Come marito e moglie. Il modello familiare per la vita religiosa
Da una mia riflessione pubblicata nel bollettino Cric nell'aprile 2013
Opportunità di un
modello
La Bibbia per parlarci di Dio utilizza spesso analogie con
modelli umani per noi facilmente comprensibili quali quello del padre, della
madre, della sposa, della famiglia… E’ ovvio che Dio sia ben oltre tali
categorie umane, eppure esse ci aiutano a capire in che senso Dio sia amore,
relazione, comunione, generazione di vita, attenzione e cura per l’altro... E
come “l’altro” non sia una persona generica, ma ciascuno di noi sia, agli occhi
di Dio, “poco meno di un angelo”, un figlio, un amato, suo compiacimento.
Le categorie o modelli sociali sono realtà che tutti
sperimentiamo nella vita quotidiana e, insieme, sono indicazioni del nostro
essere e del nostro divenire, della nostra identità e del nostro dover-poter
essere.
Sono “modelli”, cioè, come ci ricorda la parola stessa, sono
ideali spesso irraggiungibili, ma capaci di offrire una immagine di ciò che si potrebbe divenire se viviamo in pienezza.
Come sposi. Le
conseguenze “pratiche” del modello familiare
E’ una premessa che mi sembra doverosa per giustificare
l’uso di un modello nei confronti della vita religiosa in generale e della
nostra “famiglia” religiosa in particolare.
Le nostre comunità mi appaiono a volte più vicine al modello
“azienda di lavoro” (con un padrone o dirigente-responsabile e uno o più
collaboratori al suo fianco) che a quello familiare. Pensarci chiamati a
seguire un modello sponsale (non per nulla utilizzato in teologia anche per
richiamare i rapporti trinitari) potrebbe, a mio avviso, aiutarci a mettere a
fuoco alcuni fondamenti della nostra vita religiosa. Solo per fare degli esempi
pratici:
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Marito e moglie sono chiamati, come noi, a
realizzare l’unità e l’amore scambievole prima di tutto il resto. Questo amore
richiede (come sanno tutte le coppie) cura, rispetto, perdono, attenzione per
l’altro, valorizzazione delle sue qualità e diversità.
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Per far questo c’è bisogno innanzi tutto di
dialogo. L’Equipe di Notre Dame, uno dei tanti movimenti ecclesiali nati
proprio per accrescere una spiritualità coniugale, invita le coppie a non
limitarsi al dialogo spontaneo, ma a programmare periodicamente delle serate di
confronto e di verifica della loro vita.
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C’è bisogno di prendersi dei tempi comuni per
rinsaldare il rapporto, per crescere nell’affetto e nella stima reciproca. Si
possono avere interessi diversi che implichino spazi personali di realizzazione
(dove l’altro si fa comunque presente informandosi delle attività svolte e cercando,
almeno ogni tanto e per quanto gli è possibile, di parteciparvi), ma non
possono mancare momenti comuni di svago, di vacanza…
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Anche l’intimità dei due và salvaguardata: senza
andare a discapito di una vita sociale aperta e accogliente, si deve comunque
fare attenzione a garantire momenti e spazi di intimità coniugale.
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Nella coppia ci sono divisione di ruoli,
programmazione (e verifica) delle attività, ma cercando di collaborare insieme
e di interscambiarsi nelle diverse incombenze. In ogni caso ci si chiede
regolarmente: chi fa questo o quest’altro? Come è andata quella cosa? Ci si
telefona, ci si scambia messaggi, consigli, suggerimenti, stimoli…
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La coppia, come noi, mette in comune i suoi beni
e mai uno decide una spesa significativa (o una iniziativa, come ospitare una
persona, che coinvolge inevitabilmente entrambi) senza sentire il parere
dell’altro.
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Ogni coppia è chiamata a “compromessi” che non
sviliscono le scelte, ma piuttosto le rendono condivise e condivisibili. Ciò
richiede la fatica di lunghi dialoghi, a volte di attendere i tempi diversi
dell’altro, di far si che dall’idea-bisogno di ciascuno nasca una nuova idea
comune che, spesso, non era stata preventivata da nessuno dei due.
“Ma non ci siamo
scelti”: obiezioni e problematiche
Si dirà: “ma noi non ci siamo scelti e non staremo insieme
per tutta la vita”. E’ vero, non ci siamo scelti, ma abbiamo tutti scelto Dio
nella forma concreta di una comunità religiosa. Abbiamo scelto la vita
comunitaria come strada di santificazione (e di realizzazione anche
umana). Uno slogan spesso ribadito ci
ricorda che dobbiamo passare dalla vita comune alla comunione di vita: non
limitarci a vivere diversi momenti sotto lo stesso tetto, ma a vivere in
comunione, in sintonia, nell’amore scambievole, nell’amicizia. La vita comune
deve essere la palestra per imparare a vivere in comunione.
E l’essere “superiore”, “generale”, “vicario”, “parroco”?
Non implicano tali ruoli delle responsabilità che non trovano spazio nel
modello della famiglia umana moderna dove il modello patriarcale è superato da
quello della parità dei sessi? E’ vero, nella Chiesa non c’è democrazia, ma
gerarchia di comunione, eppure parlare di parità dei sessi non equivale a
parlare di omologazione, ma di uguale dignità nelle differenti caratteristiche
umane. Non c’è più spazio per il padre-padrone, ma può ancora aver senso
parlare di marito come “capo” della moglie, così come Cristo lo è della Chiesa.
E Cristo ha dato la vita per gli altri, ha condiviso con noi ogni cosa, si è
spogliato della sua divinità, si è messo al servizio senza mai pretendere o
attendere di essere servito.
Essere fecondi e dare
vita
Ogni coppia infine è chiamata a generare vita, ad aprirsi
agli altri. Non è solo in gioco la “questione” vocazionale (questione già di
per sé vitale, che parla dell’ incerto futuro di ogni comunità religiosa), ma
la capacità di vivere e trasmettere vita a chi ci sta accanto, a partire da chi
ci viene affidato. Per generare vita ci si deve unire, altrimenti si resta
sterili. Si deve vivere e non vivacchiare, si deve offrire per il futuro un
prospettiva di vita autentica. Significa poter dire, e non solo a parole: “noi
abbiamo trovato non solo una Via e una Verità, ma anche e soprattutto una Vita
vera, bella, felice ora e per l’eternità”. Bella e felice nonostante le
difficoltà e gli ostacoli. Bella e felice perché abbiamo trovato Dio che è il
nostro tesoro che non marcisce e che nessuno potrà mai toglierci.