"Messiah" (serie tv Netflix) e le questione escatologiche


Ho visto con piacere e molto interesse la serie tv "Messiah" prodotta da Netflix. Cosa può succedere se il Messia tornasse nei nostri tempi? Quale accoglienza e reazioni potrebbe suscitare? Domande importanti a cui questa serie, mai banale, cerca di dare risposta (con una prima serie di 10 puntate). E il fatto che sia stata prodotta e scritta dal produttore e dallo sceneggiatore de “Le Cronache di Narnia” (dall’omonimo libro del cristiano C.S. Lewis), Michael Petroni, ne aggiunge valore e credibilità.

La questione "fede" rimane aperta: è un terrorista (tesi della CIA)? E' un truffatore? E' il Profeta di Dio (secondo i musulmani che non tollerano il fatto che citi testi non sacri) o il Cristo? Chi lo segue con entusiasmo non è immune da crisi e delusioni (come lo fu per Gesù stesso). Ma cosa cercano in lui?

Ecco alcuni articoli per approfondire la questione, a partire da un recentissimo articolo apparso su Avvenire: "La serie tv "Messiah" e la domanda: se Gesù tornasse io dove sarei?"
In una Damasco assediata dal Daesh e prossima alla caduta, un uomo non si stanca di predicare di non aver paura, ma di seguire la volontà di Dio, abbandonandosi a Lui. È Isa – Gesù in arabo – o meglio al-Masih, il Messia? O si tratta solo di un altro falso profeta, peggio di un piccolo illusionista con turbe mentali, che dalla Terra Santa agli Stati Uniti intende sovvertire il mondo intero, creando un caos globale?
La serie di Netflix 'Messiah', disponibile da inizio anno, non è solo avvincente e spettacolare, ma per l’argomento trattato è in grado di suscitare riflessioni profonde sul piano umano e, per un credente, rimandare alle domande ultime. Riaccendendole nelle nostre coscienze, spesso sopite tra formalismi, ipocrisie e lotte persino tra fratelli nella fede. L’intera serie – 10 episodi questa prima stagione (ne ha parlato su Avvenire Andrea Fagioli) – si snoda infatti lungo l’interrogativo su chi sia questo personaggio apparso all’improvviso: il Messia tornato sulla Terra a predicare la conversione prima della fine dei tempi, appunto, o un pericoloso imbroglione amico di terroristi? E le sue manifestazioni sono trucchi assai ben realizzati o veri miracoli, epifanie affinché tutti possano riconoscere il suo essere figlio di Dio? Del Dio unico, senza distinzioni tra ebrei, musulmani e cristiani, quello che ha mandato suo figlio non per insegnarci a pregare in un modo o nell’altro, ma per «camminare a fianco di tutti gli uomini», figli di un unico Padre e perciò fratelli.
Così sono molte le questioni che la serie, letta in filigrana, finisce per smuovere nella coscienza di uno spettatore credente. A cominciare da alcuni interrogativi chiave: 'Se oggi Cristo tornasse in mezzo a noi, lo riconosceremmo? E da che cosa: da parole di pace e comportamenti improntati all’amore o avremmo ancora bisogno di segni forti, di miracoli eclatanti, spettacolari? Ancora, quale fede il Messia ritornato troverebbe non solo sulla Terra in generale, tra guerre fratricide e iniquità mondiali, ma dentro ciascuno di noi? E avremmo alla fine il coraggio di abbandonare i nostri culti («oggi ognuno ne ha uno: il denaro, il potere, anche solo il lavoro…», dice al-Masih, dimostrandosi capace di leggere dentro il cuore delle persone che via via incontra, come Gesù con la Samaritana al pozzo). Senza svelare troppo della trama, va detto che la serie ha per co-protagonisti agenti della Cia, dello Shin Bet, giudici americani, politici sinceri e corrotti, un Presidente Usa che appartiene alla Chiesa dei Santi degli ultimi giorni (i mormoni) e coinvolge via via imam devoti e terroristi, assieme a un pastore evangelico in piena crisi di identità, fedeli di diverse confessioni e, solo sullo sfondo, una tiepida Chiesa cattolica romana (un cardinale annuncia in San Pietro che «Papa Alessandro riunirà una commissione per valutare i fatti»…).
Più ancora che il Messia, in verità di non molte parole, almeno non quante ne vorremmo sentire, sono proprio questi personaggi – a partire da alcuni ragazzi che via via al-Masiah chiama sostanzialmente come discepoli – a intessere l’ordito della vicenda e a rappresentare il riflesso della nostra condizione di credenti imperfetti o di vuoti devoti, di scettici in ricerca o di delusi incattiviti. Tutte queste persone, nella serie, vengono 'toccate' o anche solo 'avvicinate' da Dio. Si trovano faccia a faccia con Chi è capace di leggere il dolore e la finitezza nel profondo del loro cuore e, tendendogli la mano, chiede solo un atto di fede per lenire le sofferenze e dare un senso a tutto. Già, ma perché questo si realizzi occorre credere davvero e per farlo abbandonare se stessi e affidarsi completamente. È ciò che, alla fine, al di là di ogni convinzione e pratica di fede, rimane l’atto per noi più difficile da compiere eppure fondamentale per chi voglia realmente incontrare Dio.
Leggendo il Vangelo, capita a tanti di chiedersi 'dove sarei stato io?', duemila anni fa: fra i discepoli di Gesù o nella folla a gridare 'Barabba'; tra i delusi per un Messia poco combattivo che non rovescia i potenti dai troni o colmo della fede dell’emorroissa; incapace di abbandonare le certezze come il giovane ricco o fedele nella sequela fino a dare la vita quanto Stefano e i martiri?
Una serie tv come Messiah ovviamente non rappresenta il Vangelo, è certamente eterodossa e anche un po’ ingenuamente (o volutamente?) sincretista. Però ha un grande pregio, al di là di quelli artistici: suscita in chi la guarda domande fondamentali che nella frenesia quotidiana dei nostri 'piccoli culti' tendiamo a non farci più o a relegare ai momenti critici della nostra vita. Chi è il Messia per noi? Come lo stiamo aspettando? Come lo riconosceremmo, se tornasse? E dove lo incontriamo già oggi, quanto tendiamo la nostra mano per dirgli il nostro sì? Perché «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Sempre su Avvenire anche un altro intervento: Messiah” di Netflix Serie non banale":
Dice di andare dove Dio lo conduce. Si definisce “la Parola”. Gli altri dicono che è «un attivista islamico che la gente chiama Messia». Lui è Al-Masih, un giovane di origini mediorientali, capace con le sue prediche di trascinare dietro di sé migliaia di adepti. Al-Masih, alias Mehdi Dehbi trentaquattrenne attore belga dalla pelle olivastra, è il protagonista di Messiah, la nuova serie in dieci episodi, creata da Michael Petroni, interamente disponibile su Netflix, ambientata ai giorni nostri tra la Siria, la Terra Santa (con una ricostruita Spianata delle Moschee che sembra vera) e gli Stati Uniti. Una storia che inizia con l'apparizione a Damasco di questo profeta dai lunghi capelli che nell'aspetto assomiglia all'immagine di Gesù che ci è stata tramandata. Anche la predicazione è simile. Per di più sembra avere poteri soprannaturali tra cui quello di resuscitare i morti. Però, a scanso di equivoci, diciamo subito che in tutto questo non si avverte niente di offensivo nei confronti della religione cristiana, se si esclude qualche affermazione un po' forte da parte di alcuni personaggi nel contestare il presunto Messia. C'è semmai la provocazione, questa sì, al fine di proporre il dualismo tra fede e ragione. Inoltre, intorno alla storia del protagonista se ne intrecciano altre, in un clima da thriller, a partire da quella dell'agente della Cia Eva Geller (Michelle Monaghan), chiamata a scoprire l'identità del personaggio misterioso che sta attirando l'attenzione dei media internazionali per le sue gesta sensazionali. C'è poi la prospettiva di un ufficiale dell'intelligence israeliana, di un pastore protestante del Texas e di altri. Quello che accomuna molti di loro è una sorta di male di vivere. Un po' tutti sembrano avere degli scheletri negli armadi e Al-Masih si dimostra l'unico in grado di leggere nel loro animo, di conoscerne il passato e di dare risposte ai loro turbamenti. In questo senso, più che la figura del Messia, interessa agli autori la condizione umana e le possibili conseguenze (in questo caso anche politiche, sociali e religiose) di un evento come quello immaginato. In ultima analisi, Messiah è una serie con diversi punti deboli, ma sicuramente originale e ben diretta.
Anche su Aleteia sono intervenuti per parlare della serie: 

