L’intervista del cardinale
Camillo Ruini ripresa nel post dell’11 novembre di Settimo Cielo non cessa di far discutere. Il quotidiano “Il Foglio” vi è tornato sopra in un’ampia inchiesta condotta da Matteo Matzuzzi, che ha interpellato tre studiosi cattolici di primo piano sull’asserzione fatta dal cardinale di un declino di autorevolezza e di ascolto della Chiesa nella società italiana, a dispetto del ricorrente proposito di alcuni di ridar vita a un partito cattolico e nonostante l’attivismo sociale dispiegato da papa Francesco:
I tre studiosi – tutti ben noti ai lettori di Settimo Cielo – sono
Sergio Belardinelli, ordinario di sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna,
Luca Diotallevi, ordinario di sociologia all’università di Roma Tre, e
Pietro De Marco, emerito di sociologia delle religioni all’Università di Firenze.
Sollecitato dalle domande de “Il Foglio”, De Marco ha corredato le sue sintetiche risposte con un appunto più arioso e argomentato.
Eccolo.
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APPUNTI SU UNA CHIESA IN CRISI D’IDENTITÀ
di Pietro De Marco
1. Il declino di autorevolezza della Chiesa italiana e il ricorrente progetto di un nuovo partito cattolico sono questioni connesse, ma non sincroniche.
Il declino di autorevolezza della Chiesa appartiene al presente, ad anni recentissimi: riguarda il periodo segnato, da un lato, dai rivolgimenti della mappa elettorale e da nuove alleanze di governo, e dall’altro lato dall’influenza del pontificato attuale su cattolici e non cattolici, o meglio, su aree di credenti praticanti e quasi-praticanti
Il progetto di un nuovo partito cattolico, invece, si pone periodicamente da oltre un quarto di secolo, a partire dal collasso della Democrazia cristiana, ed è da esaminare in un quadro meno congiunturale.
Naturalmente, anche del declino di autorevolezza della Chiesa italiana si è ragionato a più riprese da decenni, sociologicamente e politicamente. E con intenzioni molto diverse, anzi opposte, poiché ogni diagnosi del genere ha più attori e utenti, e in conflitto tra di loro.
Nel lungo periodo della segreteria e poi della presidenza della conferenza episcopale italiana da parte del cardinale Camillo Ruini (1991-2007), e nonostante che essa avesse effetti coerenti e costanti, non improvvisati, nell’arena pubblica nazionale, si lamentava – da sinistra – il silenzio della Chiesa. Non erano i vescovi ma il loro presidente che parlava, si diceva insistentemente (perché anche parlando si è sempre silenziosi, nel giudizio di chi vuole che si dica altro). La Chiesa italiana, si diceva ancora, delegava ed era fin troppo ai margini, silente, proprio mentre la stagione berlusconiana dava scandalo a parte dell’opinione pubblica, anche cattolica ed ecclesiastica.
Arrivando all’oggi, più che di silenzio della Chiesa italiana – in effetti qua e là piuttosto loquace –, si tratterebbe appunto di non-autorevolezza. Perché parla la CEI, parla il papa (anche lui “Chiesa italiana” in quanto vescovo di Roma), parlano vescovi e preti, parlano laici titolati, parla “Avvenire” (cui le rassegne stampa della TV riservano più attenzione di un tempo), parlano gli amici del papa, laici nel senso della laicità moderna storicamente avversaria della Chiesa, quasi lo facessero a suo favore o in sua vece. Ma tutti parlano e pochi ascoltano, fa notare il cardinale Ruini. E io aggiungerei che tutti coloro che parlano, e sono molti, parlano tra di loro, come se si parlassero addosso. Mentre quelli a cui sono rivolte raccomandazioni e reprimende, uomini e donne esterni al sentenzioso e talora minaccioso coro dei parlanti, non ascoltano. La voce del cardinale ha rotto il coro ed è stata subito ascoltata.
