La fede di Alda Merini (a 10 anni dalla morte) e alcune sue poesie "religiose"


Lo stesso giorno di Natuzza Evolo moriva a 78 anni anche Alda Merini, tra le più grandi poetesse italiane. Nata a Milano il 21 marzo 1931, Alda Merini cominciò a comporre le prime liriche giovanissima, a 16 anni. Un'esistenza difficile la sua, segnata dal disagio fisico ed economico, in un ventennale entrare e uscire da ospedali psichiatrici, tra gli anni Sessanta e Settanta.


La prima raccolta di poesie di Alda Merini: 'La presenza di Orfeo', pubblicata nel 1953, ebbe subito un grande successo di critica. Il suo capolavoro e' pero' considerato 'La Terra Santa' che le e' valso, nel 1993, il Premio Librex-Guggenheim 'Eugenio Montale' per la Poesia.
Altre sue raccolte di versi sono 'Testamento', 'Vuoto d'amore', 'Ballate non pagate', 'Fiore di poesia 1951-1997', 'Superba e' la notte', 'L'anima innamorata, 'Corpo d'amore', 'Un incontro con Gesu'', 'Magnificat. Un incontro con Maria', 'La carne degli Angeli', 'Piu' bella della poesia e' stata la mia vita', 'Clinica dell'abbandono' e 'Folle, folle, folle d'amore per te. Poesie per giovani innamorati'.

Nella sua carriera artistica, Alda Merini si e' cimentata anche con la prosa in 'L'altra verita'. Diario di una diversa', 'Delirio amoroso', 'Il tormento delle figure', 'Le parole di Alda Merini', 'La pazza della porta accanto' (con il quale vinse il Premio Latina 1995 e fu finalista al Premio Rapallo 1996), 'La vita facile', 'Lettere a un racconto. Prose lunghe e brevi' e 'Il ladro Giuseppe. Racconti degli anni Sessanta' e con gli aforismi 'Aforismi e magie'.
Di lei restano liriche e frasi in cui Dio, la fede, l’amore sono i suoi interlocutori privilegiati.

Corpo d’amore

Dicono che le sorgenti d’amore siano le lacrime ma il pianto non è che un umile lavacro dei tuoi pensieri. (…) Tu sei un Dio materno e plurimo, un Dio che si disconosce e che si converte, un Dio buono come l’odio e la gelosia, un Dio umano che si è fatto croce, che si è fatto silenzio, un Dio che si converte in estasi ma che conosce il mistero della collera (…) 

A volte Dio

A volte Dio
uccide gli amanti
perchè non vuole
essere superato
in amore.


319px-Alda_Merini
Wikipedia/Giuliano Grittini/CC

Amore

Ti ho perso lungo i solchi della via,
o mio unico amore,
Dio di giacenza e di dubbio
Dio delle mitiche forze
Dio, Dio sempre Dio
che sei più forte degli amplessi
e dei teneri amori.
Che fai crescere le fontane,
che appari e dispari
come un luogotenente del destino.
Perderti è come perdere la speranza
ed io ti ho perduto
non una ma un milione di volte
e ritrovarti è come sorgere dall’eterno peccato
per vedere le falle della vita
ma anche le tue mobili stelle:
TU SEI UN DIO DI AMORE.

Angeli, il vostro occhio è cieco e vede tutto

Angeli,
il vostro occhio è cieco e vede tutto,
angeli,
il vostro occhio vede ed è cieco.
Angeli,
c’è una moltitudine di demoni
che vi perseguita
e c’è una moltitudine di angeli
che vi perseguita.
Tra queste lotte,
tra queste stagioni orrende
di sangue e di morte
di morte e di pace voi vivete,
UNICI GRANDI
STRATAGEMMI DI DIO.

La Terra Santa
Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da argenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.

Santi e poeti

Bisogna essere santi
per essere anche poeti:
dal grembo caldo d’ogni nostro gesto,
d’ogni nostra parola che sia sobria,
procederà la lirica perfetta
in modo necessaria ed istintivo (…)

Le frasi

«Tutti gli innamorati sono in Cristo»
«Domandano tutti come si fa a scrivere un libro: si va vicino a Dio e gli si dice: feconda la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami via dagli altri, rapiscimi».
«Se Dio mi assolve, lo fa sempre per insufficienza di prove».
«Non posso farmi santa perché ho sempre in mano l’arma del desiderio».

