Sul dj Fabo e sul "diritto" di morire


Tra le notizie del giorno, tra le più discusse, c'è quella della morte del dj Fabo in Svizzera, in una clinica specializzata nel suicidio assistito. Fabiano Antoniani, vero nome del dj Fabo, 39 anni, di cui gli ultimi, dopo un incidente automobilistico, passati senza poter vedere e praticamente muoversi, aveva pubblicamente chiesto di poter morire, perchè incapace di accettare questa vita e le sofferenze che doveva subire.
Il suo caso è stato sfruttato da coloro che spingono perchè il Parlamento che sta da anni discutendo su una legge sul fine vita, consenta di scegliere la propria fine e di poter morire se non si desidera più vivere.
Riporto innanzitutto le riflessioni di don Andrea Lonardo:
La vicenda della morte di Dj Fabo, che non è riuscito a trovare la forza di continuare a vivere, genera in chiunque sentimenti di compassione e di tristezza. Sentimenti di compiacimento o di vittoria appaiono assolutamente fuori luogo.
Dinanzi alla sua dolorosa vicenda, che  comunque chiede rispetto, tanti si preoccupano di trasformare subito la sua scelta in una questione di diritti politici. Per me la sua vita pone, invece, primariamente la questione se l’esistenza di tutti, che necessariamente prima o poi incontra il dolore irreparabile, abbia un senso.
La questione dei diritti non è quella decisiva, anche se è quella che è sulla bocca di tutti. Vale la pena dire solo una breve parola su di essa per giungere poi alla questione che interessa tutti (anche se viene esorcizzata proprio parlandone solo politicamente): cosa fare del dolore quando bussa e busserà alla porta del nostro corpo?  

1/ La questione politica

A livello politico è un non senso un preteso diritto al suicidio (questa prospettiva più ampia permette di capire meglio cosa si intenda poi per eutanasia). Si può parlare, semmai di una non punibilità, analogamente a quanto avviene, ad esempio, per l’aborto. Per la 194 l’aborto non è un diritto, perché lo Stato promuove la vita: piuttosto, riconoscendo l’estrema difficoltà di alcune gravidanze, mentre si impegna a fornire ogni mezzo perché sia salvato il bambino, non si accanisce con chi non riesce ad accettare la creatura, sana o malata che sia.
Solo una concezione distorta del diritto può portare a reclamare un diritto al suicidio: perché parlare di diritti implica parlare di cose buone e giuste, come il diritto al lavoro, allo studio, alla libertà e così via.
Parlare di diritto al suicidio vuol dire utilizzare il linguaggio dell’individualismo.
Se io mi suicidassi, non mi avvarrei di un diritto: al contrario verrei meno a qualcosa, creando problemi ai miei fratelli, ai miei amici, alle persone che hanno bisogno del mio lavoro, della mia disponibilità, della mia vicinanza, della mia testimonianza che vale la pena vivere. Se invece un depresso si suicidasse, questo, pur non essendo un diritto, sarebbe un dato che si dovrebbe tristemente talvolta accettare, senza infierire oltre.
Chi è vissuto a fianco di un suicida e conosce le conseguenze di tale gesto nella vita dei familiari, segnandoli per sempre, si accorge subito che il gesto di morire prima del tempo ferisce chi resta, non essendo solo qualcosa di individualistico.
Il suicidio porta dolore nei cuori e toglie l’apporto di una persona alla società intera. Lo Stato può accettare il fatto che un depresso non riesca più a vivere, ma senza chiamare questa scelta “diritto”. Compito della comunità sarà, invece, sempre quello di fare di tutto perché la persona non giunga a quel passo irreparabile: è un dovere trasmettere nell’educazione passione per la vita, in qualsiasi condizione, e non proclamare nelle scuole che è la stessa cosa continuare a vivere o uccidersi. L’estrema difficoltà di singoli casi estremi non può portare a riconoscere surrettiziamente un diritto della persona a morire quando lo ritenesse giusto. È opportuno, invece, chiedere che lo Stato spinga sempre ad avere comprensione e rispetto, evitando al contempo procedimenti punitivi. Chi sa noi stessi se saremmo capaci.

