Omelia per la III domenica di Pasqua (anno C): "Pietro, mi ami?"
Da "Il Vangelo dell'amore" di p. Stefano Liberti
Ci ritroviamo lì dove era iniziata tutta la storia: sul
lago di Tiberiade, con una parte degli apostoli ancora confusi che seguono
l’iniziativa di Pietro di andare a pescare. “Ma quella notte non presero nulla” (v.3).
Si respira un clima di disfatta, di delusione, di
amarezza e la pesca fallimentare sembra rimarcare questo clima. Eppure avevano
già incontrato il Risorto, avevano ricevuto i suoi doni e lo Spirito in modo
particolare. Ma se non agiscono con Lui, la vita risulta infruttuosa e ancora
avvolta nel buio. É infatti all’alba che appare il Risorto, ancora una volta
non subito riconosciuto, ed è solo con Lui, seguendo la sua parola (“gettate la rete dalla parte destra”,v.6)
che la pesca (ovvero la vita e l’impegno pastorale) porta un frutto abbondante
(153 pesci, probabilmente simbolo di tutti i popoli allora conosciuti). Gesù
inoltre scardina le consuetudini e le regole: si pesca di notte, non di giorno;
è più comodo gettare le reti dalla parte sinistra e non dalla destra. L’invito di Gesù è quello di sognare un altro modo possibile di
vivere, di amare, di pescare. “Getta la rete dall’altra parte!” vuole anche
dire: cambiate modalità, andate all’essenziale, andate oltre. Erano pescatori e li chiama a fare i
pastori.
Ancora una volta è il discepolo “amato” a
riconoscere il Signore Risorto: non è tanto chi ha un ruolo, ma chi sa amare e lasciarsi amare
che può indicare il Signore. E il Risorto che con affetto
aveva loro chiesto: “Figlioli, non avete
nulla da mangiare?” (v.5), dopo la pesca miracolosa si mette a servirli
offrendo loro il pane e il pesce pescato su sua indicazione. Gesù - pane della vita – e la comunità – coloro che seguono
la sua parola e ne condividono i frutti - sono i doni che ci rendono capaci di
amare e servire.
Subito dopo inizia l’incontro personale tra il
Risorto e Pietro. Questo è passato attraverso prove che lo hanno
ridimensionato, umiliato: pensava di poter contare sulle sue sole forze, sulla
sua ferrea volontà, ma ha fallito miseramente, sconfitto dalla paura. Forse
temeva di venire rimproverato per il suo triplice rinnegamento, per aver
tradito la grande fiducia che il Maestro aveva posto su di lui. Sicuramente era
ancora amareggiato per il suo comportamento, faticava a perdonarselo. E Gesù
inizia con lui un dialogo che lo riporta all’essenziale del loro rapporto: “Mi ami?”. Se è così, allora “pascola le mie pecore”. Gesù gli pone tre
domande simili sull’amore, domande che decrescono fino ad arrivare al suo
livello di amore.
“Simone,
figlio di Giovanni” – gli chiede la prima volta, chiamandolo come solo
all’inizio aveva fatto, prima di dargli il nome nuovo di Pietro,– “mi ami più di costoro?” (v.15).
Gesù crede in Pietro più di quanto lui creda in
se stesso. Mentre Pietro si ostinava nell’essere il leader del gruppo in modo
semplicemente “umano”, cioè in termini di pura efficienza, di capacità pratica,
di forza e di potere, Gesù vuole verificare invece l’unica credenziale
necessaria per essere leader degli altri: un amore più grande di quello degli
altri discepoli. Gesù non s’interessa di verificare se Pietro è sapiente,
colto, prudente, esperto conoscitore di uomini e cose. Gesù va al cuore del
mistero dell’uomo che è sete di amore, e al cuore del mistero di Dio che è per eccellenza l’amore creatore e
salvatore[1].
Nel testo originale il verbo amare viene espresso
con l’alternarsi di due verbi diversi: Gesù chiede per due volte “mi ami?”,
usando il verbo agapáō che esprime l’amore
divino, oblativo, totale e fedele di chi, come Gesù, è pronto a dare la stessa
vita per chi ama. Pietro risponde con un altro verbo, quello più umile
dell'amicizia e dell'affetto, phileo:
ti voglio bene. Prima dell’arresto aveva
dichiarato: “Signore, con te sono pronto
ad andare anche in prigione e alla morte” (Lc 22,33), ora dichiara
umilmente di non saperlo amare che con un amore di amicizia profonda,
dentro un rapporto di fiduciosa intimità e si
affida alla sua conoscenza: “tu lo sai
che ti voglio bene” (v.15). Sa che il Signore conosce il suo cuore.
La prima volta Gesù domanda a Pietro se l’amore che
ha per lui supera l’amore degli altri, se lo ama più di tutti. È una domanda
perentoria, fortissima, che esclude mezzi termini, blande sfumature ed esprime,
in fondo, quello che è proprio della natura del vero amore: questa esigenza di
assoluta radicalità.
