Iperconnessi e reclusi in casa: i giovani i-Generation secondo un libro e alcuni reportage
"Iperconnessi. Perché i ragazzi di oggi stanno crescendo meno ribelli, più tolleranti, meno felici e completamente impreparati per l'età adulta": è il titolo (e il sottotitolo) di un importante libro pubblicato nel 2018 da Einaudi (p. 319, 19 euro) di Jean Twenge, docente di psicologia all’università di San Diego.
E' un libro di cui si parla molto e che ha stimolato la trasmissione di Presadiretta (vedi il video in apertura del post). Alla presentazione del libro aggiungo la segnalazione di un recente articolo pubblicato su Panorama: "I giovani reclusi che dicono no alla vita", sul fenomeno degli "hikikomori" e una riflessione dello psicoterapeuta Alberto Pellai ("iperconnessi e bisognosi di legami").
Infine, da un altro libro di Andrea Tomasi, "Una rete per tutti?Abitare la rete per trasformare le community in comunità", riporto questo passo:
Certamente alcuni elementi della community sono in contrasto con la comunità cristiana, riflette Tomasi: la compressione dei tempi necessari per pensare e riflettere (siamo in un’epoca comunicativa del “tutto e subito” e dell’”always on”, siamo spesso incapaci di gestire le attese, di sostenere gli spazi interstiziali non occupati da attività fianlizzate), la prevalenza di opinioni individuali (tutti possono parlare al tempo degli smartphone, pensiamo al tema della disintermediazione), l’esasperazione dei toni e, soprattutto, il destino di omologazione di molte community dove tutti la pensano alla stessa maniera (le cosiddette “bolle”). Cosa ci aiuta? “La consapevolezza che (le community) non sostituiscono la vita comunitaria esercitata nella concretezza degli ambienti e degli incontri fisici”).
Questa particolare classe di età viene definita iGeneration ed è caratterizzata da queste qualità: immaturità, iperconnessione, incorporeità (poche relazioni faccia a faccia), instabilità (piccoli e grandi problemi emotivi), isolamento, incertezza (lavorativa e non), inclusività (tolleranza).
In media gran parte degli adolescenti esaminati dalla psicologa californiana controllano “il cellulare più di ottanta volte al giorno” (p. 5), e vengono descritti come molto individualisti, narcisisti e molto preoccupati dalle disuguaglianze di reddito percepite attraverso le innumerevoli allusioni alla dura competizione, fatte dalla scuola, dalla politica, dalla televisione e dalla pubblicità. Per questo motivo molti ragazzi individualisti perdono incredibili quantità di tempo nel guardare le foto e le attività degli amici o addirittura di “conoscenti” mai conosciuti di persona (amici virtuali).
I ragazzi “all’ultimo anno delle superiori passano ogni giorno una media di due ore e un quarto a mandare i messaggi col cellulare, due ore su Internet, un’ora e mezza con qualche gioco elettronico e circa mezz’ora in video chat… Totale: sei ore al giorno in compagnia dei nuovi media, e stiamo parlando esclusivamente del loro tempo libero” (p. 75). Per i più giovani il telefono è come una droga o come un innamorato: è la prima cosa vedono la mattina ed è l’ultima che vedono la notte (avere il telefono vicino anche la notte risulta molto rassicurante, p. 74).Da L'HuffPost:
Il volume della psicologa distingue dieci nuovi approcci mentali e comportamentali in altrettanti capitoli: il ritardo nel diventare adulti; l'aumento smisurato della quantità di tempo in cui i giovani d'oggi sono connessi a internet; la tendenza a non incontrarsi più di persona con gli amici; l'insicurezza che domina il carattere della maggior parte dei teenager; la scarsissima religiosità; l'isolamento sociale; l'agiatezza economica garantita dalla famiglia (negli Usa la recessione è terminata nel 2009) e che spinge a entrare nel mondo del lavoro sempre più tardi; il procrastinare l'avvio di una propria vita sessuale e matrimoniale; la maggiore tolleranza verso le minoranze (etniche, sessuali e di gender); lo scarso coinvolgimento civile e politico.
A questo punto è facile puntare il dito contro smartphone, pc e videogiochi, ma non sarebbe del tutto corretto. "Internet probabilmente non è la causa principale di tale cambiamento" ha specificato Jean Twenge all'HuffPost. "Questo, infatti, è iniziato prima che il web fosse diffuso così capillarmente. A ogni modo, negli ultimi 5-10 anni gli smartphone possono avere accelerato la tendenza" ha continuato poi la studiosa.
Un'altra possibile risposta al fenomeno, allora, arriva dalla cosiddetta teoria detta "Life history", secondo cui l'esposizione a un ambiente sociale "duro" comporta un più veloce sviluppo nel sentiero della vita. "Dal 2000 in poi i figli hanno vissuto in ambienti più agiati" osserva la Twenge. "I giovani hanno iniziato a sentire come meno pressanti le urgenze dettate da un orologio biologico formatosi in tempi più primitivi".