È un Gesù dei tempi moderni?

Il trailer, accattivante, ci mostra un uomo che trascina le folle fino a provocare un’ondata di partigiani al suo seguito, uomini che vedono in lui il Messia. Compie miracoli e dice di essere stato «inviato da suo padre». Ma d’altro canto i servizi segreti della CIA si allarmano e lo interrogano: è un uomo inviato da Dio o un ciarlatano pericoloso che minaccerebbe l’ordine geopolitico mondiale? I differenti protagonisti incarnano diversi punti di vista, con un agente della CIA, un ufficiale israeliano del Shin Bet (Tomer Sisley), un predicatore latino-americano e un rifugiato palestinese. Senza contare la voce dei media che si aggiunge all’intreccio dallo sfondo geopolitico intricato.
Il nome della serie evoca il termine “messia” in una versione aramaica, il che richiama le origini di Gesù di Nazaret, figlio di Dio, e il personaggio principale si chiama Al-Mahssi (Mehdi Dehbi), in versione araba. Al-Mahssi è presentato come un enigma. Viso dolce e misterioso, un tantino selvaggio e libero, le sue origini sono un mistero, come pure le sue esternazioni e le sue azioni. Quando senza alcuna spiegazione scompare dalla cellula dove degli israeliani lo stanno interrogando, il dubbio non fa che crescere. «Guida gente disperata! Allora è una setta?», si dice: «Non sappiamo con chi sia alleato, potrebbe raccogliere un esercito!». E quando gli si chiede che cosa sia andato a fare in Siria, risponde:
Sono andato a consegnare un messaggio di mio padre. È l’opera di Dio.
Passa poi dalla Siria al Texas in men che non si dica – cosa che rimanda ben poco al Cristo che conosciamo (perlomeno a quello pre-pasquale, perché già nel trailer si evoca invece “il secondo avvento” [dell’unico Gesù Cristo]).

