Tentazioni (libro e articolo di E. Bianchi)
Nel 2011 il prolifico e profondo monaco Enzo Bianchi
ha pubblicato un saggio per le Paoline (p. 242, 16 euro) dal titolo “Una
lotta per la vita. Conoscere e combattere i peccati capitali”. Ne seguiamo
alcuni brani tratti dall’introduzione e dal primo capitolo.
«C’è all’orizzonte un persecutore insidioso: un nemico che lusinga, non flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni, ma ci fa ricchi; non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù; non ci stringe i fianchi con catene, ma vuole il possesso del nostro cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, il potere, il successo, i primi posti nella società». Ilario di Poitiers(ca. 315-367).
“Uno degli aspetti oggi più disattesi della vita cristiana è certamente quello della lotta spirituale, elemento fondamentale in vista dell’edificazione di una personalità umana, prima ancora che cristiana, salda e matura. (…) Si tratta del combattimento invisibile in cui l’uomo oppone resistenza al male e lotta per non essere vinto dalle tentazioni, quelle pulsioni e suggestioni che sonnecchiano nel profondo del suo cuore, ma che sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva, fino ad assumere il volto di tentazioni seducenti. (…)
Quando si inizia a non vivere come si pensa, si finisce per pensare come si vive! (…) Non è possibile l’edificazione di una personalità umana e spirituale robusta senza la lotta interiore, senza un esercizio al discernimento tra bene e male, in modo da giungere a dire dei 'sì' convinti e dei 'no' efficaci: 'sì' a quello che possiamo essere e fare in conformità a Cristo; 'no' alle pulsioni egocentriche che ci alienano e contraddicono i nostri rapporti con noi stessi, con Dio, con gli altri e con le cose, rapporti chiamati a essere contrassegnati da libertà e amore. (…) La vita secondo lo Spirito, cui ogni cristiano è chiamato, comporta una conoscenza di sé e dei meccanismi che presiedono alla tentazione, un discernimento della propria peculiare debolezza per poter combattere con vigore contro il peccato. Il peccato è una potenza che opera nell’uomo e per mezzo dell’uomo, contro l’uomo stesso e la sua volontà, come acutamente rilevato da Paolo: «Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che odio» (Rm 7,15).(…)
Le radici della riflessione sulla lotta spirituale si trovano nella Scrittura. Fin dalle prime pagine della Genesi, l’Antico Testamento conosce il comando a dominare l’istinto malvagio che abita il cuore umano: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua brama, ma tu dominalo» (Gen 4,7). Questa lotta è talmente necessaria che nemmeno Gesù vi si è sottratto, e il suo confronto nel deserto con il Tentatore ce lo mostra chiaramente. Anzi, come Gesù, subito dopo essere stato battezzato da Giovanni, ha conosciuto l’assalto di Satana, così ogni battezzato dovrà attendersi una dura opposizione da parte dell’Avversario, che cercherà di distoglierlo dal suo cammino di sequela. (…). Questo combattimento ha come avversario «il peccato che ci assedia» (Eb 12,1); «il diavolo» (Ef 6,11), «il Maligno» (Ef 6,16): in una parola, tutte le forze malefiche, interne o esterne al cristiano, che cercano di ricondurlo alla sua condizione pre-battesimale di idolatra. (…)
La cosa peggiore, nella tentazione, è credere che noi combattiamo da soli. No, Dio ci tende la mano, combatte per noi e con noi. (…) Solo Cristo, che vive in ciascuno di noi, può vincere il male che ci abita, e la lotta spirituale è esattamente lo spazio nel quale la vita di Cristo trionfa sulla potenza del male, del peccato e della morte. (…) Scriveva Martyrios, un padre siriaco del VII secolo:
«La lotta interiore, il combattimento per fare fronte ai pensieri e la guerra contro le passioni, non sono forse tanto duri quanto le guerre esteriori contro i persecutori e le torture fisiche? A me pare che siano ancora più duri, come è vero che Satana è più crudele e malvagio degli uomini malvagi. Finché ci sarà soffio nelle nostre narici, non cessiamo dunque di combattere; non lasciamoci abbattere né mettere in fuga, ma perseveriamo nella lotta contro Satana fino alla morte, per ricevere dal Signore la corona della vittoria, nel giorno della ricompensa».***
Su un tema simile Bianchi torna a scrivere in un articolo per La Stampa: "Contro le tre libido: resistere":
Eros, desiderio di possesso e di potere: perché non diventino idoli è necessario esercitarsi nell’arte della lotta interiore.
