Le «Storie di Natale» di Delpini per tutte le famiglie


Ci sono tutti gli ingredienti del Natale nei quattro racconti con cui l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha scelto di portare la sua parola in ogni casa in occasione delle benedizioni natalizie: l’angelo, le stelle, la stella cometa. «Un Angelo in paese – Storie di Natale per famiglie» è il titolo del libretto edito da Centro Ambrosiano (24 pagine, 0.45 euro).
Protagonista assoluto delle storie un tale Angelo, che incontra tante “storture” nel suo viaggio sulla terra: un “Paesealcontrario”, un “Paese-dei-senza-paese”, tanto per fare qualche esempio. Ma fra gente che sa dire solo “io” e “uffa”, o davanti al giovane W, pieno di tristezza, questo singolare visitatore trova il modo per ribaltare la situazione. Un modo originale e un linguaggio universale, adatto anche ai piccoli, con cui monsignor Delpini svela il vero senso del Natale.
Famiglia Cristiana propone la storia, sempre scritta da Delpini, del "l'incontentabile Bill":
Sotto il caschetto biondo sempre una smorfia. Il bel faccino sempre imbronciato. Dalla bocca, sempre un: «Uffa, non mi piace! Uffa, non ho voglia! Uffa, non vengo!».
Insomma, l’incontentabile Bill era simpatico solo in fotografia. La mamma, il papà, la nonna e la zia per quanto facessero non riuscivano mai a farlo contento. Quando Babbo Natale riconosceva tra le letterine quella dell’incontentabile Bill si scuriva in volto: quella di Bill assomigliava più a una minaccia che a una richiesta. Un anno gli scrisse: «Caro Babbo Natale, portami un camion grande. Ti raccomando, con ruote azzurre e la cabina verde, altrimenti puoi anche tenertelo!».
Babbo Natale doveva fabbricarlo apposta un camion così. Poi quando Bill scopriva che il camion di suo cugino era più grande del suo, piangeva e faceva i capricci. Un altro anno voleva la play station con il gioco Gulp 2xj terza versione. Babbo Natale se la procurò appena in tempo da una fabbrica giapponese. Quando l’incontentabile Bill si accorse che le spiegazioni erano in giapponese si chiuse in camera e non uscì neppure per salutare i nonni che gli avevano portato un meraviglioso berretto («Uffa, non mi piace» disse solo).
Babbo Natale che era incaricato di far contenti i bambini, era ogni anno più preoccupato. Sapeva del resto che niente avrebbe fatto contento Bill. Credo fosse il 2031 e arrivò la solita letterina: «Ora sono grande, basta con i giochi scemi per bambini. Portami un viaggio supersonico intorno al mondo».
Babbo Natale pensò che in fondo Bill era solo un po’ sciocco e infelice. Come farlo contento?
Passò da casa sua, lo svegliò e, mentre ripeteva: «Uffa, non ho voglia! Uffa! Ho sonno», lo caricò sulla slitta e, viaggiando alla velocità della luce, lo incaricò di fare le consegne. Marcos, in Perù, ebbe un vecchio trenino: lo ricevette con un tale sorriso che l’incontentabile Bill ne fu sorpreso. Claudio, a Milano, spalancò gli occhi quando vide, per la prima volta nella sua vita, un paio di scarpe nuove. Ben, in Congo, sperava in una medicina per la sua mamma malata e quando il pacchetto arrivò, non la finiva più di ringraziare. Fu così che quella notte di Natale Bill imparò a far felici i bambini del mondo, alla velocità della luce. Quando Babbo Natale lo riportò, il papà e la mamma non credevano ai loro occhi: Bill era contento! Così Babbo Natale gli fece il dono più importante: «Se vuoi essere contento, cerca di far contenti gli altri».
Buon Natale! Monsignor Mario Delpini
Sul Corriere della Sera del 23.12.2017 è stata invece pubblicata la storia del "L’angelo e il writer che disegnò il cielo per la notte di Natale": 
Si firma W. E tutti pensano che si chiami Walter. Invece W sta per Writer. Alcuni dicono che è meglio il vocabolo italiano graffitari e che sarebbe meglio chiamarli vandali: sono infatti gente che non sa sopportare un muro pulito, una parete appena dipinta, un ponte audace nel suo sporgersi sul vuoto e perciò lo rovinano con segni grossolani e immagini. Altri dicono che si tratta di un’arte e che i writer o graffitari sono gli artisti che liberano l’espressione dei sentimenti dalle botteghe raffinate e asettiche dei mercanti, dai locali deprimenti dei musei. Portano le ferite dell’anima sulle strade del Paese come un rito di purificazione, che invita i passanti a liberarsi da ciò che pesa sul cuore.
