Sui bambini tiranni e gli adolescenti depressi
Il bambino tiranno
«Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna, le cameriere, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino». Così comincia un racconto di Buzzati del 1954, nel quale narra le tragiche conseguenze dell’incapacità di esercitare l’autorità da parte di adulti che, inseguendo il consenso del loro bambino, finiscono per adorarlo e quindi rovinarlo. Le pagine di Buzzati mi sono tornate in mente il 2 maggio, quando la Camera, approvando la legge che introduce un’ora di educazione civica alle elementari e alle medie, contestualmente abrogava la misura che prevedeva mezzi disciplinari come: la nota sul registro con comunicazione scritta ai genitori, la sospensione, l’esclusione dagli esami o l’espulsione. Un cortocircuito tipico del nostro tempo: potenziare un’educazione civica astratta ma depotenziare l’autorità in atto, come se il suo esercizio, chiaramente non riducibile a quelle sanzioni, significhi fare violenza.
L’adorazione contemporanea del bambino, funzionale alla soddisfazione dell’adulto e che infatti ha come contropartita violenza e sfruttamento, fa dimenticare che il piccolo non è un «idolo» ma un «selvaggio» la cui umanità va educata: ciò che è umano nell’uomo non fiorisce spontaneamente, ma è il risultato di quanto assorbito nell’infanzia e nell’adolescenza, tappe preposte allo scopo di diventare responsabili di sé e del mondo. Il bambino non educato resta un egoista in balia delle sue pulsioni, iracondo e manipolatore come il piccolo tiranno buzzatiano: «Paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa; oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente».
La crisi dell’autorità è propria del XX secolo: il ‘68 ne è stato un formidabile acceleratore, ma la crisi ha radici più profonde, come Hannah Arendt aveva già spiegato nel 1961 in Tra passato e futuro (in particolare nei capitoli «La crisi dell’istruzione» e «Che cos’è l’autorità»), dove spiega che, in una cultura in cui la tradizione (ciò che del passato vince l’usura del tempo perché è vero) è disattivata e quindi non viene trasmessa, gli educatori non hanno «un mondo» in cui introdurre i giovani: «Che gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa che rifiutano di assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, non siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”». Senza un mondo vero da proporre gli adulti vivono il loro ruolo educativo come colpa (violenza) e cercano nel figlio il perdono, ma il bambino «adorato» e «des-autorato», dovendosi autorizzare «da zero» e «da solo», diventa un divino tiranno.
Gli educatori non si sentono più titolati a porre limiti, divieti, doveri, eppure proprio i momenti di opposizione (soprattutto per il bambino di due anni e per l’adolescente), che destabilizzano il genitore, servono per costruire l’autonomia: bambino e adolescente vogliono sapere su cosa fondarsi e così mettono alla prova la solidità del terreno che gli si offre. Compito dei genitori è trovare in sé le ragioni e la credibilità per resistere e accettare la frustrazione della perdita del consenso filiale. La lacuna educativa è alla base dell’aumento di depressioni e dipendenze dei ragazzi: senza la «dipendenza buona» dall’autorità si generano dipendenze surrogate, perché l’uomo non è un essere «assoluto», ma «relativo», cioè bisognoso di relazioni significative. Un esempio è la mancanza di riflessione sull’uso del cellulare, sul quale consiglio l’intelligente, documentato e veloce libro di Stefania Garassini, Smartphone: 10 ragioni per non regalarlo alla prima comunione e magari neanche alla cresima. I genitori che mi dicono «lo hanno tutti, si sentirebbe escluso», mi confermano che il problema è prima di tutto di chi non ha le ragioni per dire «no» e sostenere il conflitto che nasce da un bene più grande, che un 9-10enne non percepisce.
