Chiesa, si cominciò a interpretare e tradurre il nome Giunia al maschile, che così divenne il diminutivo di Giuniano, inesistente nell’onomastica romana.
Nel processo di riabilitazione delle donne dei vangeli, papa Francesco ha elevato la semplice memoria liturgica di Maria Maddalena a festa, proprio come per gli altri apostoli,riconoscendola “apostola degli apostoli” (come l’aveva definita san Tommaso). Il papa ha messo così la parola fine all’equivoco causato da papa Gregorio Magno (VI sec), che aveva identificato Maria di Magdala nell’anonima peccatrice di Luca (Lc 7,36-50), creando la figura della Maddalena pentita ai piedi della croce (Gv 19,25), ma sminuendo di fatto la sua importanza all’interno del gruppo dei discepoli del Cristo.
Chissà se con Papa Francesco sarà ora riabilitata anche Giunia, l’ “insigne apostola” che patì anche il carcere per la sua fedeltà al vangelo. Infatti, solo nella Chiesa ortodossa Giunia è considerata santa e festeggiata il 30 giugno, ma il suo nome è tuttora assente nel Martirologio Romano.
Vedi anche il suo intervento dal titolo: "La donna tenuta "nascosta" dalla Chiesa". 

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