L’ideale cristiano e la nostra fragilità



Riprendo le mie riflessioni sulla "vita sessuale tra Chiesa e società"

La Chiesa, fedele a Gesù Cristo, ci invita a guardare all’orizzonte, alla meta della nostra vita, all’ideale che ci parla di pienezza, felicità, realizzazione delle nostre potenzialità e del progetto che Dio ha iscritto nelle nostre membra. Se lo sguardo deve essere rivolto a tale orizzonte, alzando la testa ed evitando di rimanere avvinghiati alla terra come galline interessate solo a cercare il proprio mangime, non si deve dimenticare la fragilità - anch’essa costitutiva della nostra condizione umana - i limiti, le ferite, gli sbagli, il bisogno di perdono, di guarigione, di sostegno, di accompagnamento che ogni essere umano si porta dentro. Non si deve dimenticare che dietro a scelte moralmente criticabili e oggettivamente sbagliate ci sono persone fragili e con una storia spesso dolorosa, già ferita da fallimenti e abusi: queste, più che sentirsi criticate, hanno bisogno di sentirsi accolte, amate, accompagnate, sostenute, valorizzate. Solo dopo possono (e debbono) essere aiutate a comprendere gli errori fatti e offrire loro la possibilità di dare una svolta positiva, alta, bella alla propria vita.
Essere fedeli all’ideale evangelico non può tradursi in “un ideale teologico troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità” delle persone, le quali vivono in un “cammino dinamico di crescita e realizzazione”[1].
Dio ha messo questo tesoro – la vita e l’amore - in “vasi di creta[2], immagine paolina della nostra fragilità. I giapponesi utilizzano una tecnica che valorizza i vasi proprio a partire dalle loro crepe: si chiama “Kintsugi” e consiste nel riparare un oggetto rotto riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che, quando qualcosa ha subito una ferita e ha una storia, diventa più bello. Gesù ha fatto qualcosa del genere: si è chinato davanti ad ogni “vaso rotto” guarendo e valorizzando le potenzialità insite nella persona. Lo ha fatto facendoci sentire amati, donandoci la sua attenzione, rialzandoci per farci riprendere il cammino, indicando la vera meta del pellegrinare. Dopo la Resurrezione Gesù ha continuato a mostrare le sue ferite come segno distintivo della sua storia umana, del dono della sua vita, di un amore smisurato, gratuito, vivificante, offerto a prezzo della sua vita. Le ferite hanno mostrano che abbiamo combattuto per qualcosa che ne valesse la pena, abbiamo vissuto con intensità, senza risparmiarci.
Si racconta la storia di un uomo che era morto e che, salito al cielo, viene accolto da un angelo che gli dice: “Mostrami le tue ferite”. Egli risponde: “Ferite? Non ne ho”. E l’angelo a lui: “Dunque non hai mai trovato nulla per cui valesse la pena di battersi?”. La fede nella resurrezione significa credere che le ferite che riceviamo non sono mortali e che possiamo correre il rischio di essere vulnerabili[3].
Più volte gli avversari di Gesù cercano di metterlo in difficoltà e non è un caso che ricorrano a casi riguardanti la sessualità umana, come nella discussione sull’indissolubilità del matrimonio. Gesù risponde invitandoci  a non rinnegare l’ideale e, allo stesso tempo, rispettare la fragilità delle persone concrete che si hanno davanti; a condannare il peccato, non il peccatore; a tendere alla misura alta, all’ideale, al sogno di Dio senza negare la possibilità drammatica di fallire. L’ideale proposto non si pone tanto come regola, ma come obiettivo verso cui far tendere la nostra esistenza. Non possiamo giudicare l’agire umano a partire da un ideale altissimo e umanamente irraggiungibile come quando Gesù chiede: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”, o, secondo la versione lucana, “Siate misericordiosi com'è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli[4] o in base all’incapacità di amare i propri nemici e di amarci reciprocamente come lui ci ha amati. Queste indicazioni sono fari che ci indicano il cammino da compiere, la direzione da prendere. Così è, a mio parere, per l’amore totale e indissolubile che è richiesto alla famiglia, la quale si troverà sempre a fare i conti con i propri limiti e sbagli.
