ABBE PIERRE, IL PRETE CHE HA COSTRETTO L'OCCIDENTE A FARE I CONTI CON LO SCANDALO DELLA POVERTA'
Dieci anni fa come oggi, il 22 gennaio 2007, moriva il più celebre prete di strada: l'abbé Pierre. Lo ricordiamo con questo articolo dello storico Alberto Guasco.
L'immagine è nota: il viso affilato e la barbetta a punta, il basco nero e la talare consumata, il mantello, gli stivali e il bastone in mano. Ma dietro ai tratti esaltati dai media, chi è Henri-Antoine Grouès – meglio conosciuto come abbé Pierre – amico dei sans-papier e fustigatore di cecità e indifferenze politiche in materia di poveri, «carbone ardente» (la definizione è del nunzio Angelo Roncalli) apprezzato dai Papi conciliari e critico dell’opulenza ecclesiale, figura tanto popolare quanto controversa, protagonista e simbolo del cattolicesimo francese del Novecento?
Nato il 5 agosto 1912, quinto degli otto figli d’una famiglia cattolica benestante – l’esempio del padre e del suo servizio ai poveri resterà sempre vivo in lui – cresce nella Lione del primo dopoguerra. Ha 16 anni quando – per citare le parole con le quali sintetizza un itinerario ben più sofferto – ha un «colpo di fulmine con Dio»: durante una gita ad Assisi, all’eremo delle Carceri avverte la vocazione alla vita religiosa. A 19 anni, nel 1931, entra nel convento cappuccino di Crest, assumendo il nome di fratel Philippe. Il periodo della formazione è però tutt’altro che facile: già di salute precaria, il giovane Henri vive una crescente insofferenza verso un orizzonte devozionale troppo stretto, che male gli calza addosso e non gli permette una vita d’azione a contatto con gli ultimi («Non sono abbastanza al mio posto qui. Non mi ci vedo abbastanza. Usciamo!», scrive nel 1935). Dopo ripetute insistenze presso i superiori – nel frattempo, nel 1938, è ordinato prete – grazie all’aiuto dello zio Charles, gesuita, e al permesso del cardinal Gerlier, arcivescovo di Lione, nel 1939 può incardinarsi nella diocesi di Grenoble.
Già la guerra contro Hitler bussa alle porte della Francia. E nella Francia umiliata, occupata e collaborazionista Henri, che agirà soprattutto nella regione del Vercors, ai confini del Delfinato, non resta con le mani in mano: nasconde ebrei e procura loro documenti falsi, guida fughe di ricercati verso la Spagna e la Svizzera – memorabile quella in ambulanza di Jacques De Gaulle, fratello del generale –, consiglia ai giovani di sottrarsi alla chiamata di leva e li indirizza verso la resistenza. È un lavoro pericoloso, che lo costringe a nascondersi sotto diversi pseudonimi (compreso quello di abbé Pierre, che gli resterà addosso tutta la vita), che gli costa due arresti (fortunatamente seguiti da due rilasci) da parte della Gestapo, e infine lo costringe all’espatrio: Spagna, Gibilterra e quindi Algeria, là dove è cappellano della marina della Francia Libera.
A guerra conclusa, nella Francia della Quarta Repubblica, è eletto alla Costituente e all’Assemblea Nazionale – il vescovo di Grenoble non si oppone a questa scelta – nelle file dell’Mrp, il Movimento repubblicano popolare d’ispirazione democratico cristiana. Resta in Parlamento fino al 1951, quando sceglie di dimettersi per dedicarsi pienamente ai poveri – soprattutto sfrattati e senza tetto – che ha scelto come compagni di strada. Lo ha fatto fin dal 1949, acquistando a Neully Plaisance – quartiere parigino di Saint Denis – una catapecchia presto ribattezzata Comunità Emmaus. Lungo la via, il primo aiuto gli viene da Georges – parricida e alcolizzato, alle spalle vent’anni di Cayenna e davanti il suicidio – che l’abbé convince a collaborare al suo progetto più o meno con queste parole: «Prima di ucciderti, vieni ad aiutarmi». Con l’aiuto della fida segretaria Lucie Courtaz – già miracolata a Lourdes, una lunga esperienza nei sindacati cristiani, conosciuta nel 1943 grazie al teologo Henri-Marie De Lubac, donna d’una fede così caparbia da farle meritare il soprannome di «la capra» – l’abbé soccorre e ospita coloro che vivono sulla propria carne il dramma degli alloggi, che nella Francia del dopoguerra non ci sono, o costano troppo e producono sfratti e miseria. A lui si uniscono volontari, vagabondi, rifugiati politici, pregiudicati, vecchi funzionari dello Stato, tutti guidati da un’idea semplice ed efficace: svolgono il lavoro di stracciaioli, vuotano cantine e solai, pattumiere e discariche, alla ricerca di tutto ciò che si può recuperare; vivono di quel lavoro e con i suoi frutti riescono ad aiutare chi sta ancora peggio di loro.