2. Il coro dei parlanti è la sommatoria della opinione pubblica ecclesiale “in capite et in membris”, che riecheggia papa Francesco e prende legittimazione da lui. Parlo di opinione, non di magistero, nemmeno episcopale. Chi, nella sfera ecclesiale, dichiara e declama su problemi sociali ed economici di dimensione macro o di particolare complessità, dalle emigrazioni alla sicurezza. alle stesse radicate pratiche morali e religiose della gente comune, non può che esporre “opinioni”. Magistero è altra cosa, nei modi e nella consistenza riflessiva.
I molti che non ascoltano sono i cattolici (senza virgolette, perché il loro statuto cattolico non è “sub iudice”, nonostante le retoriche in voga) che continuano a pensare ciò che pensano da tempo sulla società italiana (che è fatta anche da loro), sull’emigrazione, sull’Europa comunitaria. Sappiamo che sono una parte cospicua dell’elettorato di Matteo Salvini. In effetti, l’elettore cattolico di centro-destra fu sordo anche alle battaglie contro Berlusconi condotte da élite della Chiesa schierate e autorevoli, dall’anziano don Giuseppe Dossetti ai girotondi passando per “Famiglia Cristiana”. Dava peso, piuttosto, al diverso atteggiamento, fatto di attenzione e di attese meditate, della gerarchia e non solo del presidente della CEI, alla cautela di “Avvenire”, alla presenza esplicita e coraggiosa di credenti cattolici (non provenienti dal mondo cattolico organizzato) nei quadri di governo; e di non credenti per i quali cattolicesimo e Chiesa erano forza di civiltà.
La Chiesa italiana era dunque “autorevole”, allora, per la sua ragionata prudenza e per l’assenza di antagonismo predicatorio, di fronte ai moti profondi della politica italiana post-tangentopoli e ai suoi nuovi protagonisti, che avevano – legittimamente – “acquisito un potere dalla situazione”, per dirla con Christian Meier. Mentre non è altrettanto “autorevole” oggi, almeno di fronte all’elettorato moderato e conservatore (la nozione di “estrema destra” che si usa come spauracchio è fuori luogo per l’elettore medio di Salvini), se possono essere presi come indicatori i risultati elettorali recenti.
Prima di cercare un perché, si deve però ricordare che la crisi del voto cattolico unitario (con i suoi confini strutturali sempre esistiti) era iniziata negli anni Settanta, con l’attrazione esercitata dalle “chiese politiche”, anzitutto il PCI, e la simmetrica “spiritualizzazione” della Chiesa istituzione, con la “scelta religiosa” da cui conseguì la caduta libera delle obbedienze e dell’esercizio dell’autorità di indirizzo.
Per decenni, dunque, l’autorevolezza della Chiesa non ha potuto più misurarsi sulla conformità delle condotte elettorali ad inesistenti indicazioni formali dei vescovi. Ma ora, per apparente paradosso, tale “autorità” si mette di nuovo nella condizione di essere misurata, in anni nei quali il magistero corrente e la pastorale hanno assunto perimetro e linguaggio di “religion du coeur” neo-roussoviana a proiezione umanitaria, non inedita in sé, ma oggi “nuova” nella Chiesa perché diffusa ai vertici e, come tutte le ideologie, intimidatoria nei confronti dei fedeli (“non sei cristiano se non fai così”), a detrimento, deliberato, della formazione e della predicazione sui fondamenti della fede.
In effetti tale azione di indirizzo risulta non convincente, per le popolazioni cattoliche, su due o tre fronti decisivi:
a) poiché sembra inseguire degli “a priori” progressisti, quelli di sempre, ora a coloritura ecologista, e palesemente dipenderne;
b) poiché questo “verbiage” moralistico-politico presentato come la linea del Vangelo appare a molti cattolici l’inaccettabile, o almeno improbabile, surrogato di una seria vita cristiana fatta di peccato e grazia, vita soprannaturale, culto a Dio, sacramenti, regola morale, Chiesa istituzione;
c) poiché tutto questo sembra affiancarsi, nella pastorale, a un disinteresse per il comune credente, per il praticante “borghese”, e al suo declassamento.
