LA PARABOLA DEL PADRE RITROVATO (Luigi M. Epicoco)
Da “Quello che sei per me” (2017, San Paolo) di Luigi M.
Epicoco
Il libretto di Epicoco, sorta di nuova star ecclesiale, non
mi ha pienamente convinto e coinvolto. Tranne per l’ultimo capitolo (la “quinta
sosta”) in cui commenta un episodio evangelico poco analizzato (Mt 17,14-21),
quello del padre di un figlio epilettico che si era rivolto senza successo ai
discepoli i quali non erano riusciti a guarirlo. Si rivolge dunque a Gesù che
“con parole minacciose comandò al demonio di uscire da lui”. Ai discepoli che
chiedono il motivo del loro insuccesso, Gesù risponde invitandoli ad avere più
fede (una fede capace di muovere anche le montagne) e ad utilizzare la
preghiera e il digiuno.
Commenta Epicoco: “cosa fa un padre?”
“Un padre vero è colui che comprende che la cosa più importante è l’esigenza di un figlio e delle volte per quanto se ne senta responsabile lui in prima persona, non ha le risposte a tutto. Un padre non è l’unica risposta vera e credibile per suo figlio.
Si è davvero padri nella misura in cui si accetta che non possiamo tutto. Un padre serio è un padre che sa che ha delle risorse che può dare e altre cose che deve cercare per conto del figlio e con umiltà mettersi in cammino e alla ricerca di qualcuno che possa aver cura, che possa far arrivare quella liberazione. Perché (…) l’educazione è sempre una liberazione. Un padre vero libera, non vive al posto del figlio.
Il padre vero comprende che ci sono cose che soltanto Cristo può dare a un figlio e che non bisogna diventare il dio del figlio. Quando abbiamo cura della gente, quando seguiamo spiritualmente gli altri, questo è quello che dobbiamo tenere presente: mai pensarci come assoluti o decisivi in una relazione di paternità.
L’umiltà del padre si manifesta in questi due verbi: “si avvicinò a lui”, quindi il farsi vicino al Signore, per amore del figlio; e “si gettò in ginocchio”. La prossimità di Cristo e l’inginocchiarsi davanti a lui, il mettersi in una posizione di bisogno così come un povero si mette davanti ad un uomo, domandando da mangiare. I padri veri sanno supplicare, sanno mettersi in ginocchio per amore dei figli”.
Al che aggiungerei: inginocchiarsi, ma solo davanti al
Signore. Non dobbiamo mai inginocchiarci davanti ad altro o ad altri: sarebbero
i nostri idoli. Ma Epicoco sta parlando della paternità spirituale e continua:
“Non possiamo essere dei veri consacrati, finchè non capiamo che innanzitutto dobbiamo avvicinarci a Cristo per amore di chi ci è stato affidato e rimetterci in ginocchio davanti a Lui in un atteggiamento di supplica, di domanda profonda, d’intercessione per amore dei nostri figli.
Il potere più grande che abbiamo in mano è quello dell’intercessione, di pregare il Signore per queste persone. Pregarlo in ginocchio con insistenza e con un atteggiamento di conversione. “Signore, abbi pietà di mio figlio”. Forse a sera, quando finisce la nostra giornata, dovremmo avvicinarci al tabernacolo e fare come questo padre: “Signore, abbi pietà di Giulio, che non riesce a tenersi una cosa bella nella sua vita; Signore, abbi pietà di Francesca, che vive tutto con ansia e non gode niente della sua vita; Signore…”. Dovremmo saper unire nomi propri, all’intercessione, e domandare al Signore precisamente per quelle persone che ci sono state affidate, per quei figli che hanno un volto, un nome proprio e hanno dei problemi. Domandare con tutta la fiducia, con tutta la forza con cui questo padre va da Gesù a domandare di essere ascoltato per amore del figlio…
Gesù usa parole minacciose, ma non nei confronti del ragazzo, bensì nei confronti di ciò che possiede il ragazzo. Anche questa è paternità: il padre è colui che tratta con durezza i problemi, non i figli problematici. Sa separare il peccato dal peccatore, sa trattare con durezza il peccato e con tenerezza il peccatore e in questa maniera estirpa dal peccatore il peccato. Un padre non pensa mai che il figlio sia sbagliato, pensa che magari faccia delle cose sbagliate e contro quelle cose sbagliate lui parla, non contro il figlio. Se il figlio si sente sbagliato, il figlio non guarisce. Se un figlio si sente amato, capisce che lui non coincide con i suoi errori. Ed è così che prende distanza dal suo far male e comincia un cammino di liberazione, ma un cammino che per Gesù è così: “all’istante il fanciullo fu guarito”, all’istante. Crediamo poco alla potenza della Grazia di Dio. Questo avviene perché non abbiamo abbastanza fede da credere che Dio può tutto, persino liberare da un problema in un istante. E proprio per la nostra incredulità la liberazione non avviene, e Gesù stesso lo spiega ai discepoli (…): “A causa della vostra poca fede”… Ma crediamo a questa cosa? O abbiamo smesso di crederci? Nulla sarà a voi impossibile, nulla…
