MARTINI, IL PASTORE E PROFETA CHE HA MESSO AL CENTRO LA PAROLA
Il 15 febbraio ricorre il 90° anniversario della nascita del grande arcivescovo di Milano
di Alberto Guasco (Jesus, febbraio 2017)
Carlo Maria Martini è stato definito in molti modi: si potrebbe andare da Silvano Fausti («un grande maestro che sapeva ascoltare») a Umberto Eco («aveva la faccia di un attore di Hollywood e sapeva bere whisky»). Trattandosi d’una figura che, come poche altre, ha saputo parlare a tutti la cosa non deve stupire. Forse però la definizione migliore si trova su un muro della comunità monastica di Bose, là dove – in compagnia di Michele Pellegrino, Roger Schutz, Bartholomeos I, e altri e altre – lo si ricorda come pneumatoforo: ovvero portatore dello Spirito, uomo che è passato sulla terra facendo il bene.
Il pellegrinaggio terreno del futuro cardinale di Milano inizia il 15 febbraio 1927 a Torino, secondo dei tre figli dell’ingegner Leonardo Martini e di Olga Maggia. Dal 1936, nel capoluogo piemontese, frequenta l’Istituto Sociale, il prestigioso collegio dei Gesuiti dove completa il proprio itinerario di studi – sfollamenti di guerra compresi – e nel luglio 1944 consegue la maturità classica. E proprio al Sociale matura la propria vocazione religiosa: gliela suggerisce fin dai 9-10 anni il padre spirituale Carlo Brignone, e «con oscillazioni varie», così scrive il diciassettenne neo-maturato, Martini la mantiene salda fino al momento d’entrare in Compagnia. Appoggiata dalla madre, la scelta non è condivisa dal padre, che lo sogna medico, ma che tuttavia non si oppone, nel settembre 1944, alla partenza per il noviziato di Cuneo.
Tra il freddo, la fame e il cilicio, tra la guerra che finisce e la Repubblica che nasce, il biennio di probazione non è facile, dovendo passare attraverso le cosiddette sei esperienze fondamentali descritte da Ignazio di Loyola – silenzio prolungato, servizio negli ospedali, pellegrinaggio in povertà, svolgimento d’umili mansioni, aiuto nelle parrocchie, prossimità agli uomini – ovvero ponendosi a una scuola, avrebbe ricordato da cardinale, «da cui si esce avendo messo sotto i piedi ogni pretesa d’indipendenza e ogni residuo d’orgoglio».
Nel 1946 studia filosofia all’Istituto Aloysianum di Gallarate – vi insegna una figura sui generis come Roberto Busa e vi ha a lungo insegnato il recentemente beatificato Giovanni Fausti, proprio nel 1946 fucilato in Albania – dove riceve una classica formazione tomista. È uno studio che non lo appassiona particolarmente e che molti anni dopo avrebbe ironicamente ricordato come una «perdita di tempo ben organizzata». Saltando gli anni del magistero, prassi molto inusuale per un gesuita, nel 1949 passa in teologia, che studia alla Facoltà teologica – già bastione dell’antimodernismo – che la Compagnia ha a Chieri. Proprio nella cittadina piemontese, dove vive le prime di quella che sarà una lunga serie d’esperienze di aiuto nelle carceri, il 13 luglio 1952 è consacrato prete dall’arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati.
Trascorso il terz’anno di probazione in Austria, per esigenze della Facoltà chierese è indirizzato allo studio della teologia fondamentale, che affronta in Gregoriana – intanto diviene aiuto-scrittore di Civiltà Cattolica e il padre generale Janssens ipotizza per lui una destinazione missionaria in Giappone – laureandosi nel 1959 con una tesi su Il problema storico della risurrezione negli studi recenti, diretta da padre Edouard Dhanis. Che il suo insegnamento sia ritenuto troppo avanzato per Chieri o che i superiori abbiano intuito le sue qualità – probabilmente sono vere entrambe le ipotesi – nel 1962, lo stesso anno in cui pronuncia la professione religiosa solenne, a 35 anni Martini viene chiamato al Pontificio istituto biblico di Roma, alla cattedra di Introduzione alla Sacra Scrittura.
Negli incroci di correnti tra l’aria chiusa del pontificato pacelliano e il vento fresco del Concilio non è un momento facile per l’istituto retto da Bea, grande regista del Segretariato per l’unità e di ciò che sarà Nostra Aetate, attaccato dall’esegesi conservatrice incardinata alla Lateranense – scontro che vive intrecciato all’itinerario di discussione della Dei Verbum e che sarà risolto da Montini – e colpito dalla sospensione di padri come Lyonnet e Zerwick.