W., a dire la verità, non era molto interessato alla discussione. Ad essere sinceri e un po’ spietati, si deve riconoscere che W. non era propriamente interessato a niente. Apparteneva alla tribù dei senza Paese. Non viveva da nessuna parte: un po’ di qua un po’ di là. Non andava da nessuna parte: un po’ a piedi, in treno, sul bus, un po’ avanti un po’ indietro, girovagando. Non aveva nessuna compagnia. Non si può dire, però, che non facesse niente. Di giorno in effetti non era molto impegnato: stava seduto e, a sentir lui, pensava. Stava sdraiato e dormiva. Camminava intorno alla stazione e disturbava i passanti: almeno un panino lo rimediava sempre. Di notte però aveva il suo momento frenetico: andava a prendere i suoi attrezzi, nascosti chi sa dove, puntava a qualche muro adocchiato durante il giorno, vecchie fabbriche o cantieri. E finalmente dava sfogo al suo genio! Scriveva la sua vita sui muri.
Le sue paure, i suoi spaventi, le sue preghiere e le sue bestemmie. E firmava W. Alcuni dicevano che imbrattava i muri, altri restavano spaventati di fronte ad alcune immagini, altri leggevano i suoi dipinti con una certa sorpresa e persino ammirazione. W., però, non si curava dei commenti, che neppure sentiva, perché lui di giorno era della tribù dei senza Paese, un po’ di qua, un po’ di là. Forse si firmava W. per non farsi riconoscere, forse imbrattava i muri per invocare un po’ d’attenzione, forse sperava che suo papà passando per caso di là ascoltasse il messaggio di un figlio che non aveva mai ascoltato. Il fatto è che per l’Angelo era un problema trovare W. dato che non abitava da nessuna parte, un ragazzo senza Paese.
Per di più l’Angelo neppure sapeva che faccia avesse. Ma lui aveva una missione e non poteva sottrarsi alla ricerca. Lo cercò di giorno, ma non era da nessuna parte, lo cercò di notte, ma chi sa dov’era. Tra sé e sé l’Angelo si diceva che doveva essere ben triste un ragazzo che non aveva casa, che non si sentiva dire «Buonanotte» dalla mamma e domandare «Com’è andata?» dal papà. Quindi gli venne l’idea di cercare W. non chiedendo informazioni e indirizzi, ma piuttosto cercandolo nella zona della tristezza. Ogni città, infatti, ha quel quartiere che non sta da nessuna parte, anche se gli abitanti si riconoscono al primo sguardo. E di fatti quando incrociò W. vicino alla stazione, mentre infastidiva i passanti per qualche centesimo, l’Angelo lo riconobbe subito. «Ma quando l’ha riconosciuto, che cosa gli ha detto?», direte voi? Infatti tutti sanno che è difficile parlare con W. e con quelli che abitano nel quartiere della tristezza: sono corazzati e inaccessibili. Forse hanno troppo sofferto e temono di ricevere altre ferite: non credono facilmente a chi propone amicizia e altre cose fantastiche. Ma l’Angelo non poteva fallire. Fatto sta che propose a W. di scrivere la sua vita nientemeno che sul cielo. Per nove notti W. lavorò come non aveva mai fatto e riversò nelle ombre e nelle luci del cielo tutte le poesie che aveva composto, tutte le lacrime che aveva versato, tutti i sogni e tutti i ricordi di chi lo aveva amato da piccolo. E il cielo fu pronto giusto in tempo, per la notte di Natale: era così bello e così vero, così buio e luccicante di stelle che tutti rimasero incantati e commossi. Si capiva che era il cielo di Natale: era come un’attesa di angeli e una promessa di qualcosa.
W. stesso ne rimase sorpreso e non si stancava di contemplarlo. L’Angelo, soddisfatto della missione compiuta, salutò W.: «Buon Natale, benedetto ragazzo! Non ho mai visto un cielo così bello! Complimenti! Si vede che anche uno che ha sempre fatto pasticci, può fare un capolavoro. Buon Natale, benedetto ragazzo!». Da quel giorno, però, i graffiti divennero racconti di favole festose e la firma, per chi riusciva a leggerla, era Benedetto.