È un sintomo pesante, quest’ultimo, che contraddice nelle condotte pratiche la continua sollecitazione di papa Francesco all’annuncio universale. Infatti è proprio l’universalità dell’annuncio (ovvero, riguardo ai battezzati, della cura d’anime) che viene tradita da una pastorale tutta ideologica, discriminante nei fatti e, infine, senza un oggetto se non utopico, affabulato.
Questo oggetto affabulato della nuova cura pastorale è ben rappresentato dall’indio immaginario del sinodo amazzonico: un non cristiano ma in sé già “cristiano anonimo”, che non ha bisogno di alcun annuncio di Cristo, ma solo di riconoscimento e promozione materiale, politica, mediatica. Saggi propositi, questi, che avrebbero reso felici i sostenitori illuministico-roussoviani del buon selvaggio sufficiente a sé per natura. Propositi fallimentari se si ambisce di ottenere o garantire con essi società giuste e “umane”. Ma ormai tutto ciò che non è eloquio e moto solidaristico è visto, dall’intelligencija cattolica ecclesiastica e laica, come una sorta di Chiesa alienata da cui prendere le distanze.
E quando mons. Domenico Mogavero obietta al cardinale Ruini che i cattolici non allineati ideologicamente (“non in linea col Vangelo”) non sono veri cattolici, ci si chiede cosa resti della secolare autonomia di giudizio cattolica, costituita su rivelazione divina e ragione, e da secoli argine critico alle falsificazioni illuministiche e socialistiche del cristianesimo.
Quando, poi, qualcuno osserva che, diversamente da Salvini, gli uomini della Democrazia cristiana portavano con sé il rosario ma lo tenevano in tasca (non tutti: Giorgio La Pira l’aveva spesso anche in mano, visibilmente) descrive senza saperlo il limite strutturale della “laicità” della DC, che in realtà fu disconoscimento o timore della dimensione pubblica della fede come “bonum” sociale, che ha fatto perdere alla DC tutte le battaglie etiche degli anni Settanta, rendendo così inutile, su ogni fronte, la sua sopravvivenza. Il crocifisso non esiste per stare nascosto nelle “coscienze”, né nelle tasche dei pantaloni; la croce era supplizio pubblico, ben visibile, tale da essere minaccia esemplare. Il dramma della croce è nel cuore della relazione tra il Padre e il Figlio nel mistero trinitario, nel cuore della storia. Appartengono alla contemporanea abiezione dell’intelletto cattolico l’imbarazzo, la vergogna, fatti di ignoranza della Scrittura, che esso prova nell’annunciare il sacrificio della croce voluto dal Padre, i misteri dolorosi. Perciò dovremmo essere grati a chi, in una piazza, osa tenere il crocifisso del rosario tra le mani.
3. Ciò che ho detto finora può aiutarci a chiarire il senso di una “crisi d’identità” della Chiesa italiana. Infatti, la provata non autorevolezza di vescovi, di circoli che si pretendono autorevoli (come i francescani di Assisi, schierati nelle ultime elezioni in Umbria) e di organi di stampa cattolici nella attuale battaglia contro le “destre”, è un segnale di processi non contingenti. Chi può approvare una deriva profonda nella quale un preteso “discernimento” evangelico è esercitato ad imitazione delle culture “critiche” vecchie e nuove, fino alle emergenti più futili e senza fondamento nella fede della Chiesa? Questa deriva invalidante è colta da quella parte del popolo cattolico che, anche per diffidenza e paura, non sta al gioco.
Ora, l’episcopato italiano è composto da uomini riflessivi; ne conosco e apprezzo molto alcuni, per tutti ho reverenza. Ritengo che nella maggior parte di loro, per effetto di questo pontificato, operi quella “dissonanza cognitiva” che investe le coscienze obbligate, troppo spesso, a dire e a operare, in qualche modo ad internalizzare, non secondo le proprie convinzioni. Questo è già una pesante scissione, perché altro è essere tenuti ad una ordinaria disciplina cattolica, che l’autorità di Roma tutela; altro è vivere sotto il ricatto di un entourage papale e di una opinione (post)cattolica che si riempiono la bocca della parola Vangelo. In più, e in peggio, il bagno teo-ideologico in cui il pontificato di papa Francesco galleggia, vulnera la stessa realtà del sacramento dell’ordine episcopale, della sua dignità e potestà. È impressionante sorprendere questo declino di vita/coscienza soprannaturale nella spigliatezza sportiva di vescovi e preti.