Oltre alla casa, il problema che più assilla i compagnons d’Emmaüs è il freddo. Quello che nell’inverno del 1954 sferza la Francia – il mare gela a Dunquerke, la Senna trasporta ghiaccio – e tutti coloro, come il piccolo Marcel, che gli sfratti buttano in strada a 15 gradi sotto zero e fanno crepare assiderati. All’ennesima tragedia, l’11 febbraio l’abbé si fionda in radio e prima su Rtf, quindi su Radio Luxemburg e infine sulle colonne di Le Figaro lancia una richiesta d’aiuto rimasto nella storia: «Amici miei! Aiuto! Una donna è morta congelata alle 3 di questa notte sul marciapiede del boulevard de Sébastopol, stringendo a sé il certificato di sfratto esecutivo che le avevano consegnato il giorno prima… Ogni notte ci sono più di duemila poveri sui nostri marciapiedi che soffrono il freddo, muoiono senza cibo, senza pane, senza tetto. Alcuni sono quasi nudi... Bisogna che questa notte, in ogni città della Francia, in ogni quartiere di Parigi, si aprano dei centri di soccorso, dove questa povera gente possa trovare coperte, paglia, minestre e un sorriso di gente amica. Sulla porta, alla luce di una lampada, si appenda un cartello con le parole “Centro fraterno di soccorso”, sotto il quale si possano leggere queste semplici parole: “Se soffri, chiunque tu sia, entra, mangia, dormi, ritrova la speranza, qui tu sei amato”».
La risposta dei francesi – che l’abbé chiamerà «insurrezione della bontà» – è straordinaria: in poche settimane vengono raccolti milioni di franchi, indispensabili per alloggiare, nutrire e curare migliaia di famiglie e una tale quantità di materiali che per essere stoccati necessitano dei locali della stazione d’Orsay. Tanto per l’abbé quanto per Emmaus è il principio d’una notorietà che da allora travalica i confini francesi – nonostante all’interno della comunità non manchino crisi anche gravi e nonostante Henry viva proprio sul finire degli anni Cinquanta una grave crisi medica e nervosa – per non arrestarsi più.
Per oltre cinquant’anni, l’abbé percorre febbrilmente le strade di Francia e del globo, seguendo la nascita e il moltiplicarsi delle comunità legate al suo nome. Dall’Africa di Schweitzer all’India di Nehru e Madre Teresa, per ritornare alla Francia dei sans papier, dei clandestini e degli extracomunitari, non si contano le campagne in cui l’abbé si impegna – spesso attraverso gesti di grande impatto mediatico – per gli ultimi e accanto agli ultimi. D’altronde, avvertito di quel «li avete sempre con voi», l’antico fratel Philippe sa benissimo che in un mondo che cambia, se c’è una cosa che non cambia – salvo le latitudini di provenienza – sono proprio i poveri. In questo non darsi riposo non mancano neppure prese di posizione difficili da accettare, come la scelta d’accogliere a Emmaus – lo permettano il Vangelo che libera dai macigni del passato o la dottrina Mitterand –uomini più che in odore di terrorismo riparati dall’Italia in Francia; e neppure contraddizioni (d’ingenuità), come il sostegno a titolo amicale – e certamente non a livello ideale – dimostrato al filosofo negazionista Roger Garaudy in occasione delle polemiche seguite dell’uscita del suo libro Les mythes fondateurs de la politique israélienne (1995).
La popolarità dell’abbé, tuttavia, non ne risulta intaccata fino alla morte, che lo coglie il 22 gennaio 2007. E dunque oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, quali potrebbero essere le eredità dell’abbé Pierre? Con buona pace dei media che hanno pruriginosamente puntato qui i propri riflettori, non si tratta certamente della tarda confessione, contenuta nel libro Mon Dieu pourquoi? (2005) relativa ai suoi giovanili e passeggeri cedimenti al desiderio sessuale. E probabilmente neppure dalle sue prese di posizione – peraltro circostanziate e mai urlate – su temi di grande delicatezza quali il celibato ecclesiastico, i ministeri femminili e le unioni omosessuali. Probabilmente, dati alla mano ma anche al di là delle statistiche, meglio si farebbe a guardare a come il seme di Emmaus ha fruttificato in Francia e altrove. Oppure alla capacità di tenere lo sguardo puntato sui poveri, sia ponendosi alla loro scuola sia interpellando direttamente e duramente chi, nella Francia come nell’Europa degli ultimi venticinque anni, ha preso a soffiare sul fuoco maligno della “paura dei poveri” ottenendone facile e immediato consenso politico. E infine, e all’opposto, si potrebbero anche trovare convergenze con le vie su cui l’attuale pontificato si sta sforzando di spingere la Chiesa; come ha scritto l’abbé Pierre, «di fronte alla miseria dei due terzi dell’umanità, l’avvenire appartiene a coloro che sapranno andare a portare la speranza al centro della disperazione».