La crisi dell’autorità viene dalla sua confusione con il potere, come mostra l’eliminazione delle sanzioni. Bambini e adolescenti, se non interiorizzano limiti, divieti e doveri, quando è il momento, rimangono infantili e diventano tiranni. L’autorità è invece naturale, si giustifica da sé, dal fatto che io vengo prima di te: il bambino non è un partner dell’educazione, non è un contratto alla pari. Nell’educazione, scrive Arendt: «si decide se amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi». Ma qual è il nostro mondo? Negli anni Settanta i passeggini cambiarono orientamento: il bambino non guardava più il genitore, ma l’esterno: il genitore non faceva più da interprete del mondo dall’alto in basso, ma da accompagnatore. All’obbedisci e poi capirai si sostituì il mettiamoci d’accordo. In questo c’è sì un guadagno: la necessità di dare un senso, che non sia il mero «si è sempre fatto così», a ciò che si pretende, ma spesso, poiché non si sa quale sia questo senso, si lascia decidere il bambino o l’adolescente, gettandolo nello sconforto dell’onnipotenza. Tanti giovani non diventano adulti perché nessuno li ha educati al fatto che non sono padroni assoluti e incontrastati: l’autonomia, infatti, non nasce dall’ignorare limiti e doveri, ma dall’averli sperimentati, interiorizzati e attraversati. Sono i «no» dei miei genitori ad avermi reso forte e più sicuro nelle mie scelte.
Il bambino, dice Arendt, deve essere sì protetto dalle facoltà distruttive del mondo «ma anche il mondo deve essere protetto per non essere devastato dall’ondata di novità che esplode con ogni nuova generazione». Perché? Perché un’educazione senza autorità non «autorizza» il desiderio, senza limite o divieto il desiderio non si costruisce: a che serve crescere, se posso avere tutto e subito e se non esiste qualcosa da raggiungere più tardi? Il desiderio non educato dal gioco di autorizzazione e divieto diventa distruttivo: il soggetto non sa a cosa ancorarsi per fronteggiare la resistenza della vita, non può costruire obiettivi, cioè non ha futuro, si blocca e, per poter vivere, o regredisce o diventa violento. Invece l’autorità è legittimata proprio dal fatto che io sono prima di te, posso garantirti che un giorno anche tu sarai «autore» delle tue azioni. Per fare questo l’educatore è chiamato ad amare veramente, cioè trovare il coraggio di perdere il consenso di chi gli è affidato pur di proteggerlo: sta amando l’uomo/donna che quel bambino/a diventerà, perché l’infanzia non è la pienezza della condizione umana, ma la sua preparazione. Potrà farlo solo se non dipende lui dall’affetto del bambino, reso oggetto della propria soddisfazione anziché soggetto libero, e quindi capace di opposizione, come nel tragico ribaltamento del racconto di Buzzati, in cui è il bambino ad avere autorità sugli adulti: «“L’ho detto, io” fece la mamma; “l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardatelo, che stella!”. Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. “E guardatelo che stella… e guardatelo che stella!...” canterellò, facendo il verso. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. “E guardatelo che stella!” ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero».
Il letto da rifare oggi è quello del coraggio di educare: fate un elenco di «no» che non riuscite a giustificare e per i quali resistere. Chiedetevi perché questi «no» sono buoni per voi e quindi per l’uomo o la donna che vostro figlio/a diventerà. Il vero amore attraversa la negatività e sa darne ragione ai figli, perché la libertà è frutto di conquista. E il nostro compito di educatori è renderli liberi, non schiavi del loro o - peggio ancora - del nostro desiderio.
Aumento allarmante dei disturbi psichiatrici nei bambini e negli adolescenti
I Millennials: supereroi fragili a causa dei mutamenti sociali e dell'accelerazione tecnologica.
