VI DOMENICA DEL T.O./A
DAL
DISCORSO DELLA MONTAGNA (Mt 5,20-48)
Il discorso della montagna occupa l’intero quinto capitolo del Vangelo di
Matteo e presenta Gesù come il nuovo Mosè che porta a compimento la legge
antica. Per entrare nella mentalità del regno dei cieli non è possibile
fermarsi ad una osservanza legalistica (e spesso ipocrita) delle norme, come
fanno gli scribi e farisei, ma occorre che la nostra “giustizia” superi la
loro. Nel regno dei cieli non possono entrare l’ambizione, la superbia, il
disprezzo, la ricerca di potere, lo sfruttamento dell’altro. Nel regno dei
cieli c’è posto solo per il rispetto, l’altruismo, l’umiltà, il servizio fatto
all’altro. La norma di riferimento non è più “Quello che l’altro fa a te, tu
fallo a lui”, ma è piuttosto: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo agli
altri”.
“Ma io vi dico”
non significa “vi aggiungo qualcosa di nuovo” o “annullo quanto detto in
precedenza con qualcosa di diverso”, ma “conduco a perfezione”, “porto a
pienezza” quanto era già contenuto, ma non pienamente esplicitato, compreso e
vissuto nella legge ebraica.
Dopo il discorso delle beatitudini, Gesù espone sei
antitesi di cui la liturgia di oggi propone le prime quattro.
1. NON UCCIDERE. Non si può costruire una comunità fraterna limitandoci a “non uccidere” l’altro:
occorre non solo eliminare ogni desiderio di eliminazione fisica dell’altro, ma
anche una eliminazione verbale (l’adirarsi con l’altro, primo passo
della violenza che potrebbe scaturirne) o affettiva (“per me non conti
nulla”) o di valore (“sei uno stupido, un pazzo, dunque una persona che
non vale niente, che non è degna neanche di essere ascoltata”). L’ira,
l’insulto, la mancanza di stima, il disprezzo distruggono la fraternità. All’interno della
comunità, chi vuol essere “fratello”, deve lavorare per la comunione ed evitare
qualsiasi atteggiamento che sia causa di frattura e divisione.
Gesù va alla sorgente, al
laboratorio dove si forma ciò che poi uscirà all'esterno come parola e gesto:
ritorna al tuo cuore e guariscilo, poi potrai curare tutta la vita. Va alla
radice che genera la morte o la vita: «Chi
non ama suo fratello è omicida» (1Gv 3, 15). Il disamore uccide. Non amare
qualcuno è togliergli vita; non amare è un lento morire[1].
1A. RICONCILIATI. Il
rapporto con l’altro è talmente importante da essere ritenuto da Gesù
prioritario anche sul culto. Per questo ci invita, prima di offrire il nostro
dono a Dio, a riconciliarci con il fratello “che ha qualcosa contro di te”, dunque anche se tu non hai nulla
contro di lui. Non
è questione di torto o ragione: quando c’è qualcosa che divide i membri della
comunità, l’ostacolo deve sparire per poter essere in comunione con Dio. Non si è in piena comunione con Dio se non siamo in
comunione con gli altri: una comunità fraterna si costruisce sul perdono e
sulla riconciliazione. Senza di esse ci sono divisioni, ferite e incomprensioni
che fanno soffrire le persone e la comunità intera.
1B. METTITI D’ACCORDO. L’espressione
tradotta con “mettiti presto d’accordo”
può anche essere tradotta con “sii ben disposto”. É un’immagine che mira a far comprendere
che all’interno della comunità si deve lavorare per la concordia, e non per
risolvere le questioni “dal giudice”. Così facendo si rischia sempre di uscirne
con un danno più grave di quello iniziale.
2. NON DESIDERARE. Anche i nostri impulsi e i nostri
desideri possono essere causa di divisione e di ingiustizia, soprattutto quando
attentano alla fedeltà matrimoniale e trasformano la donna in un oggetto da
conquistare e consumare. Il verbo tradotto con “desiderare” è molto forte e può
essere tradotto anche con “bramare”, “agognare”.
Non è il desiderio ad essere condannato, ma quel "per desiderarla", vale a dire
quando tu ti adoperi con gesti e parole allo scopo di sedurre e possedere
l'altro, quando trami per ridurlo a tuo oggetto, tu pecchi contro la grandezza
e la bellezza di quella persona. È un peccato di adulterio nel senso originario
del verbo adulterare: tu alteri, falsifichi, manipoli, immiserisci la persona[2].
2A. NON
SCANDALIZZARE. L’esortazione successiva fa riferimento allo
“scandalo”, ovvero alla pietra d’inciampo che possiamo porre ai nostri piedi o
a quelli degli altri. Per custodire il cuore occorre custodire anche i sensi
rappresentati dall’occhio (vista) e dal tatto (mani). “Occhio” e “mano”
da sacrificare, sono simbolo del desiderio che non deve essere mai rivolto a
colpire l’altro o a ferire la sua dignità, ma diretto a creare comunione.
3. NON RIPUDIARE. Passa poi a parlare del “ripudio della propria moglie”, argomento
che affronteremo a parte.
4. NON GIURARE. La successiva antitesi invita ad essere
sinceri, trasparenti. É solo quando la menzogna si è insinuata nei rapporti che
nasce la necessità di ricorrere ai giuramenti, perché ormai non si capisce più
quando si dice il vero e quando si dice il falso.
SUL MATRIMONIO E
SUL DIVORZIO
Gesù ci
invita a guardare alle potenzialità dell’amore umano così come Dio lo ha
pensato, all’ideale proposto. Ma se le cose non funzionano? Ecco la questione
centrale, la più dibattuta anche nei giorni nostri: è lecito il divorzio? É
lecito tentare un’altra storia? La risposta di Gesù è netta (“l’uomo non divida ciò che Dio ha unito”,
Mc 10,9), ma non priva di distinguo e ambiguità. Più che un divieto egli
esprime una esortazione, un desiderio. Ci invita a guardare all’ideale, anziché
fermarci alle difficoltà umane, ai possibili fallimenti, cercando una via
d’uscita che renda la nostra promessa meno vincolante.
Ciò che risulta chiaro nella testimonianza evangelica è che
Gesù non ammette che si interpreti il divorzio previsto da Mosè come un
“diritto”: Gesù lo giudica, invece, come una “concessione” dovuta alla nostra
incapacità di amare come esige il disegno creatore di Dio[3].
Gesù nega
“qualsiasi motivo” per il ripudio? Matteo presenta una eccezione: “se non il caso di unione illegittima” (porneia). In passato “porneia” veniva tradotto con “concubinato”
(ma questo non sarebbe un matrimonio in senso autentico) o con “fornicazione”,
cioè adulterio, (ma in questo caso si sarebbe usato il termine specifico moichéia).
Oggi si preferisce tradurre con “unione illegittima”, riferendosi ad un
matrimonio invalido, contratto senza che ci fossero le condizioni previste. Sta
di fatto che:
anche in una questione
delicata come quella del divorzio, Gesù non emette sentenze né condanne ma
compie un annuncio, l'annuncio esigente che emerge dalla volontà di Dio
contenuta nella Scrittura. La chiesa, dal canto suo, è chiamata a ripetere tale
annuncio con grande franchezza e discrezione e ad accompagnarlo con la
misericordia usata dal suo Signore: l'unione tra l'uomo e la donna resta
infatti «un grande mistero» (cfr. Ef
5,32), di fronte al quale i cristiani sono più che mai chiamati ad «assumere lo stesso sentire di Cristo»
(cfr. Fil 2,5)[4].