Questo è il testo di una intervista pubblicata su Jesus nel gennaio 2007:
Alda Merini non è una poetessa "cattolica" in senso confessionale, e della fede religiosa parla con grande pudore. Si descrive come una donna che nella sua vita ha molto sofferto. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la sofferenza mentale l’ha portata a lunghi ricoveri in ospedali psichiatrici, una condizione di disagio dalla quale è emersa solo più avanti, tornando alla scrittura. Che nel frattempo era diventata anche testimonianza di quel disagio.

  • Signora Merini, qual è il suo rapporto con la fede?
«Non ho un rapporto con la fede, ho un rapporto con la vita. Con una vita "larga", che tutto comprende e da cui nulla è escluso, gioia e dolore, nascita e morte, alba e lutto».

  • Dio non l’ha mai incontrato?
«Sì, l’ho incontrato in manicomio, un posto in sé terribile, ma in cui non ho mai perso la speranza. Forse non sono mai stata felice come in quegli anni di ricovero. Dovrei stare attenta a dirlo, perché se dico che mi trovavo bene al manicomio, va a finire che qualcuno potrebbe pensare di rinchiudermi di nuovo. Infatti potrebbe essere interpretata come un palese segnale di pazzia l’affermazione che al manicomio stavo bene...».


  • Ma come l’ha conosciuto Dio?
«Attraverso alcuni uomini. Ci sono persone che sono il rifugio dell’amore di Dio, un amore che sono capaci di trasmettere agli altri. Del cristianesimo amo la dimensione dell’incarnazione, che impedisce il rifugio evasivo nell’astrattezza e nell’astrazione. I veri credenti mi hanno aiutato a conoscere Dio».
  • Perché ha scritto questo Cantico dei Vangeli?
«È un’opera che si ricollega a un mio testo precedente, Tu sei Pietro, forse l’opera più bella che ho scritto. L’avevo composta per un debito di riconoscenza nei confronti di un medico che aveva fatto molto per me. Per un debito di riconoscenza e di amore».
  • Che cosa l’ha affascinata del Nuovo Testamento?
«L’elementarità, cioè l’universalità, di ciò che viene detto. Un tempo avevo un compagno che aveva avuto una vita difficile ed era anche stato in carcere. Quando il sabato e la domenica non lavorava, gli leggevo il Vangelo. Per lui quella fu un’importante esperienza di guarigione interiore».

Foto Grazianeri/G. Bruneau.Foto Grazianeri/G. Bruneau.

  • Come vede la Chiesa?
«Nella Chiesa cattolica ci sono cose che non mi piacciono, come un certo maschilismo dell’istituzione ecclesiastica e la condanna del piacere. Una cosa, quest’ultima, che sa un po’ di vecchia teologia, ma che purtroppo persiste ancora in quanto predicano alcuni sacerdoti, e lo fanno anche in buona fede. E mi sembra un po’ un tradimento del messaggio evangelico più autentico. Che cosa ha voluto fare Cristo, in realtà? Sollevare l’umanità dal suo stato di abiezione. Questo mi sembra l’aspetto centrale del cristianesimo, non altri orpelli sedimentatisi con il tempo. Ma ho molto amato un Papa come Giovanni Paolo II».

  • Che cosa le piaceva in particolare di Papa Wojtyla?
«Appena eletto Pontefice, ancora giovane, incarnava, anche nella sua presenza fisica, un nuovo modello di Chiesa, più moderna, aperta, vicina alla gente. Questo grazie all’immediatezza dei gesti, alla disponibilità umana che manifestava verso tutti. Poi è stato uno strenuo difensore della pace nel mondo. Ora che non c’è più mi manca molto. Pensi che negli ultimi tempi, quando era molto malato, spesso mi capitava di accendere il televisore per sapere come stava. Le notizie sulla sua salute mi sembravano quelle più importanti del telegiornale».
Foto Grazianeri/M. Valley.Foto Grazianeri/M. Valley.

  • Lo ha mai incontrato?
«No, non di persona; ma so che aveva letto e apprezzato il mio Magnificat. Mi fece mandare un rosario da lui benedetto, che conservo come un prezioso ricordo. Anche lui era un poeta, forse anche per questo amava e capiva la poesia».