«Lei è uno che crede a ciò che vede o che vede ciò che crede?»

In un contesto di catastrofi naturali e di tensioni politiche, le scene possono evocare l’avvento della fine dei tempi. Si vede su un muro la scritta “Il falso Dio”, il che potrebbe far pensare a colui che si fa passare per il Cristo prima dell’episodio biblico. La suspence sta dunque nel capire se si tratta dell’impostore o di un Gesù dei tempi moderni. L’intenzione della serie, da parte sua, si fonda su un’attualità in cui l’azione pericolosa di alcuni uomini è fatta in nome di Dio, così come le guerre. Sapendo che la serie è scritta da uno scenografo aduso a temi spirituali cristiani – che siano fantastici o nell’ordine del soprannaturale –, l’intreccio non dovrebbe mancare di mordente e, se non potrà indurre ad aderire al messaggio, in ogni caso introdurrà la domanda su cosa faremmo se ci trovassimo ai nostri giorni ad avere a che fare con una figura messianica.
Il creatore della serie afferma, comunque, che la serie sarebbe “provocatoria” – il che, precisa, non sta per “offensiva”. Quel che egli si augura invece è «che ci sia molto rumore attorno alla serie, e numerosi dibattiti». Da parte sua afferma in un’intervista a 20 Minutes l’attore Tomer Sisley:
La scenografia è di gran lunga la meglio scritta che mi sia capitato di leggere in questi ultimi anni: fine, profonda, intelligente e interessante.
Lei è uno che crede a ciò che vede o che vede ciò che crede? Questo e simili temi sono trattati sublimemente e portano acqua al mulino di ogni spettatore senza cercare di fargli mutare parere. Trovo che questo sia magnificamente ben fatto.
Insomma, la serie merita ogni attenzione, all’inizio del 2020, visto che mescola tutti gli ingredienti necessari per tenerci col fiato sospeso: thriller, geopolitica e religione. Anche l’invito al viaggio non manca, perché le riprese si sono svolte tra Giordania e Stati Uniti.
Infine un articolo del Corriere:  "Arriva il «Messiah» in Terra, i credenti diventano follower":
Cammina sulle acque, fa resuscitare un bambino, salva una chiesa da un tornado. Ricorda qualcuno? Sulla Terra è arrivato un nuovo Messiah (è il titolo della nuova serie di Netflix). Dieci puntate che si snodano sul filo del dubbio: quest’uomo dall’aria mistica è un predicatore che fa miracoli o un impostore che promette illusioni? Un profeta o un manipolatore? Il carismatico Al-Massih (interpretato dall’attore belga Mehdi Dehbi, il ruolo gli impone una sola espressione ieratica) compare alle porte di una Damasco pronta a cadere nelle mani dell’Isis. Ma appena Lui assicura che la città sarà salva, una tempesta di sabbia arriva come la provvidenza ad annientare le truppe del Califfato: è la prima prova della sua «divinità». Duemila seguaci — profughi palestinesi — attraverseranno il deserto fino al confine con Israele convinti che Lui saprà riportarli nella loro terra. Quindi «apparirà» in Texas dove salverà una piccola chiesa da un violento tornado. I seguaci — pure i follower, siamo ai tempi del Dio Instagram — aumentano, mentre il Mossad e la Cia (l’agente Eva Geller è interpretata da Michelle Monaghan) pensano si tratti di un terrorista. Chi ha ragione?La propaganda anti-islamicaAlla serie è già stata appiccicata l’etichetta di essere uno strumento di propaganda anti-islamica, perché Al-Masih ad-Dajjal (che tradotto risulterebbe come «falso messia») è una figura paragonabile all’Anticristo su cui aleggia lo spettro del terrorismo. «Sì, la serie è provocatoria — spiega il suo creatore, Michael Petroni —. Ma provocatorio non significa offensivo». Il punto non è nemmeno questo. Perché Messiah è un nuovo Profeta di Dio che sembra fatto su misura per le tre religioni monoteistiche, tutti possono credergli senza sembrare blasfemi. La vicenda si presta a essere sfumata nei toni soffusi dell’ambiguo, i confini della certezza spariscono nel buio delle ipotesi, tutto è giocato sul dubbio: il dubbio della serie (sarà un vero Messia o no?) e il dubbio della fede (cosa succederebbe se un «uomo divino» arrivasse in mezzo a noi?). La risposta non può che essere polarizzata come qualunque discussione si accenda in questi tempi in cui ognuno ha la (sua) verità in tasca: chi ci crede e chi no. Il meccanismo di un giallo applicato alla spiritualità funziona, tanto più in un periodo in cui il Medio Oriente è centro del mondo, sia per millenarie questioni spirituali (Gerusalemme da cui tutto ha origine) sia per questioni geo-politiche.

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