Nato il 5 agosto 1912, quinto degli otto figli d’una famiglia cattolica benestante – l’esempio del padre e del suo servizio ai poveri resterà sempre vivo in lui – cresce nella Lione del primo dopoguerra. Ha 16 anni quando – per citare le parole con le quali sintetizza un itinerario ben più sofferto – ha un «colpo di fulmine con Dio»: durante una gita ad Assisi, all’eremo delle Carceri avverte la vocazione alla vita religiosa. A 19 anni, nel 1931, entra nel convento cappuccino di Crest, assumendo il nome di fratel Philippe. Il periodo della formazione è però tutt’altro che facile: già di salute precaria, il giovane Henri vive una crescente insofferenza verso un orizzonte devozionale troppo stretto, che male gli calza addosso e non gli permette una vita d’azione a contatto con gli ultimi («Non sono abbastanza al mio posto qui. Non mi ci vedo abbastanza. Usciamo!», scrive nel 1935). Dopo ripetute insistenze presso i superiori – nel frattempo, nel 1938, è ordinato prete – grazie all’aiuto dello zio Charles, gesuita, e al permesso del cardinal Gerlier, arcivescovo di Lione, nel 1939 può incardinarsi nella diocesi di Grenoble.
Già la guerra contro Hitler bussa alle porte della Francia. E nella Francia umiliata, occupata e collaborazionista Henri, che agirà soprattutto nella regione del Vercors, ai confini del Delfinato, non resta con le mani in mano: nasconde ebrei e procura loro documenti falsi, guida fughe di ricercati verso la Spagna e la Svizzera – memorabile quella in ambulanza di Jacques De Gaulle, fratello del generale –, consiglia ai giovani di sottrarsi alla chiamata di leva e li indirizza verso la resistenza. È un lavoro pericoloso, che lo costringe a nascondersi sotto diversi pseudonimi (compreso quello di abbé Pierre, che gli resterà addosso tutta la vita), che gli costa due arresti (fortunatamente seguiti da due rilasci) da parte della Gestapo, e infine lo costringe all’espatrio: Spagna, Gibilterra e quindi Algeria, là dove è cappellano della marina della Francia Libera.
A guerra conclusa, nella Francia della Quarta Repubblica, è eletto alla Costituente e all’Assemblea Nazionale – il vescovo di Grenoble non si oppone a questa scelta – nelle file dell’Mrp, il Movimento repubblicano popolare d’ispirazione democratico cristiana. Resta in Parlamento fino al 1951, quando sceglie di dimettersi per dedicarsi pienamente ai poveri – soprattutto sfrattati e senza tetto – che ha scelto come compagni di strada. Lo ha fatto fin dal 1949, acquistando a Neully Plaisance – quartiere parigino di Saint Denis – una catapecchia presto ribattezzata Comunità Emmaus. Lungo la via, il primo aiuto gli viene da Georges – parricida e alcolizzato, alle spalle vent’anni di Cayenna e davanti il suicidio – che l’abbé convince a collaborare al suo progetto più o meno con queste parole: «Prima di ucciderti, vieni ad aiutarmi». Con l’aiuto della fida segretaria Lucie Courtaz – già miracolata a Lourdes, una lunga esperienza nei sindacati cristiani, conosciuta nel 1943 grazie al teologo Henri-Marie De Lubac, donna d’una fede così caparbia da farle meritare il soprannome di «la capra» – l’abbé soccorre e ospita coloro che vivono sulla propria carne il dramma degli alloggi, che nella Francia del dopoguerra non ci sono, o costano troppo e producono sfratti e miseria. A lui si uniscono volontari, vagabondi, rifugiati politici, pregiudicati, vecchi funzionari dello Stato, tutti guidati da un’idea semplice ed efficace: svolgono il lavoro di stracciaioli, vuotano cantine e solai, pattumiere e discariche, alla ricerca di tutto ciò che si può recuperare; vivono di quel lavoro e con i suoi frutti riescono ad aiutare chi sta ancora peggio di loro.
