Come spiegare le espressioni violente dell’Antico Testamento?
Un articolo di qualche anno fa, ma sempre attuale e interessante. Dal sito UCCRonline.
L’Antico Testamento contiene alcune espressioni violente, sgradevoli ai nostri orecchi, a volte scandalizzanti. Dio appare nella collera, irato, sdegnato fino a minacciare la rovina, la morte e l’annientamento di chi contraddice la sua volontà e la sua legge. Come si può spiegare tutto questo?
Occorre innanzitutto rilevare che Dio ha sempre due aspetti, quello della giustizia e quello della misericordia. Nell’Antico Testamento, come ha spiegato il compianto card. Carlo Maria Martini, «Dio prende per mano il suo popolo, lo corregge, lo educa e lo colloca nuovamente nel suo originario progetto di felicità». La sua è
«un’opera di educatore […]. Solo la malvagità dell’uomo lo provoca all’ira. Allora egli diventa un guerriero (Is 42,13) e combatte con potenza invincibile, servendosi anche delle forze della natura (Ger 30,23; 51,1) o di eserciti umani che diventano suoi strumenti di battaglia (Is 10,5; 13,3-5). Ma il suo scopo non è mai uno sterminio definitivo, come dimostra già la storia del diluvio, con Noè e la sua famiglia che sopravvivono (Gn 6,5-9,17). I suoi interventi, anche se a volte severissimi per la durezza di mente e di cuore degli uomini, sono interventi di punizione e di correzione, perché l’uomo si renda conto di avere sbagliato, di non poter farsi gioco di Dio, e così ritorni umilmente a lui, sempre pronto a perdonare (Is 10,24-25; 57,16-18).» (“Guida alla lettura della Bibbia”, p. 14,75).
A volte un padre amoroso e a volte un educatore severo che intende forgiare Israele, “popolo di dura cervice”. Un esempio: Dio chiede ad Abramo l’incomprensibile sacrificio di suo figlio Isacco, quando egli lo sta per uccidere viene però da Lui bloccato: questa è una sfida alla fede, è un’opera di educazione non è sadismo. Se dunque in questo modo si spiega il duro agire di Dio che talvolta si intravede nell’Antico Testamento, rimane la perplessità di fronte a diversi Salmi e cantici, in cui viene invocato il male, maledicendo i nemici propri e di Dio, chiedendo per loro distruzione, annientamento, scomparsa. Vari esempi sono nel Salterio e vengono definiti «salmi imprecatori». Una discontinuità con il messaggio evangelico del Nuovo Testamento.
Davvero illuminante la riflessione su questo, apparsa su “Avvenire”, del teologo Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose. Innanzitutto ha rilevato che nonostante lo scandalo provocato, la Chiesa «non ha mai permesso di separare i due Testamenti, ha condannato chi lacera le Scritture, ha sempre proclamato che la parola di Dio è contenuta nelle Scritture di Israele e nelle Scritture dei cristiani in modo inseparabile». Tuttavia è comprensibile che «un cristiano che non sia ancora giunto alla piena maturità della fede fatichi a conciliare queste espressioni bibliche di violenza con la sua fede e la sua preghiera».
Eppure, ha spiegato, cosa ci sarebbe di contraddittorio? Perché scandalizzarsi? Perché essere ipocriti, come chi afferma che leggere la Bibbia allontana dalla fede? La preghiera non è solo ringraziamento o domanda. «Verso Dio», dice Bianchi,
«si grida, si urla nei momenti dell’angoscia, della disperazione, della violenza subita (Gesù grida sulla croce!)». «La preghiera è una potenza che agisce nella storia, una forza da opporre allo strapotere del male e dei malvagi […], pregare contro l’oppressore è pregare con l’oppresso, è invocare e annunciare il giudizio di Dio nella storia e sulla storia. Ci può essere, in questo, una “parzialità” che disturba il nostro buonismo: in realtà si prega nella storia e non fuori della storia, e la storia non è già redenta, né tutta santificata, ma esige giudizio, opzione, discernimento».
La preghiera, ha proseguito,
«è scegliere di stare dalla parte della vittima piuttosto che dell’aguzzino; di essere vittima dell’ingiustizia piuttosto che artefice di essa. Nel Salterio abbondano queste espressioni in bocca a chi soffre, alla presenza di nemici, nemici suoi personali, nemici di Israele, oppure nemici di Dio: quei nemici che lo perseguitano, lo torturano, gli vogliono dare la morte. Ma, non lo si dimentichi, sono imprecazioni presenti sempre in salmi di supplica, comunque sempre rivolte a Dio o confessate davanti a Dio […]. Sono gemiti, urla, suppliche accorate formulate in situazioni di disperazione. Certamente sono suppliche a volte eccessive; ma chi può mai pesarle e condannarle, se non si è trovato nella stessa situazione di violenza sofferta nella propria persona? Che cosa grideremmo noi in simili situazioni? E soprattutto: grideremmo stando davanti a Dio, invocando lui?».
Mutilare questi brani «significa diventare più poveri di quella testimonianza in “carne e sangue” che è presente nella Bibbia. Di fronte al male operante nella storia le “preghiere contro”, le invettive contenute nei salmi di supplica sono uno strumento di preghiera dei poveri, degli oppressi, dei giusti perseguitati: essi intervengono con le loro grida, visto che nella storia per loro non ci sono altri spazi!». Inoltre è significativo che di fronte all’ingiustizia subita, il credente si vieta di farsi giustizia da sé e non cede alla tentazione di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, ma lascia fare alla giustizia di Dio.
Nell’Antico Testamento, ha concluso Enzo Bianchi, questi salmi imprecatori «costituiscono un radicale superamento della legge del taglione». Essi, se letti in verità, «non ci portano a scandalizzarci ma ci danno invece una grande lezione: questi oranti mostrano una grande pazienza. Non si fanno giustizia da soli, non ricorrono a strumenti di guerra, anzi mettono un freno all’istinto di violenza e si affidano unicamente a Dio. Questa la loro fede: ecco da dove nasce il loro grido a Dio».