Per il professor Martini, gli anni romani – resta nella capitale fino al 1979 – sono anni di grande crescita e impegno: crescita spirituale alla scuola di grandi direttori spirituali come Arnou e Ledrus – mai disgiunta dalla prossimità ai poveri, che frequenta alla comunità di Sant’Egidio – poi riflessa nelle meditazioni e nei corsi di esercizi spirituali che propone in modo piuttosto innovativo e che dal 1976 cominciano ad apparire fascicolati. Crescita del lavoro di ricerca, concretizzato nel conseguimento del dottorato – l’argomento gli è suggerito dall’esegeta Henry Jenny mentre frequenta i corsi della Facoltà protestante di Münster – dedicato a Il problema della recensionalità del codice B alla luce del papiro Bodmer 14. Crescita del suo peso scientifico, di cui testimoniano la curatela della nuova edizione (la nona) del Novum Testamentum graece et latine e la partecipazione – è l’unico membro cattolico – al comitato interconfessionale che cura la riedizione del The Greek New Testament, edizione critica su cui si basano le versioni dei Vangeli diffuse nel mondo. E crescita degli incarichi ufficiali, da quelli che lo vedono partecipare a diverse commissioni pontificie (quella biblica, quella per la Neo-Volgata, quella per i rapporti religiosi per l’ebraismo) a quelli che dal 1969 lo vedono rettore del Pontificio istituto biblico e dal 1978, per desiderio di Paolo VI, rettore della Gregoriana.
Ma in quest’ultima carica dura poco: nel 1979 Giovanni Paolo II, che lo conosce come biblista dai primi anni Settanta, lo chiama a Milano a sostituire il cardinal Colombo alla cattedra di Ambrogio, ne supera le ritrosie e lo consacra personalmente vescovo all’inizio del 1980. È una Milano piovosa quella in cui Martini fa il proprio ingresso a piedi, Vangelo in mano – così interpreta un suggerimento di Dossetti – il 10 febbraio 1980. Iniziano così ventidue anni di episcopato in cui, religiosa o laica che sia, la Milano degli anni di piombo – il 19 marzo 1980 l’arcivescovo accorre in Statale per benedire la salma del giudice Galli, falciato da Prima Linea; nel 1984, i terroristi abbandoneranno le armi in episcopio, in segno di resa – e quella da bere e saccheggiare, quella della dismissione industriale e dell’immigrazione trova in lui, cardinale dal 2 febbraio 1983, un punto di riferimento imprescindibile. Alla città hustle and bustle, della fretta e degli affari, indirizza la prima di molte lettere pastorali, invitandola a recuperare La dimensione contemplativa della vita. Invita i giovani in ricerca a porsi alla scuola della Parola, tenendo lectio divine che affollano il Duomo all’inverosimile. Apre al dialogo con le altre religioni, e la prima di tutte è l’ebraismo, l’Israele «radice santa» che ha cominciato a conoscere dal 1959, con cui ha rafforzato i legami amicali e scientifici da rettore dell’Istituto biblico di Gerusalemme e che ancora sceglierà come meta da ex-arcivescovo, risiedendo a Gerusalemme tra il 2002 e il 2008. E ancora, a partire da una domanda provocatoria – «siete pensanti o non pensanti?» – getta ponti tra credenti e no, istituendo la famosa Cattedra dei non credenti, invitando chi crede ad ascoltare in che cosa crede chi non crede.
Basterebbero questi pochi elementi – tacendo ad esempio del suo ruolo di presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), del suo rapporto con la Cei, con i Pontefici (conclave del 2005 compreso) e del suo stesso ruolo di “papabile” – per intuire l’estrema modernità della figura del cardinale, scomparso il 31 luglio 2012. Oggi, chiunque voglia avvicinarlo non ha che da riaprirne i volumi o risfogliare gli scritti e gli interventi che la Fondazione Carlo Maria Martini di Milano ha opportunamente cominciato a raccogliere nei volumi d’una poderosa opera omnia. Non si tratta dunque di concentrarsi esclusivamente sulle dichiarazioni dell’ultimo Martini, specie là dove, con grande e insieme delicata apertura, egli tocca questioni drammatiche per la Chiesa del presente – dallo scandalo della pedofilia al rapporto con le nuove generazioni – come il tema del futuro stesso della Chiesa, «stanca» e rimasta «indietro di 200 anni».