Oltre alla casa, il problema che più assilla i compagnons d’Emmaüs è il freddo. Quello che nell’inverno del 1954 sferza la Francia – il mare gela a Dunquerke, la Senna trasporta ghiaccio – e tutti coloro, come il piccolo Marcel, che gli sfratti buttano in strada a 15 gradi sotto zero e fanno crepare assiderati. All’ennesima tragedia, l’11 febbraio l’abbé si fionda in radio e prima su Rtf, quindi su Radio Luxemburg e infine sulle colonne di Le Figaro lancia una richiesta d’aiuto rimasto nella storia: «Amici miei! Aiuto! Una donna è morta congelata alle 3 di questa notte sul marciapiede del boulevard de Sébastopol, stringendo a sé il certificato di sfratto esecutivo che le avevano consegnato il giorno prima… Ogni notte ci sono più di duemila poveri sui nostri marciapiedi che soffrono il freddo, muoiono senza cibo, senza pane, senza tetto. Alcuni sono quasi nudi... Bisogna che questa notte, in ogni città della Francia, in ogni quartiere di Parigi, si aprano dei centri di soccorso, dove questa povera gente possa trovare coperte, paglia, minestre e un sorriso di gente amica. Sulla porta, alla luce di una lampada, si appenda un cartello con le parole “Centro fraterno di soccorso”, sotto il quale si possano leggere queste semplici parole: “Se soffri, chiunque tu sia, entra, mangia, dormi, ritrova la speranza, qui tu sei amato”».
La risposta dei francesi – che l’abbé chiamerà «insurrezione della bontà» – è straordinaria: in poche settimane vengono raccolti milioni di franchi, indispensabili per alloggiare, nutrire e curare migliaia di famiglie e una tale quantità di materiali che per essere stoccati necessitano dei locali della stazione d’Orsay. Tanto per l’abbé quanto per Emmaus è il principio d’una notorietà che da allora travalica i confini francesi – nonostante all’interno della comunità non manchino crisi anche gravi e nonostante Henry viva proprio sul finire degli anni Cinquanta una grave crisi medica e nervosa – per non arrestarsi più.
Per oltre cinquant’anni, l’abbé percorre febbrilmente le strade di Francia e del globo, seguendo la nascita e il moltiplicarsi delle comunità legate al suo nome. Dall’Africa di Schweitzer all’India di Nehru e Madre Teresa, per ritornare alla Francia dei sans papier, dei clandestini e degli extracomunitari, non si contano le campagne in cui l’abbé si impegna – spesso attraverso gesti di grande impatto mediatico – per gli ultimi e accanto agli ultimi. D’altronde, avvertito di quel «li avete sempre con voi», l’antico fratel Philippe sa benissimo che in un mondo che cambia, se c’è una cosa che non cambia – salvo le latitudini di provenienza – sono proprio i poveri. In questo non darsi riposo non mancano neppure prese di posizione difficili da accettare, come la scelta d’accogliere a Emmaus – lo permettano il Vangelo che libera dai macigni del passato o la dottrina Mitterand –uomini più che in odore di terrorismo riparati dall’Italia in Francia; e neppure contraddizioni (d’ingenuità), come il sostegno a titolo amicale – e certamente non a livello ideale – dimostrato al filosofo negazionista Roger Garaudy in occasione delle polemiche seguite dell’uscita del suo libro Les mythes fondateurs de la politique israélienne (1995).
La popolarità dell’abbé, tuttavia, non ne risulta intaccata fino alla morte, che lo coglie il 22 gennaio 2007. E dunque oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, quali potrebbero essere le eredità dell’abbé Pierre? Con buona pace dei media che hanno pruriginosamente puntato qui i propri riflettori, non si tratta certamente della tarda confessione, contenuta nel libro Mon Dieu pourquoi? (2005) relativa ai suoi giovanili e passeggeri cedimenti al desiderio sessuale. E probabilmente neppure dalle sue prese di posizione – peraltro circostanziate e mai urlate – su temi di grande delicatezza quali il celibato ecclesiastico, i ministeri femminili e le unioni omosessuali. Probabilmente, dati alla mano ma anche al di là delle statistiche, meglio si farebbe a guardare a come il seme di Emmaus ha fruttificato in Francia e altrove. Oppure alla capacità di tenere lo sguardo puntato sui poveri, sia ponendosi alla loro scuola sia interpellando direttamente e duramente chi, nella Francia come nell’Europa degli ultimi venticinque anni, ha preso a soffiare sul fuoco maligno della “paura dei poveri” ottenendone facile e immediato consenso politico. E infine, e all’opposto, si potrebbero anche trovare convergenze con le vie su cui l’attuale pontificato si sta sforzando di spingere la Chiesa; come ha scritto l’abbé Pierre, «di fronte alla miseria dei due terzi dell’umanità, l’avvenire appartiene a coloro che sapranno andare a portare la speranza al centro della disperazione».