Da Avvenire (e, a sua volta, dal rapporto Cisf 2017), una interessante riflessione sul rapporto in famiglia con i media:
Che genitore sei?
1 - Famiglia restrittiva
Alto livello di controllo dei genitori (che leggono mail e messaggi dei figli, controllano la navigazione sul web) ma basso livello di educazione
2 - Famiglia permissiva
È caratterizzata da un basso livello di educazione e da un basso livello di controllo (i genitori lasciano fare, non si pongono il problema.
3 - Famiglia affettiva
I genitori controllano poco quello che fanno i figli nel digitale ma hanno un alto livello di presenza educativa, che si manifesta attraverso l’aiuto costante nei confronti del figlio, la condivisione del consumo, la forte convivialità.
4 - Famiglia luddista
Poco frequente, è la famiglia che elimina i media dall’universo familiare, procrastinando sine die il momento dell’acquisto del primo smartphone ai figli. L’atteggiamento di controllo in questo caso è spinto alle estreme conseguenze, fino a configurare forme di vera e propria iconoclastia.
5 - Famiglia lassista
Anch’essa non molto rappresentata, non vede come i media digitali e sociali rappresentino un problema educativo, lascia fare, confida che comunque i propri figli siano sufficientemente attrezzati per cavarsela.
6 - Famiglia mediattiva
Rispetto alla famiglia affettiva, questo modello di famiglia è molto più attento alle pratiche dei figli, soprattutto alla loro elaborazione nella direzione dello sviluppo del pensiero critico.
Lassista, restrittiva, permissiva, luddista, affettiva e mediattiva. Sono sei i modelli di famiglia (rispetto ai consumi mediali dei figli) evidenziati nel capitolo del Rapporto Cisf 2017 «Media digitali e social, educazione e famiglia», curato da Pier Cesare Rivoltella – direttore del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia dell’Università Cattolica. Ben quattro tipi di famiglia, pur con comportamenti opposti sono considerati a basso impatto educativo. «Le Famiglie lassiste e quelle permissive rinunciano a mediare il rapporto dei figli con le tecnologie digitali, mentre la famiglia luddista risolve la mediazione nella scelta estrema di espellere i media dall’universo familiare (in questo modo pensando di non dover più esercitare alcuna mediazione). La famiglia restrittiva ha un livello alto di controllo (i genitori leggono le email ricevute dal figlio, lo costringono a navigare in casa, verificano i siti che ha visitato) ma un basso livello di educazione. La Famiglia affettiva invece incoraggia i figli ad usare i media digitali e condivide con gli stessi il consumo, ma non fornisce loro strumenti per diventare fruitori critici».
L’unica che sembra centrare gli obiettivi educativi in maniera efficace è la «famiglia mediattiva». Come? «È fortemente presente nel lavoro di mediazione delle pratiche mediali dei figli. I genitori discutono con i figli, indicano cosa è bene e cosa è male, ne spiegano le ragioni, aiutano i figli a smontare i contenuti e a leggere sullo sfondo di essi. E così facendo li aiutano a elaborare un pensiero critico». Stando a una ricerca dell’Universidad de Navarra, condotta su un campione di circa 25.000 adolescenti e citata nel capitolo, il 36% dei genitori non applica alcun controllo sull’uso dei media digitali da parte dei figli, mentre il 27% si limita «a dare un’occhiata a ciò che fanno i minori su Internet».
Se siete genitori e la rivoluzione digitale sta mettendo a dura prova le vostre vite (già impegnate e impegnative), sappiate che la colpa non è solo vostra. Tutto quello che pensavamo di avere capito sulla gestione del rapporto figli e media è stato frantumato dall’avvento del digitale. Soprattutto per due motivi. Il primo è legato alla mobilità. In pratica: «Anche se si controlla l’accesso dei media dentro la famiglia questo non serve a evitare che poi in qualsiasi altro momento o luogo i figli non ne facciano l’uso che vogliono sottraendosi allo sguardo del genitore». Secondo motivo: i genitori adesso non debbono più solo preoccuparsi «per la qualità dei contenuti fruiti dai figli, ma anche da cosa i figli potrebbero pubblicare di privato e personale su web e social e persino delle azioni sconvenienti di cui si potrebbero rendere protagonisti usando i media digitali».
Spesso i genitori hanno paura che la comunicazione mediata dai mezzi digitali tolga spazio e qualità alla comunicazione faccia a faccia. Per Rivoltella «occorre sgomberare il terreno dall’equivoco in base al quale i ragazzi oggi comunicherebbero di meno. Se si sta a quello che lo Stanford Study of Writing suggerisce, i ragazzi di oggi leggono e scrivono più dei loro coetanei dei decenni 80 e 90. Certo non leggono la grande letteratura, non scrivono saggi o lettere: leggono e scrivono in larga parte sui social e dimostrano anche competenze specifiche che possono tornare utili nella vita professionale, come ad esempio la capacità di sintesi». Un equivoco analogo riguarda l’idea che i ragazzi «siano sempre sui social» e che di conseguenza abbiano meno tempo per parlare. «Il problema vero non è il fatto che i ragazzi oggi comunichino di meno per colpa dei media digitali, ma l’esatto contrario, e cioè che comunichino troppo grazie ai media digitali. Questi ultimi non sottraggono tempo alla relazione (i ragazzi si vedono a scuola, s’incontrano in giro), ma ne aggiungono: e così si rimane in contatto sempre, di giorno e di notte senza soluzione di continuità.
In più la mancanza di silenzio che ne deriva sottrae ai ragazzi la possibilità di fermare l’attenzione sulle questioni che veramente vale la pena di discutere». Il rapporto smonta anche un altro mito: «Che la comunicazione “vera” sia quella faccia a faccia, e che la comunicazione mediata dalla tecnologia rispetto ad essa svolga solo la funzione di un surrogato sbiadito. Invece il fatto che spesso i più giovani comunichino attraverso la rete e i suoi applicativi non implica che siano incapaci di relazioni autentiche. La comunicazione digitale si affianca e si integra con quella in presenza, non la sostituisce mai».