“Più di costoro” è il paragone
con cui Gesù manifesta il desiderio di essere il primo nel cuore di Pietro, non
per scalzare gli altri, ma perché il suo amore aspira alla singolarità nei
rapporti, non confonde l’uno con gli altri, vuole essere unico. Nell’istruire i
suoi discepoli, Gesù aveva già espresso l’esigente condizione del suo amore
addirittura nel confronti dei più forti affetti familiari (cfr. Mt 10,37)[2].
Nella seconda interrogazione Gesù sembra scendere di un
gradino. Il verbo è ancora quello dell’amore divino: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami (agapao)?”, ma non gli chiede più se lo ama più di tutti. Pietro risponde
come prima, rimanendo al suo livello umano di amicizia: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (fileo)”.
Alla fine Gesù adotta il verbo di Pietro, si
abbassa, si avvicina e lo raggiunge là dov'è, nel suo limite: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene (fileo)?”
Come a dire: se sei incapace di “agape” - di un amore totale fino al dono
completo del dare la vita - dammi affetto; amicizia, se l'amore di questo tipo
è per te troppo e ti mette paura. Mi basta saperti mio amico, perché il desiderio
di amore è già amore. É capace di attendere e camminare con noi,
far maturare la nostra capacità di amare che sarà sempre inevitabilmente limitata,
ma che deve tendere all’ideale. Due innamorati, se rimangono un minimo
consapevoli di sé, sanno che il loro amore è limitato, fragile, a rischio,
eppure hanno bisogno di esprimere e di sentirsi esprimere un amore che tenda
alla totalitarietà: per sempre, più di tutti gli altri.
La risposta di Pietro è addolorata. Data l’insistenza di Gesù
nell’interrogarlo, egli risponde invocando comprensione per la misura limitata
del suo amore: “Signore, tu conosci
tutto; tu sai che ti amo” (v.17). Pur di rendere partecipe l’amico del suo
amore per gli uomini, Gesù non esita ad agganciarlo al grado amoroso in cui si
trova. E da lì, tuttavia, Gesù non rinuncia ad attirarlo alle vertiginose
altezze dell’amore divino per gli uomini. Non solo, infatti, Pietro è investito
del ministero pastorale, come si evince dal triplice comando di pascere gli
agnelli/pecore di Gesù, ma anche avviato nel cammino che lo condurrà ad essere
innalzato, come il suo Signore, sino al martirio per amore[3].
É da notare che in
tutte e tre le risposte di Pietro il soggetto della frase non è “io” (ti voglio
bene), ma “tu”: “tu conosci il mio amore per te”. Segno che la dura esperienza
del rinnegamento gli ha fatto capire che non ha solidità in se stesso e che
deve appoggiarsi solo su Gesù. Pietro si fa forte della certezza che il Signore
sa e risponde: «Tu sai che io ti amo». Riconosce che se ama Gesù non è perché lui
è forte, generoso, ma perché il Signore è generoso con lui e lo rende capace di
amarlo ogni giorno di più.
Il dialogo di Gesù
con Pietro è un dialogo riconciliatore, riabilitante, che rialza l’apostolo,
gli infonde fiducia, gli dà coraggio e lo rende capace non solo di amare il
Signore, ma di amare anche il gregge da pascere. Se mi ami, allora ama i miei agnelli/pecore, perché come il
Padre mi ama, io vi ho amati perché questo amore venga trasmesso a tutti. C’è
forse una “scelta preferenziale” indicata tra le righe: vengono prima gli
agnelli, i piccoli, i deboli, i lontani, i peccatori e poi tutte le pecore.
Sono “miei”: gli agnelli e le pecore appartengono a
Gesù, sono del pastore bello che ha dato la sua vita per loro. Pietro è
invitato a custodirle nel suo nome, quindi non deve decidere più da solo, o
fare di testa sua, ma sarà l’amico intimo del pastore buono, che agirà secondo
il suo comandamento di amare come lui ci ha amati.
Gli preannuncia inoltre la sua fine, “con quale morte egli avrebbe glorificato Dio” (v.19): seguire il
Maestro significa mettersi nella condizione di discepolo e quindi di docilità,
di servizio, di amore. Come lui ha amato dando la sua vita, così anche a lui
questo amore costerà la vita. Ma sarà
anche per lui un glorificare Dio, un mostrare nella sua pelle l’amore di Dio.
“E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»”
(v.19b). Riecheggia il primo “Seguimi” espresso sempre sul
lago di Tiberiade circa tre anni prima (cfr. Gv 1,43). Come allora Pietro segue
il Maestro senza esitazione, ma con una maturità e consapevolezza ben maggiore.
Segui me: Gesù lo precederà sempre. E sarà con lui pastore capace di condurre
il gregge alla vita, alla gioia, alla salvezza.
Con
questo dialogo, Gesù non ribadisce semplicemente la propria fiducia a Pietro,
ma restituisce a Pietro la piena fiducia in se stesso. E a noi ricorda che, nell'esperienza del nostro tradimento,
possiamo essere certi che se anche per mille volte l’avremo tradito, il Signore
per mille volte ci chiederà soltanto questo: “Mi vuoi bene?”. E sarà
sufficiente - se corrispondente al vero - rispondere per mille volte: “Ti
voglio bene”. E rimetterci concretamente
dietro di Lui, imparare dagli sbagli, affidarci alla sua parola e alla sua
forza.