Il 10 e 11 Maggio scorsi si è tenuto a Rimini il Convegno Internazionale: “Supereroi fragili. Adolescenti oggi fra disagi e opportunità”, organizzato dalla casa editrice Erickson con la direzione scientifica di Dario Ianes, fondatore dell’omonimo Centro Studi e docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano. (Avvenire)Aumentano le patologie psichiatriche tra gli adolescenti
Gli adolescenti di oggi appaiono muoversi fra polarità opposte: forti e insicuri, spensierati e tormentati, invincibili e vulnerabili, appassionati e svogliati, ma se queste possono essere considerate entro certi limiti unicamente condizioni esistenziali – su cui certamente dover riflettere – quello che veramente preoccupa sono i dati relativi alle patologie psichiatriche, in forte aumento. Prendendo come riferimento la Lombardia, una delle pochissime regioni in grado di fornire statistiche aggiornate relative alla neuropsichiatria, si viene a rilevare che tra il 2008 e il 2016 il numero di bambini ed adolescenti presi in carico è passato da 65mila a 114mila – quindi dal 4% al 7 % della popolazione – mentre il numero di ricoveri per problemi psichiatrici nella sola città di Milano è aumentato dal 2011 al 2015 del 21%, da 1170 a 1400. La metà della casistica riguarda casi indicati come “gravi”, tanto che i dati regionali indicano che nel solo anno 2016 l’inserimento in comunità terapeutiche ed educative nella fascia degli 11-17 anni è cresciuto del 10%. (Ibidem)
Una vera e propria “epidemia” psichiatrica
La proiezione di questi numeri su scala nazionale porterebbe a cifre impressionanti, tenendo anche conto del fatto che la Lombardia, nonostante la diminuzione di investimenti e risorse per il sistema di diagnosi e cura, può vantare una situazione decisamente migliore rispetto alla media italiana. Stefano Benzoni, neuropsichiatra presso il Policlinico di Milano e relatore al Convegno di Rimini, ha cercato di fornire una chiave di lettura di questa epidemia psichiatrica in cui…
“(…) sono in aumento soprattutto i casi complessi, cioè le situazioni multiproblematiche con più diagnosi contemporaneamente e con problemi psicosociali. Si tratta di casi in cui ci sono patologie psichiatriche di una certa gravità che, nel 40% dei casi, sono associate ad altre patologie, per esempio un disturbo d’ansia insieme ad un disturbo da deficit di attenzione (dhd)” (Avvenire).
I 3 fattori principali
E spesso si sommano a situazioni familiari molto difficili per problemi economici o la separazione dei genitori, fenomeni entrambi in forte aumento. Sullo sfondo – in cui sono presenti l’aumento del disagio sociale, l’impoverimento delle reti educative tradizionali e la complessiva fragilità del sistema famiglia – spiccano tre grandi fattori, a cui apparentemente ci siamo assuefatti, che appaiono avere un peso specifico assolutamente preponderante: l’accelerazione dei cambiamenti sociali, dei ritmi di vita e della progressione tecnologica. A proposito di questo secondo elemento il neuropsichiatra afferma:
“I nostri ragazzi vivono in famiglie sempre più ‘accelerate’ dove si passa tantissimo tempo a fare tantissime cose con un senso di inconcludenza e con la sensazione di essere soverchiati con un isolamento crescente” (Ibidem).
Gli effetti deleteri dell’accelerazione tecnologica
Lo scenario in cui i membri della famiglia, ognuno nelle proprie “faccende affaccendato”, non investono più tempo ed energie nel valore più importante: coltivare il legame affettivo e nutrirsene. L’accelerazione tecnologica è tanto rapida da creare non solo fossati fra le generazioni, ma addirittura fra fratelli separati da pochi anni di età.
“Se i bambini vivono ad anni luce di distanza dai propri genitori, l’alienazione è in agguato. I genitori rincorrono gli strumenti educativi, invece di anticiparli e prospettarli ai figli”. (Avvenire)
Questa incomprensione tecnologica rischia così di diventare una incomprensione a tutto tondo che contribuisce a generare conflitti, specialmente nel passaggio adolescenziale, venendo a mancare di fatto un “linguaggio” comune su cui incontrarsi. Tutto questo comporta la necessità per gli adulti di raccogliere una non facile sfida, così lucidamente sintetizzata dal direttore scientifico del convegno:
“Dobbiamo avere più coraggio – come genitori, operatori, insegnanti, educatori – per affrontare in maniera positiva il conflitto, anche duro senza cadere nello scontro o evitare i problemi”. (Ibidem)
Due tentazioni, entrambe molto pericolose, quando in gioco c’è la salute mentale dei nostri figli.