Un episcopato così ferito (e quello italiano è tra i più resistenti) come potrebbe operare? Bisognerebbe avere saldezza di cultura e di nervi per denunciare l’arbitrarietà cattolica di tutto ciò. E coraggio. Una alleanza trono-altare è in effetti in corso: fra un trono, quello dell’intelligencija mondiale dichiaratamente anticristiana, un Anticristo solov’eviano che oggi arruola anche le bambine; e un altare disposto a “bruciare incenso sulle alture, sui colli e sotto ogni albero verde” (2 Cronache 28, 4).
Non solo i vescovi italiani, gli episcopati di tutto il mondo, credo, ne sono consapevoli; ma ogni altra alleanza è oggi demonizzata, nelle altre direzioni vi sono solo “fascisti”. Un vescovo, nella pienezza della sua potestà, potrebbe certamente alzarsi e prendere posizione contro il papa. Il “conciliarismo” teologico, che oggi protegge papa Bergoglio, non troppi anni fa istigava, dottrinalmente e politicamente, vescovi e laicato contro Roma. Ma il volto primaziale della Chiesa cattolica è rimasto solido; solo tra i seguaci di Francesco vi è chi si augura che egli dia il colpo di grazia a potestà e carismi del pontefice romano. Credo sia suprema saggezza dei vescovi non mettere in discussione gli irrinunciabili “munera” di Pietro, nonostante il dramma di questo pontificato che invita molti a mettere in questione il magistero pontificio per la salvezza della Chiesa.
Resta che l’alleanza di questo stile ecclesiale con l’opinione pubblica mondiale che conta è, essa, la nuova alleanza tra poteri deliberatamente perseguita, secondo alcuni, anzitutto dal papa gesuita. Se si coglie tale alleanza nichilistica tra intelligencija e Chiesa (purtroppo “in capite”), le rinnovate accuse al cardinale Ruini di riproporre l’alleanza classica tra poteri civili ed ecclesiastici, cui oggi si aggiunge quella di approvare l’uso politico del crocifisso, rappresentano degli automatismi irragionati. Il “dialogo con Salvini” non interessa? A parte i toni estremistici di queste reazioni, da malattia infantile non da discernimento politico, resta la questione della cura d’anime. Nella Chiesa, che non è setta di militanti ed eletti, essa deve essere universale. Solo l’antico Sessantotto cattolico poteva pensare di escluderne i borghesi (allora si diceva: dalla comunione eucaristica).
In questa somma contraddittoria, penosa, di fattori, prevale dunque una strada “facilior” per l’influenza – legittima in sé da parte di Roma – sulle condotte morali e politiche: quella delle retoriche umanitarie, infine dell’eloquio demagogico. Come stupirsi che questi messaggi, talora declamati, sovente a mezza voce, sottraggano ovunque autorità e identità alla Chiesa?
4. La questione del partito cattolico non richiede, invece, troppo spazio, a mio avviso. Nella contemporaneità politica mondiale sono le maggioranze elettorali che fanno e disfano i partiti. Leader e minoranze attive operano al più come reagenti, in congiunture rade e impreviste (si pensi al caso di Bolzonaro, in Brasile). Inoltre, vi sono almeno tre livelli di significato della parola “cattolici” nel linguaggio storico-socio-politico che fluttuano e si avvicendano senza criteri rigorosi nel discorso pubblico:
a) i cattolici più comunemente indicati come tali, ancora oggi presenti nella politica italiana formale (parlamento, partiti e altri istituti e organi del sistema politico) e riconducibili alla matrice DC o alle organizzazioni di “azione cattolica”, con storico mandato gerarchico;
b) i cattolici individuati con queste termine perché appartenenti ad aggregazioni o istituzioni (parrocchie ad es.) della Chiesa e del “mondo cattolico” diverse da a);
c) i cattolici designati secondo l’accezione e l’estensione sia socioreligiosa sia pastorale come complesso dei comuni credenti, dei fedeli – di diversa intensità – attivi o non attivi politicamente, ma senza credenziali o tratti individuanti da “mondo cattolico”.