Si tratta probabilmente di assumere uno sguardo più ampio e un orecchio più fine, in grado di cogliere la vibrazione nascosta da cui scaturisce e che anima il magistero del cardinale. E quella vibrazione – a parere di chi scrive – altro non è che passione per l’uomo, per la Chiesa, per il Vangelo, per Cristo. È da appassionato, non da burocrate, che Martini ha saputo interrogare e farsi interrogare dalla Parola, aprendo con quella parola cammini di senso all’uomo contemporaneo. «Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino»: le parole del salmista – le stesse volute dal cardinale sulla sua tomba – ne costituiscono l’incipit e il filo rosso, la sintesi e il senso; quello della vita d’un uomo che non ha fatto altro che cercare il volto di Dio.
di Alberto Guasco (Jesus, febbraio 2017)
Carlo Maria Martini è stato definito in molti modi: si potrebbe andare da Silvano Fausti («un grande maestro che sapeva ascoltare») a Umberto Eco («aveva la faccia di un attore di Hollywood e sapeva bere whisky»). Trattandosi d’una figura che, come poche altre, ha saputo parlare a tutti la cosa non deve stupire. Forse però la definizione migliore si trova su un muro della comunità monastica di Bose, là dove – in compagnia di Michele Pellegrino, Roger Schutz, Bartholomeos I, e altri e altre – lo si ricorda come pneumatoforo: ovvero portatore dello Spirito, uomo che è passato sulla terra facendo il bene.
Il pellegrinaggio terreno del futuro cardinale di Milano inizia il 15 febbraio 1927 a Torino, secondo dei tre figli dell’ingegner Leonardo Martini e di Olga Maggia. Dal 1936, nel capoluogo piemontese, frequenta l’Istituto Sociale, il prestigioso collegio dei Gesuiti dove completa il proprio itinerario di studi – sfollamenti di guerra compresi – e nel luglio 1944 consegue la maturità classica. E proprio al Sociale matura la propria vocazione religiosa: gliela suggerisce fin dai 9-10 anni il padre spirituale Carlo Brignone, e «con oscillazioni varie», così scrive il diciassettenne neo-maturato, Martini la mantiene salda fino al momento d’entrare in Compagnia. Appoggiata dalla madre, la scelta non è condivisa dal padre, che lo sogna medico, ma che tuttavia non si oppone, nel settembre 1944, alla partenza per il noviziato di Cuneo.
Tra il freddo, la fame e il cilicio, tra la guerra che finisce e la Repubblica che nasce, il biennio di probazione non è facile, dovendo passare attraverso le cosiddette sei esperienze fondamentali descritte da Ignazio di Loyola – silenzio prolungato, servizio negli ospedali, pellegrinaggio in povertà, svolgimento d’umili mansioni, aiuto nelle parrocchie, prossimità agli uomini – ovvero ponendosi a una scuola, avrebbe ricordato da cardinale, «da cui si esce avendo messo sotto i piedi ogni pretesa d’indipendenza e ogni residuo d’orgoglio».
Nel 1946 studia filosofia all’Istituto Aloysianum di Gallarate – vi insegna una figura sui generis come Roberto Busa e vi ha a lungo insegnato il recentemente beatificato Giovanni Fausti, proprio nel 1946 fucilato in Albania – dove riceve una classica formazione tomista. È uno studio che non lo appassiona particolarmente e che molti anni dopo avrebbe ironicamente ricordato come una «perdita di tempo ben organizzata». Saltando gli anni del magistero, prassi molto inusuale per un gesuita, nel 1949 passa in teologia, che studia alla Facoltà teologica – già bastione dell’antimodernismo – che la Compagnia ha a Chieri. Proprio nella cittadina piemontese, dove vive le prime di quella che sarà una lunga serie d’esperienze di aiuto nelle carceri, il 13 luglio 1952 è consacrato prete dall’arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati.
Trascorso il terz’anno di probazione in Austria, per esigenze della Facoltà chierese è indirizzato allo studio della teologia fondamentale, che affronta in Gregoriana – intanto diviene aiuto-scrittore di Civiltà Cattolica e il padre generale Janssens ipotizza per lui una destinazione missionaria in Giappone – laureandosi nel 1959 con una tesi su Il problema storico della risurrezione negli studi recenti, diretta da padre Edouard Dhanis. Che il suo insegnamento sia ritenuto troppo avanzato per Chieri o che i superiori abbiano intuito le sue qualità – probabilmente sono vere entrambe le ipotesi – nel 1962, lo stesso anno in cui pronuncia la professione religiosa solenne, a 35 anni Martini viene chiamato al Pontificio istituto biblico di Roma, alla cattedra di Introduzione alla Sacra Scrittura.
Negli incroci di correnti tra l’aria chiusa del pontificato pacelliano e il vento fresco del Concilio non è un momento facile per l’istituto retto da Bea, grande regista del Segretariato per l’unità e di ciò che sarà Nostra Aetate, attaccato dall’esegesi conservatrice incardinata alla Lateranense – scontro che vive intrecciato all’itinerario di discussione della Dei Verbum e che sarà risolto da Montini – e colpito dalla sospensione di padri come Lyonnet e Zerwick.