Non è possibile l’edificazione di una personalità umana e spirituale robusta senza la lotta interiore, senza un esercizio al discernimento tra bene e male, in modo da giungere a dire dei «sì» convinti e dei «no» efficaci: «sì» a quello che possiamo essere e fare per vivere una vita umana degna di questo nome; «no» alle pulsioni idolatriche ed egocentriche che ci alienano e contraddicono i nostri rapporti con noi stessi, con gli altri e con le cose e, per chi crede, con Dio: rapporti chiamati a essere contrassegnati da libertà e amore.
In questo senso vorrei analizzare tre dominanti fondamentali che agiscono sulle sfere umane dell’amare, dell’avere e del volere: la dominante dell’eros ( libido amandi ), la dominante del possesso ( libido possidendi ), la dominante del potere e dell’affermazione di sé ( libido dominandi ).
L’uomo trova il senso della sua vita nell’amare, e l’eros è la pulsione fondamentale che lo abita, è parte integrante della sua fame d’amore. Tuttavia anch’esso deve trovare dei limiti, deve cioè essere attraversato dalla dinamica del desiderio. L’eros deve accettare la differenza e la distanza: non è un caso che l’interdetto primario fondamentale in tutte le culture sia quello dell’incesto.
In un tempo in cui imperversa l’immagine, mentre si è smarrito il valore del simbolo, l’eros è più spettacolarizzato che vissuto nella sua profondità. E forse sta qui, nell’attuale tirannia dell’immagine, la radice dell’idolatria della sfera erotica: l’idolatria è costruzione di un’immagine da sostituire alla realtà, è fuga nell’immaginario, perdendo l’adesione alla realtà ed evitando anche le difficoltà, le sofferenze, le angosce che essa porta con sé. Nell’immagine pubblicizzata, la sessualità è vissuta senza angosce, senza conflitti: ecco l’illusione seducente dell’erotismo reso idolo, al caro prezzo di una sessualità spersonalizzata, senza più alcuna valenza simbolica, senza l’altro, senza il suo volto. In questo senso, non si può dimenticare l’imperante esercizio della sessualità virtuale, consumata online, nonché la pornografia disponibile in rete sotto molte forme…
Come lottare in questo ambito? La dominante dell’eros deve fuggire la cosificazione dell’altro e la perversione del desiderio, per tornare a essere dinamismo di incontro e immissione nel mistero di comunione in cui l’uomo e la donna esprimono il loro amore, fino a celebrarlo in quella che Giovanni Paolo II osava chiamare la «liturgia dei corpi». In questo cammino occorre esercitarsi all’ascesi umana, alla lotta contro la spersonalizzazione della pulsione e la reificazione della sessualità.
L’essere umano ha non solo il diritto, ma anche il dovere di vivere un rapporto con le cose e con i beni: senza questo rapporto che gli permette di soddisfare il bisogno del pane, della casa e del vestito, l’uomo non costruisce se stesso e non vive quella pienezza che gli spetta in quanto uomo e che la fede cristiana legge come vocazione a essere pastore, re e signore all’interno del creato.
Tuttavia, in questo rapporto con le cose, grande è la tentazione idolatrica, la seduzione della brama del possesso. Ma quando il rapporto con le cose diviene idolatrico? Quando il possesso diviene un fine in sé, giustificando anche ogni mezzo pur di ottenerlo; quando si vuole affermare «il mio» e «il tuo» – queste fredde parole, dicevano i Padri della Chiesa! –, contraddicendo un’elementare esigenza di giustizia e misconoscendo la destinazione universale dei beni. C’è dunque un netto discernimento da operare: o essere guidati dal dinamismo della comunicazione e della comunione o essere alienati alla dominante del possesso, tertium non datur .
In questo tempo di crisi dell’interiorità, di rimozione dell’interiorità dalla sfera dell’esistenza, grande è la tentazionedi lasciarsi definire da ciò che si ha o, correlativamente, da ciò che si fa , insomma, da ciò che è visibile e quantificabile, da ciò che è esteriore: dall’immagine che l’altro vede. Sempre di più, in questa pseudo-cultura, l’altro è inteso non come diverso con cui comunicare, ma come spettatore: in particolare spettatore del mio successo, della mia ricchezza.