Un buon sacerdote non è colui che fa tante cose, ma colui che prega tanto, diventando così un canale di grazia…Se amo veramente qualcuno, domando di diventare per lui semplicemente un ripetitore della potenza di Dio. (…)
E come si fa a far funzionare bene questo ripetitore? (…) “Con la preghiera e il digiuno”, la preghiera e la conversione. Se vogliamo essere dei buoni preti, dei buoni padri, dobbiamo capire che lo saremo nella misura in cui pregheremo, digiuneremo e ci convertiremo. La preghiera non è fare, ma essere. La preghiera è stare con il Signore. Digiunare significa astenerci da tutto quello che ci rende schiavi e ristabilire il primato della nostra libertà su ciò che viviamo. Più noi consacrati saremo capaci di essere casti, cioè liberi dal possesso, più cercheremo di convertirci, più saremo utili agli altri, perché diventeremo più capaci di trasmettere la Grazia di Dio, più efficaci, più fecondi. (…)
Dobbiamo comportarci come lo scriba del capitolo 13, che sa tirare fuori dal proprio tesoro cose nuove. Pastoralmente dovremmo comprendere che dobbiamo saper tirare fuori dalla tradizione della Chiesa cose antiche che hanno fatto tanto del bene alla Chiesa e che in nome di una modernità mondana adesso abbiamo buttato via. Abbiamo smesso di educare così la gente a ciò che conta. Non siamo più capaci di tirare fuori cose antiche e nuove dal tesoro della Chiesa. Abbiamo eliminato tutto, pensando che tutto fosse inutile. Il mondo di oggi ci vuole credenti, ma al chiuso delle catacombe. Si dice che la fede è un fatto privato, intimo, che non deve riguardare la sfera pubblica e quindi non deve riguardare la politica, l’economia, non deve riguardare la scuola, come se la religione potesse in qualche maniera togliere qualcosa alla politica, all’economia, alla scuola, alla cultura. Ma valgono ancora le parole di Benedetto XVI, “Gesù non toglie nulla, ma dona tutto”: dona tutto ed è un valore aggiunto il poter portare i valori del Vangelo nella politica, nell’economia, nella scuola, nella cultura. Il politicamente corretto ci spinge e ci obbliga a vivere nelle catacombe. Ma noi no, dobbiamo tornare a riprendere cose antiche che sono sempre nuove. Cose che erano presenti nella tradizione della Chiesa e che adesso sono state lasciate come vecchiume.
Io non credo che la Chiesa vada rinnovata eliminando, bensì riscoprendo il valore di alcune cose, di alcuni gesti, di alcune tradizioni. Questo è il motivo per cui a livello sacerdotale sono sempre stato convinto del fatto che ogni vera strategia pastorale che possa portare un cambiamento è un ritorno all’essenziale, cioè alla Parola, all’Eucarestia, a Maria e alla Carità. Questo basta per dirci almeno sufficientemente cristiani. Tutto il resto è un parlarci addosso, molto spesso è un perdere tempo.
Un sacerdote che funziona da sacerdote, è un sacerdote che si sente davvero un uomo di mezzo. Cioè quell’uomo che a Dio parla del popolo e al popolo parla di Dio. Il cui valore profondo non è in ciò che fa, ma in ciò che è. (…)
Pregare di più, pregare meglio, pregare con più disinvoltura, pregare incessantemente, pregare con tenerezza, pregare con bellezza. Una persona innamorata non regalerebbe mai dei fiori di plastica alla donna che ama, sarebbe offensivo. Invece a volte al Signore i fiori di plastica glieli regaliamo veramente, e fisicamente, perché così non dobbiamo cambiare i vasi di fiori nelle cappelle delle nostre chiese. Ma a volte diamo fiori di plastica di cose a cui neanche più noi crediamo, cose che sono diventate ritualità, nel senso negativo del termine, e non rito che racconta, rito che esprime, rito che mette fuori tutto quel bene e quell’amore che proviamo nei Suoi confronti. La nostra fecondità, la nostra paternità è indelebilmente legata alla nostra capacità e alla nostra costanza nel pregare.
La maturità più grande per un padre si vede non nel fatto che non sbaglia mai, ma dalla fedeltà. Il padre è uno che sa essere fedele. E’ uno che sa fornirmi non tanto l’esempio di una coerenza inossidabile, ma di una testimonianza di come si possa vivere fiduciosamente e cristianamente nonostante la propria miseria, la propria storia, le difficoltà. Di questi padri ha bisogno la Chiesa.