La prima storia del libretto ("Angelo nel Paese al contrario") è invece pubblicato su un sito parrocchiale:
Nel suo vario viaggiare Angelo capitò persino in un paese che era il Paese al contrario. E’ uno strano paese dove tutto avviene al contrario. Per esempio i ragazzi, invece che giocare di giorno e dormire di notte, di giorno, dormono e non combinano niente, poi, quando scende la notte e fa anche freddo, si agitano e si eccitano per andare a divertirsi: sarà strano, ma è così che capita nel Paese al contrario. Per esempio, gli adulti, invece che decidere e chiedere ai figli di obbedire, chiedono ai figli che cosa vogliono e obbediscono: che si tratti del vestito da mettere o di che cosa mangiare a cena o di che cosa fare il mattino della domenica non sono i figli a obbedire ai genitori, ma tutto al contrario, sono i genitori a obbedire ai figli. Fanno da autisti, da camerieri, da personale di pulizia: e un Paese al contrario. Da una parte del paese c’è gente magra, patita, affamata e al mercato non si può andare: non c’è niente e, se anche ci fosse qualche cosa, chi avrebbe i soldi? Dall’altra parte del paese c’è gente grassa, sazia e i mercati traboccano di mercanzia, tanto che finiscono per buttarne via una gran quantità. Una delle leggi del Paese al contrario infatti è. Chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane. L’Angelo si stupiva, ma che farci? E’ un Paese al contrario. La cosa più buffa è che invece di essere i ragazzi a divertirsi per insegnare al pappagallo a parlare, sono i pappagalli a insegnare a parlare ai bambini. I pappagalli sano poche parole, parole brevi, dal suono ben chiaro. Le parole che i pappagalli insegnano ai bambini sono: Io! No! Uffa! Nel Paese al contrario i bambini non sano canzoni, non imparano poesie, non raccontano storie. Dicono soltanto tre parole: Io! No! Uffa! Si alzano al mattino e prima ancora di vedere se c’è il sole o se piove, già seminano malumore per tutta la casa: Uffa! Incontrano la mamma o il papà o la sorella o il compagno di scuola o il cane. Ma non salutano, non ascoltano quello che hanno da dire, non si interessano di quello che capita. Piuttosto si rinchiudono nella solitudine come fosse una fortezza. Dicono sempre e solo: Io! Se qualcuno li invita, se ricevono una proposta, se una voce li chiama, la risposta è chiara e precisa: No! Forse è per questo che nel Paese al contrario non c’è mai un bel sole, ma sempre una foschia, come se nell’aria abitassero la noia, la rabbia, la solitudine. L’Angelo, che non aveva mai visto un Paese al contrario, si trovava a disagio, ma che poteva fare? L’avevano mandato lì apposta per invitare gli abitanti alla festa di Natale! La sua missione si rivelava un fallimento perché le risposte degli abitanti erano solo: Io! No! Uffa! L’Angelo allora inventò una stella mai vista, una stella che insieme con la luce lasciava una scia di stupore che incantava i bambini annoiati, ed ecco che, non si sa come, invece di ripetere le parole imparate dal pappagallo, gridarono evviva! La stella mai vista non solo irradiava luce e stupore, ma al suo passaggio c’era come un mormorio di un vento leggero, una voce amica, che era come un invito: volete venire con me? Ed ecco i bambini, non si sa come, invece di ripetere le parole imparate dal pappagallo, gridarono: Si! La stella mai vista non solo irradiava luce e stupore e una voce amica, ma seminava nei cuori una specie di tenerezza, un desiderio di amicizia, un interesse commosso per i volti e le storie, per le lacrime e i sorrisi degli altri. Ed ecco che i bambini, non si sa come, invece di ripetere le parole imparate dal pappagallo cominciavano ogni frase con un pronome che non si usava nel Paese al contrario. Dicevano infatti: Noi! Fu così che il Paese al contrario cominciò a trasformarsi in un Paese come Dio comanda, proprio a partire dalle parole nuove. Invece di seminare noia e scontento dicendo: “Uffa!”, il mattino era accolto con un sorriso: “Evviva! Una giornata da vivere! Evviva, il bene da fare! Evviva, amici da incontrare!, cioè la gioia. Invece di provocare rabbia e disappunto, dicendo: “No!”, ogni invito al bene ascoltava la risposta incoraggiante: “Si, vengo. Si ci sto. Si, grazie”, cioè la vocazione. Invece di isolarsi in solitudini deprimenti, dicendo sempre: “Io”, anche le imprese più audaci diventavano possibili, anche le fatiche più aspre diventavano sopportabili, perché si diceva: “Noi. Noi insieme possiamo rimetter diritto anche il Paese al contrario”, cioè la fraternità. E’ per questo che l’Angelo inventò la stella cometa.” Ci sono state molte discussioni sulla stella cometa. Gli astronomi l’hanno cercata nel cielo; i pittori l’hanno immaginata nei quadri di Natale; i bambini l’hanno aspettata come fosse l’apparire di un angelo simpatico. A me sembra però che la stella sia come una gioia sorprendente che raggiunge le persone, anche quando non se l’aspettano e persino quando pensano di non meritarla. Una gioia sorprendente. E si lasciano convincere che il bene è meglio del male, che abitare in un Paese come Dio comanda è meglio che abitare in un Paese al contrario. Per dirla proprio in confidenza, io credo che la stella cometa sia la gioia che Gesù regala a Natale.

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