2/ La questione della vita

Ma la vera questione, come si diceva, non è quella politica, bensì quella della vita stessa. Tale questione emerge in particolare nel caso di un giovane come Fabiano Antoniani. Broker, assicuratore, amante del motocross, dei viaggi, della musica, della sua fidanzata, dj noto e appezzato. Per prendere il cellulare che gli era caduto dalle mani perde il controllo della vettura e, nell’incidente, si ritrova cieco e tetraplegico, cioè immobilizzato, a 36 anni.
Credo sia questo che colpisce i ragazzi e tutti noi. La vita giovane non è detto che duri, anzi è certo che non durerà, perché prima o poi, quando meno ce lo aspettiamo, per una futile distrazione legata all’iPhone, ci potremmo ritrovare in condizioni diverse da quelle della nostra giovinezza spensierata. Che fare allora?
Cosa dice l’incidente e la malattia di dj Fabo a chi stasera va in discoteca? A chi ama la musica, le donne, il motocross, i viaggi? Cosa è la vita? Cosa bisogna farne prima che il corpo non risponda più e cosa bisogna farne una volta che non risponderà più?
Questa domanda che tutti sentiamo nella pancia è ben addomesticata dalla discussione politica. Tutti sembrano limitarsi a dire: sul senso della vita sbrigatela tu, a noi interessa solo dirti che se trovi un senso alla vita puoi vivere, altrimenti suicidati, perché noi, adulti, giornalisti, politici, ci preoccupiamo solo di fornirti uno spazio di libertà, ma se tu deciderai di vivere e morire a noi non interessa niente.
Ovviamente vorrei parlare a lungo, con te lettore, di come si possa affrontare il male che bussa alla porta, perché io voglio, invece, che tu decida di vivere e che non sia equivalente l’una o l’altra scelta, quasi fosse ognuna solo una possibilità identica all’altra. Se vuoi potremo incontrarci e parlarne.
Ho desiderio, però, di evocare tre figure, perché dobbiamo attingere alla ricchezza di chi ha già riflettuto su queste cose, vedendo la propria generazione gioire, ammalarsi e invecchiare, affrontando nella propria carne la gioia come il dolore.
Innanzitutto Qoèlet. Questo antico autore ebreo afferma che tutto è vanità e un inseguire il vento, che la giovinezza e i capelli neri sono un soffio, che ciò che è stato fatto si rifarà e che non c’è mai niente di nuovo sotto il sole, che buoni e cattivi tutti siamo obbligati a morire. Ma, mentre mostra che dell’uomo non c’è molto da fidarsi, anche se bisogna a suo dire godere dei piaceri passeggeri della vita, ecco che si volge a una via d’uscita: se l’uomo è troppo debole per farvi affidamento, il Signore invece è verità e lui giudicherà ogni azione. Qoèlet esce dallo scetticismo e dal relativismo che rende in fondo indifferente ogni scelta nella vita dicendo di credere in Dio. Strano scettico Qoèlet! Uno scettico che diffida dell’uomo, pur amandolo, mentre si fida di Dio.
Poi Giobbe. Giobbe passa, come dj Fabo, dal successo alla malattia grave, incapace di godere più di alcuna cosa. Vengono a visitarlo degli amici che prima stanno in silenzio, ma poi iniziano a fargli la morale, quasi a pretendere  che egli debba essere felice della sua infermità. Quanti stupidi moralisti tocca sentir parlare dinanzi ad una disgrazia come quella di un incidente che ti rende cieco e paraplegico. Ma Giobbe non si arrende e se la prende con Dio, da lui vuole una risposta, perché sa che quella degli uomini non sarà mai sufficiente. Il dolore, in fondo, non ha alcun senso se l’uomo è solo e Dio non esiste. E con il dolore non ha alcun senso la vita. Dio finalmente risponde: Che ne sai Giobbe della vita? Eri presente quando ho fatto il mondo? Tu pretendi di giudicare me, tu che non sai badare a te stesso? Anche Giobbe è uno strano scettico: alla fine l’aver ascoltato Dio sembra bastargli, anche se egli in fondo non ha spiegato nulla, quasi intuendo una promessa in quel suo dire. Forse aveva ragione il poeta: “In sua voluntade è nostra pace”.
Infine Gesù. Egli rifiuta la droga sulla croce sulla quale è inchiodato senza via di scampo. Non vuole alterazioni di stati di coscienza, né accelerazioni della fine. Prega: “Dio mio, perché mi hai abbandonato”. Ma al contempo perché Dio perdoni i suoi persecutori, affidando i suoi ultimi attimi, il suo stesso spirito, a Dio, il Padre. In realtà, egli aveva già dato la sua vita e la sua sofferenza nell’ultima cena: non il dolore gli strappa la vita, ma egli stesso l’aveva donata.
Diversi certo Qoèlet, Giobbe e Cristo, ma certo non infervorati dalla questione dei diritti al suicidio. Piuttosto dalla domanda su Dio e sulla vita. Diversi anche perché nell’ultimo dei tre il dolore non trova senso nella sofferenza che provoca, bensì perché diviene espressioni di un senso e di un amore appresi altrove e più in alto, ma anche più in profondità.
Offrire il dolore, come si offre ogni gioia, come si offre tutta la vita, dicevano i nostri anziani, che qualcosa avevano capito. Non farla finita, ma a chi offrirla.
Se quell’offerta non è vera, sei fregato, dj. Se quell’offerta è vera, dj, puoi invece diventare libero. Per questo non solo parliamo su di te, ma parliamo di te a chi ascolta.

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