Noto che a+b costituisce quello che si chiama il “mondo cattolico”, spesso con la sovrapposizione di “mondo” e di “movimento”, ma, frequentemente, anche ciò che si chiama laicato cattolico democratico. Mentre a+b+c più i diversi cleri e la Chiesa ufficiale costituiscono l’intero, l’”ecclesiosfera”. secondo una proposta terminologica di Émile Poulat.
Curiosamente, dei comuni credenti cattolici, ossia delle maggioranze di praticanti o semi-praticanti che non appartengono alle filiere formative (salvo il catechismo) e prosociali e si orientano politicamente a modo loro, non si ha considerazione come “cattolici” in sede saggistica, giornalistica e storiografica. Da ciò tutti i possibili equivoci e illusioni, poiché, di fronte a questa maggioranza, solo una quota minoritaria di praticanti assidui, di “virtuosi” del sistema parrocchiale e prosociale, è sensibile alla politica per valori, nel solco delle tradizioni che dal Partito popolare arrivano alla Democrazia cristiana. Molti altri votano rigidamente, in quanto attratti da una politica per valori, a sinistra.
Una proposta di partito cattolico che miri ad una percentuale non risibile dovrebbe quindi rivolgersi anzitutto alla maggioranza dei credenti cattolici. E dovrebbe chiedersi seriamente perché questa area di comuni cittadini e comuni praticanti, approvi e voti prevalentemente politiche di centro-destra. Non risulta, fino ad oggi, che ciò che resta dell’area politica cattolica – cioè, all’incirca, dei “cattolici democratici” – si sia mai interrogata su questo dato. Chi lo fece negli anni Novanta scommise sulle forze intellettuali, morali ed elettorali aggregate attorno al Cavaliere; vi scommise come su un partito cattolico di tipo nuovo, anzitutto attento alle questioni sensibili. L’aggregato berlusconiano è dissolto, ma quella base elettorale resta ed è in larga parte quella di Salvini.
Che una minoranza di una minoranza residua delle eredità “democratiche” della DC pensi di fondare un partito cattolico sulla minoranza della minoranza di un elettorato, oggi probabilmente già disposto tra sinistre e Cinque stelle, mi pare anzitutto il frutto di una analisi politico-religiosa carente.
Non di ultima importanza, una considerazione: il partito cattolico è stata una geniale costruzione maggioritaria favorita da Chiesa e laicati cristiani in età liberale, di fronte e contro grandi partiti ideologici, alleati solo nell’anticlericalismo. Il suo compito storico – non senza dissenzienti – era confermare, nella modernità secolare, la cultura e le istituzioni sociali di una società a prevalenza cattolica e guidare democraticamente la nazione di conseguenza, favorendo, nel pluralismo, il ruolo di connettivo e guida morale della Chiesa. Compito difficile, messo alla prova, parzialmente realizzato, ora esaurito o non oltre realizzabile.
Per queste ragioni è da evitare la formula della “diaspora cattolica” dopo la DC. I grandi partiti cattolici sono, infatti, una creazione congiunturale, non l’espressione politica necessaria della “societas” dei credenti nei sistemi parlamentari. L’eventualità che le organizzazioni politiche e sindacali del movimento cattolico potessero, tra Otto e Novecento, divenire una rappresentazione partigiana della Chiesa produsse una tenace opposizione che nel suo fondo era dottrinale. Un partito è una parte, non lo è la Chiesa.
Oggi mancano alla Chiesa cattolica questi anticorpi. Il crogiolo delle “teologie politiche” liberazioniste – una radicale alterazione di ciò che nel dibattito teorico si intende per teologia politica – permette ad un pontefice di presentarsi come un capoparte universalistico (ben al di là delle modalità di un partito, anche di massa) in piena, disarmata, irrazionale, buona fede.