  • Forse non sempre è scontata o evidente, ma certo c’è una relazione tra fede e poesia. Qual è, a suo giudizio?
«Quando alcuni miei testi di contenuto religioso sono stati rappresentati in pubblico, ho riempito chiese e teatri. Molti erano giovani, ma credo che non venissero tanto per me, quanto per Lui. Forse cercavano qualcuno che li guidasse. Perché la poesia è soltanto un tramite. Da sola la letteratura non salva nessuno. In Cristo c’è la Resurrezione, in noi la morte».
  • Mi spieghi meglio: vuol dire che la poesia, in sé, non è in grado di pronunciare parole di salvezza?
«Gesù dice che chi non è semplice come un bambino non può entrare nel Regno dei cieli. Ebbene – lo diceva anche Pascoli –, il vero poeta è sempre un po’ un fanciullo: sente ogni nuovo giorno come un dono del Cielo, si stupisce e rende grazie per il fatto di esserci e per il fatto che esiste, intorno a lui, una realtà magnifica. Ecco, nell’additare la semplicità della vita risiede la missione del poeta. E anche la sua utilità per il bene della vita delle persone. Forse è grazie alla poesia che nella mia vita, pur avendo molto sofferto, non sono mai stata disperata. Quando ho incontrato il dolore, anziché farmene annientare, ho deciso di cantarlo».
Foto Grazianeri/G. Bruneau.
Foto Grazianeri/G. Bruneau.
  • Ma come è possibile «cantare il dolore»?
costo di discostarmi un po’ da alcune affermazioni più ortodosse, direi che bisogna cominciare a essere felici sulla Terra, a volerlo con tutte le proprie forze, e a propiziare, sulla Terra, la felicità degli altri. Perché chi vive infelice, muore disperato».
  • Che bilancio traccerebbe della sua attività letteraria?
«Cosa vuole che le dica... Non mi sono mancati i lettori, gli apprezzamenti dei critici, i riconoscimenti di prestigiosi premi. Recentemente sono stati messi in musica dei miei testi, recitati e cantati nei teatri, con la collaborazione di bravissimi musicisti e interpreti. Anche questo è un altro segno di popolarità. Ma forse capire un’opera significa non musicarla, recitarla, dirla, bensì tacerla. Come lettrice di poesia, amo il corpo a corpo personale con il testo, vissuto nel silenzio di un incontro personale. Non capisco perché, affinché la gente apprezzi Dante, ci sia bisogno che un bravo attore debba andare a leggere la Divina Commedia in un teatro...».
  • Forse perché il pubblico cerca un incontro con l’autore anche attraverso la fisicità della parola e della performance...
«Sì, forse è proprio questo, perché l’uomo ha bisogno di prove, di vedere con i propri occhi e di toccare con mano».
Foto Grazianeri/G. Bruneau.
Foto Grazianeri/G. Bruneau.
  • Ha rimpianti?
«Direi di no, la mia vita è andata come doveva andare. A sedici anni entrai in un monastero di clausura, perché pensavo che quella fosse la mia vocazione. Fu la mia famiglia a insistere perché uscissi un anno dopo, affinché cercassi marito. Non so se sia stato un bene o un male. Di certo la vita contemplativa era una condizione verso cui sentivo una grande attrazione».
  • Qual è la sua speranza?
«Di morire in pace. La mia speranza nel futuro, invece, sono i miei figli e i miei nipoti».
  • Per tornare alla domanda iniziale, che forse è anche la più personale: Alda Merini crede in Dio?
«Credo in ciò che Dio mi ha dato, che è moltissimo: la vita, i sensi, e anche, per quello che può valere, la gloria letteraria. Qualcuno diceva: "Se considero tutte le cose che Dio mi ha dato, come posso sperare che mi darà anche il Paradiso?". Per questo ogni mattina quando mi sveglio sento il bisogno di pronunciare il mio grazie».
Roberto Carnero
Segnalo infine un articolo di Avvenire di ieri: "L'ultima poesia di Alda Merini":
Dieci anni fa moriva la grande poetessa, poco dopo aver incontrato il padre cappuccino Gianluigi Pasquale che oggi ricorda quei momenti estremi di consapevolezza.
 «O morte, che tutti credono ributtante e infelice, tu sei una vergine leggiadra che mi scioglierà da questo letame, la donna che consegnerà il mio calvario al Signore» ( Francesco: canto di una creatura, Frassinelli 2007). Non avevo, sinceramente, in mente il frammento di questa poesia uscita dalla penna di Alda Merini domenica 1° novembre 2009 quando la poetessa lasciò questa terra. Volendomi, Alda, al capezzale del suo letto come un frate francescano qual sono. Lei che, alla pari del “pazzo di Dio” come fu considerato il Poverello di Assisi, gli aveva dedicato pagine intere di poesie. Ma non poteva essere diversamente. Alda, considerata folle dai sapienti di questo mondo, attraverso una sofferenza che nessuno potrà mai esaustivamente descrivere, aveva capito che «ciò che l’uomo trova inutile, le cose più piccole, i più insignificanti silenzi, Dio li trova estremamente preziosi». Su quel letto dell’ospedale San Paolo a Milano, dove Alda volle ricevere proprio da me l’ultima benedizione e sussurrarmi le righe di una poesia che non ho ancora voluto trascrivere, l’affascinante donna dagli occhi verdi ha consegnato per davvero il suo calvario al Signore.