Certamente la brama di possedere risponde a una forma di angoscia e di lotta contro la morte, a una ricerca di onnipotenza e di rassicurazione che vengono dalla sensazione di poter tutto acquistare, di eliminare i bisogni soddisfacendoli immediatamente. Del resto, viviamo in un angolo di mondo in cui è possibile la soddisfazione di qualsiasi bisogno, ma in cui si è perso il senso dell’autentico bisogno, del bisogno reale: spesso i bisogni sono indotti, creati, eppure esigono, con tutta la forza dell’idolo, forza che riposa su una radicale inconsistenza, la soddisfazione. Si comincia a desiderare il possesso di una cosa e, a poco a poco, la brama di possedere porta a non considerare gli altri: si vuole tutto e subito, anche a spese degli altri. Questo aspetto emerge con particolare forza dalla constatazione del diffuso senso di irresponsabilità nei confronti di coloro che verranno dopo di noi. Il «tutto e subito» diviene anche «tutto è mio», «tutto è nostro».
Qui la lotta esige da parte di ciascuno la capacità di porre una distanza tra sé e le ricchezze, per non cadere nel terribile abbaglio di chi si lascia definire da ciò che possiede; occorre cioè uscire dalla logica angusta e angosciata del «mio» e del «tuo», per entrare nella libertà della condivisione e della comunione dei beni .
L’ultima tentazione «madre» è quella del potere, dell’affermazione di sé sugli altri: la libido dominandi , forse l’idolo che richiede l’adorazione più totale, quando addirittura non giunge fino a esigere il sangue degli altri nostri fratelli e sorelle in umanità. Non a caso per l’ Apocalisse di Giovanni questo idolo arriva ad assumere i tratti di Dio stesso (cf. Ap13), a travestirsi da Dio per vedere rivolte a sé l’adesione e l’adorazione che vanno solo a Dio.
Ora, è evidente che l’uomo è un esserein-relazione e pertanto esercita un’influenza sugli altri, dai quali a sua volta è influenzato: da questo gioco relazionale scaturisce la creazione di una vita comune, la costruzione di una città, di una polis , l’edificazione di una convivenza. Ma quando dalla logica dell’interrelazione e dello scambio – in cui la presenza degli altri è vista come positiva e sentita come essenziale – si passa a un’affermazione di sé contro o sopra gli altri, quando si trasforma il proprio io in assoluto, quando ci si lascia inebriare dalla sete di potere, allora si precipita nell’idolatria.
Se non è frenata e se non riceve un limite, la libido dominandidiventa l’idolo più devastante a livello sociale e politico. Secondo Julia Kristeva, esso è la forma culminante del narcisismo e porta l’individuo o il soggetto politico o istituzionale a guardare a se stesso come a Dio. Ma l’esito socio-politico di un narcisismo estremo è il potere totalitario, dittatoriale. Un’istituzione, un partito, un sistema che faccia di se stesso e della propria sopravvivenza l’unico fine, anzi che si ritenga depositario dell’unico e vero bene per tutti, bene che dunque potrà e dovrà essere imposto a tutti, diventa liberticida. Cioè incapace di accettare che vi sia chi prende e mantiene una distanza da esso, chi custodisce un’alterità, una diversità. Non a caso una società come la nostra, in forte condizione di instabilità e di crisi, carente di ideali collettivi, sfilacciata nel suo tessuto sociale, con perdita di fiducia nelle istituzioni politiche, vede sorgere il culto della personalità e crescere i fenomeni della personalizzazione e della spettacolarizzazione di tutti i poteri. E diventa così terreno di possibili soluzioni politiche «idolatriche».
Di fronte a questi rischi decisivi, la lotta interiore è il cammino attraverso il quale, nello spazio della libertà e dell’amore, si apprende l’arte della resistenza alla tentazione e l’arte della scelta. Avere un cuore unificato, un cuore puro, sensibile e capace di discernimento, un cuore che custodisce e genera pensieri d’amore: ecco lo scopo del combattimento e della resistenza interiore, arte davvero appassionante. È necessaria una grande lotta antiidolatrica per essere liberi di servire e amare ogni uomo, ogni donna, ogni creatura; insomma, per giungere a fare della nostra vita umana un capolavoro.