Gesù è venuto per i peccatori, come un medico che viene per guarire i malati; non ha disdegnato di condividere la mensa con loro, al punto da essere accusato di essere un “mangione e un beone”, un “amico dei pubblicani e dei peccatori[5]. È proprio dall’accusa di accogliere i peccatori e di mangiare con loro che nascono le tre parabole della misericordia, l’ultima delle quali è il celebre racconto del Padre misericordioso e dei suoi due figli. Il figlio maggiore ha l’atteggiamento intollerante dei farisei e degli scribi: ligi alle regole, escludono e condannano coloro che le infrangono, rifiutandosi di riconoscerli come fratelli. Più volte, nei Vangeli, Gesù si scontra con chi si crede giusto e carica gli altri di pesi insopportabili che, loro, non sono disposti a toccate nemmeno con un dito[6]. A Gesù non interessa la legge per la legge, ma la salvezza dell’uomo, verso cui la legge deve mettersi a servizio. Se deve scegliere tra il rispetto del riposo sabbatico e la carità nei confronti di una persona, non esita a tralasciare il rispetto del sabato per aiutare gli altri perché “il sabato” (e il discorso vale per ogni altra regola) “è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato[7].
Fratelli” – scrive san Paolo – “siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri[8]. E ai Corinzi ricorda: “Tutto è lecito! Ma non tutto è utile! Tutto è lecito! Ma non tutto edifica![9]. E ancora: “Siete stati riscattati da Cristo a caro prezzo; non diventate schiavi degli uomini[10] (1 Cor. 7,23). E’ inoltre ben consapevole di come il marasma interiore, a volte autodistruttivo, ci porti a fare delle scelte che non sempre corrispondono a ciò che sentiamo e sappiamo essere la cosa giusta e buona da fare:
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rm 7,15-19).
San Paolo dice di non capire quello che fa, perché sperimenta, come tutti noi, che ci sono in lui delle spinte che lo inclinano al male e che non riesce a dominare.
L’esperienza di san Paolo è anche la nostra: quante volte ci siamo proposti di rimanere calmi e pazienti, di non dire neanche una parola e invece, subito dopo, abbiamo perso la pazienza e abbiamo detto quello che non volevamo dire? Quante volte si vorrebbe dominare qualche impulso sensuale e invece vi ci troviamo coinvolti, nonostante la nostra volontà contraria? Siamo allora schiavi dei nostri istinti e dei nostri bisogni? No, ma non possiamo neanche minimizzarne le forze. Abbiamo bisogno di regole che ci tengano in carreggiata, che ci aiutino a realizzare la nostra volontà, le scelte fatte, le decisioni prese. Abbiamo bisogno della “grazia”, cioè di un aiuto divino che ci sostenga e ci illumini nei momenti di buio e di prova (“non abbandonarci alla tentazione”, preghiamo secondo l’insegnamento del nostro Signore). San Paolo non vuole negare o diminuire la responsabilità dell’uomo, ma riconosce la fragilità in cui si trova e che è la causa per cui fa ciò che disapprova e riconosce come male. Questa causa è, secondo la tradizione cristiana, la concupiscenza che proviene dal peccato originale e che è stata acuita dai peccati personali.


[1] Papa Francesco, Amoris laetitia, n.36.
[2] 2 Cor 4,7,
[3] T. Radcliffe, Amare nella libertà, Qiqajon 2007, p.66-67
[4] Mt 5,48 e Lc 6,36.
[5] Mt 11,19
[6] Cfr. Lc 11,46
[7] Mc 2,27
[8] Gal 5,13
[9] 1 Cor 10,23
[10] 1 Cor 7,23

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