Come tutti i poeti, Alda dava voce a quell’amore di cui non si osa dire il nome perché sapeva che nessuna cosa riavvicina là dove la Parola manca. E Alda dominava la Parola: per questo non ci si può staccare da Lei. Intelligente come pochi, aveva compreso che si imprimono indelebilmente le proprie impronte nella storia con il passo della sofferenza: alla pari di Francesco, morto nudo sulla nuda terra vicino alla chiesetta della Porziuncola in Assisi, del cappuccino Pio da Pietrelcina, entrambi stigmatizzati, di santa Teresa di Calcutta e di san Giovanni Paolo II, a loro modo saliti «sulla croce del Figlio del falegname».

All’indomani di quell’ultimo saluto benedicente che diedi ad Alda il giorno di Ognissanti di esattamente dieci anni or sono, tra le tante testimonianze che ricevetti, ve ne fu una che segna ancora oggi la mia memoria. E che non posso assolutamente dimenticare. Fu una telefonata di un mio giovane confratello di Bari, pure lui ammiratore di colei che nacque, nel 1931, «il 21 a primavera»: addolorati alla notizia della morte, la stessa sera di quel 1° novembre tutti i frati del convento di Santa Fara in Bari si riunirono, dopo cena, nella stanza “del caminetto” e si rac- colsero in preghiera. Posso soltanto immaginare il silenzio e la commozione. Nel guardare il fuoco che riscalda le notti di novembre, i frati non recitarono, tuttavia, preghiere cristiane qualsiasi, ma lessero le poesie che Alda aveva scritto pensando al nostro fondatore, san Francesco d’Assisi. Quei giovani frati, successori del Poverello, avevano fatto – pensai – la scelta giusta. Avevano, infatti, intravisto come Alda – con il suo amore, il suo respiro universale, il suo animo scevro da ogni confine o distinzione – fosse riuscita a trasportare nel XX secolo ciò che Francesco d’Assisi aveva assaporato otto secoli prima: un’autentica e fol- le “cotta” per Dio.

A tal punto da non avere paura di nulla – proprio come Alda – nemmeno della morte, quando, nell’ultimo giorno della sua esistenza terrena, Alda si fece mettere lo smalto rosso sulle unghie delle mani prima di confidarsi con me. Prima di dirmi i suoi ultimi versi. Fu allora, però, che mi rammentai chiaramente di un frammento della serie di poesie scritte da Alda su Francesco d’Assisi e che, per me, costituisce l’anello tra i due: il coraggio di chiamare “sorella” l’angelo della nostra morte: «Ora sono un guerriero che corre senza cavallo, coi miei piedi sudati e stanchi verso il traguardo di Dio. E sogno la morte angelica, una sorella dai mille volti». Ma mi sovvenne anche un desiderio che mia mamma Giovanna mi ha lasciato in eredità quando giungerà per lei la sua ultima ora: «Una sola rosa rossa ci dovrà essere in chiesa», l’unico colore capace di indicare l’Amore spesosi per gli altri, per l’Altro, il colore della rosa, ma anche il colore dello smalto.

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