Per il professor Martini, gli anni romani – resta nella capitale fino al 1979 – sono anni di grande crescita e impegno: crescita spirituale alla scuola di grandi direttori spirituali come Arnou e Ledrus – mai disgiunta dalla prossimità ai poveri, che frequenta alla comunità di Sant’Egidio – poi riflessa nelle meditazioni e nei corsi di esercizi spirituali che propone in modo piuttosto innovativo e che dal 1976 cominciano ad apparire fascicolati. Crescita del lavoro di ricerca, concretizzato nel conseguimento del dottorato – l’argomento gli è suggerito dall’esegeta Henry Jenny mentre frequenta i corsi della Facoltà protestante di Münster – dedicato a Il problema della recensionalità del codice B alla luce del papiro Bodmer 14. Crescita del suo peso scientifico, di cui testimoniano la curatela della nuova edizione (la nona) del Novum Testamentum graece et latine e la partecipazione – è l’unico membro cattolico – al comitato interconfessionale che cura la riedizione del The Greek New Testament, edizione critica su cui si basano le versioni dei Vangeli diffuse nel mondo. E crescita degli incarichi ufficiali, da quelli che lo vedono partecipare a diverse commissioni pontificie (quella biblica, quella per la Neo-Volgata, quella per i rapporti religiosi per l’ebraismo) a quelli che dal 1969 lo vedono rettore del Pontificio istituto biblico e dal 1978, per desiderio di Paolo VI, rettore della Gregoriana.
Ma in quest’ultima carica dura poco: nel 1979 Giovanni Paolo II, che lo conosce come biblista dai primi anni Settanta, lo chiama a Milano a sostituire il cardinal Colombo alla cattedra di Ambrogio, ne supera le ritrosie e lo consacra personalmente vescovo all’inizio del 1980. È una Milano piovosa quella in cui Martini fa il proprio ingresso a piedi, Vangelo in mano – così interpreta un suggerimento di Dossetti – il 10 febbraio 1980. Iniziano così ventidue anni di episcopato in cui, religiosa o laica che sia, la Milano degli anni di piombo – il 19 marzo 1980 l’arcivescovo accorre in Statale per benedire la salma del giudice Galli, falciato da Prima Linea; nel 1984, i terroristi abbandoneranno le armi in episcopio, in segno di resa – e quella da bere e saccheggiare, quella della dismissione industriale e dell’immigrazione trova in lui, cardinale dal 2 febbraio 1983, un punto di riferimento imprescindibile. Alla città hustle and bustle, della fretta e degli affari, indirizza la prima di molte lettere pastorali, invitandola a recuperare La dimensione contemplativa della vita. Invita i giovani in ricerca a porsi alla scuola della Parola, tenendo lectio divine che affollano il Duomo all’inverosimile. Apre al dialogo con le altre religioni, e la prima di tutte è l’ebraismo, l’Israele «radice santa» che ha cominciato a conoscere dal 1959, con cui ha rafforzato i legami amicali e scientifici da rettore dell’Istituto biblico di Gerusalemme e che ancora sceglierà come meta da ex-arcivescovo, risiedendo a Gerusalemme tra il 2002 e il 2008. E ancora, a partire da una domanda provocatoria – «siete pensanti o non pensanti?» – getta ponti tra credenti e no, istituendo la famosa Cattedra dei non credenti, invitando chi crede ad ascoltare in che cosa crede chi non crede.
Basterebbero questi pochi elementi – tacendo ad esempio del suo ruolo di presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), del suo rapporto con la Cei, con i Pontefici (conclave del 2005 compreso) e del suo stesso ruolo di “papabile” – per intuire l’estrema modernità della figura del cardinale, scomparso il 31 luglio 2012. Oggi, chiunque voglia avvicinarlo non ha che da riaprirne i volumi o risfogliare gli scritti e gli interventi che la Fondazione Carlo Maria Martini di Milano ha opportunamente cominciato a raccogliere nei volumi d’una poderosa opera omnia. Non si tratta dunque di concentrarsi esclusivamente sulle dichiarazioni dell’ultimo Martini, specie là dove, con grande e insieme delicata apertura, egli tocca questioni drammatiche per la Chiesa del presente – dallo scandalo della pedofilia al rapporto con le nuove generazioni – come il tema del futuro stesso della Chiesa, «stanca» e rimasta «indietro di 200 anni».
Si tratta probabilmente di assumere uno sguardo più ampio e un orecchio più fine, in grado di cogliere la vibrazione nascosta da cui scaturisce e che anima il magistero del cardinale. E quella vibrazione – a parere di chi scrive – altro non è che passione per l’uomo, per la Chiesa, per il Vangelo, per Cristo. È da appassionato, non da burocrate, che Martini ha saputo interrogare e farsi interrogare dalla Parola, aprendo con quella parola cammini di senso all’uomo contemporaneo. «Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino»: le parole del salmista – le stesse volute dal cardinale sulla sua tomba – ne costituiscono l’incipit e il filo rosso, la sintesi e il senso; quello della vita d’un uomo che non ha fatto altro che cercare il volto di Dio.