La Consulta apre la strada al suicidio assistito
“La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.Pone quindi delle condizioni, ma apre la strada al suicidio assistito insistendo sulla necessità che il Parlamento legiferi in materia, ma anche già dando indicazioni sul tipo di legge che la Consulta si attende.
Esultano coloro che da anni invocano la possibilità dell'eutanasia (la Cirinnà e i radicali in prima fila), esprime sconcerto la CEI e la Chiesa in generale. Così su Avvenire:
“Si può e si deve respingere la tentazione - indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”.Sullo stesso giornale vedi l'intervista a Mauro Ronco, penalista a capo del 'Centro studi Livatino', che parla di "sentenza aberrante" e il commento del direttore: "Chiamati all’umanità. Confusioni da evitare, lavoro da fare":
I Vescovi italiani si ritrovano unanimi nel rilanciare queste parole di Papa Francesco. In questa luce esprimono il loro sconcerto e la loro distanza da quanto comunicato dalla Corte Costituzionale.
La preoccupazione maggiore è relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità.
I Vescovi confermano e rilanciano l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati.
Si attendono che il passaggio parlamentare riconosca nel massimo grado possibile tali valori, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta.
Ecco infine alcuni argomenti usati a favore dell'eutanasia. E le obiezioni che li fanno cadere.La prima lei, una ragazza di 10 anni, che stava per lanciarsi nel vuoto, è stata salvata da due poliziotte fuori servizio. La seconda lei, una donna di 52 anni che cercava di uccidersi nel Tevere, è stata salvata da un carabiniere che nelle sue ore libere si stava allenando su quel fiume con la canoa. Sono due fatti di straordinaria sofferenza e di ordinaria umanità che ci sono state consegnati ieri dalla cronaca, a Roma, proprio mentre la Corte costituzionale stava per sancire, con una sua sentenza che in tanti speravamo di non dover mai commentare, l’apertura condizionata al «suicidio assistito».Cioè al suicidio agevolato – in determinate situazioni personali della persone richiedente – dalla cooperazione attiva di altri. Cioè al suicidio equiparato di fatto, sia pure in casi estremi, a una prestazione sanitaria che si può richiedere e ottenere da parte del Servizio sanitario nazionale. Due capovolgimenti limitati eppure radicali, che “fan tremare le vene e i polsi”. Una pietà che si fa mortale. Una medicina che si rende deliberatamente letale.C’è da aver paura delle semplificazioni ora, e delle confusioni. E ci sarà da combatterle. Continuo ad augurarmi perciò che, se non tutti, almeno tantissimi possano rendersi conto – come mi ha confidato ieri mattina un saggio amico – della «distanza enorme» che pure c’è tra lo sterminio pianificato degli “imperfetti”, la resa della legge alla morte come rimedio al male di vivere e al viver male e l’aiuto a un malato inguaribile che pretende ostinatamente e disperatamente di morire anzitempo.Spero cioè che ci resti chiaro che in quella «distanza enorme» ci sono tutte le diverse gradazioni della speranza, della disperanza, del dolore e persino dell’amore. Spero che conserviamo intatta la consapevolezza del rischio che si corre a fondere e confondere nella testa della gente e, in special modo, dei più fragili la morte programmata e procurata di coloro che vengono descritti sistematicamente come protagonisti di “vite indegne” (e costose da curare per i sistemi di welfare delle nostre indebitate società del benessere), la possibile morte a richiesta dei malati di depressione (ai quali, sia chiaro, questa sentenza italiana non assicura il suicidio di Stato come purtroppo accade in altri Paesi d’Europa) e la determinazione personale a farla finita di un tetraplegico cieco come era Dj Fabo. E spero ancor che possiamo “sentire” con cristiana partecipazione e civile empatia che in quella «enorme distanza» – come mi ha suggerito lo stesso saggio amico – c’è «l’umanità, il senso del sacro, l’amore per il ragionamento e l’ascolto dell’altro».Ma le speranze si venano d’amaro e persino d’indignazione davanti ai coretti entusiasti subito intonati e alle liste di aspiranti suicidi prontamente sciorinate dai propagandisti della morte a comando. Se «laica libertà» fosse questo spettacolo e un vagheggiato futuro di morte erogata senza condizioni, povera la nostra libertà e poverissima la nostra laicità.Non aiutano, però, neppure i contro-cori di quelli che pensano che non ci sia niente più da fare, se non sbattere la porta davanti a uno Stato ormai arreso alla “cultura della morte”. Non è così, non deve essere così. E c’è tutto da fare, da uomini e donne di coscienza, credenti e non credenti, dentro la società e dentro la nostra legalità perché le condizioni della vita e quelle poste a difesa della vita siano più forti delle condizioni di morte e per la morte. Perché terminare non faccia rima con curare, e guarire con morire. Perché il dolore non diventi mai rancore. Perché obiettare significhi restare. Restare umani.
La libertà
«Bisogna lasciar liberi di scegliere quando e come morire». È l’argomento più ricorrente, ma non si può considerare la decisione di farla finita come una scelta di vera libertà, quando invece è dettata da dolore, paura, solitudine, depressione, condizionamenti.
La scelta
«A volte chi soffre non ce la fa più, deve poter morire». La sofferenza fisica e psicologica può diventare insopportabile, tanto che si vorrebbe solo morire. La vera soluzione a questi casi però non è la morte ma cure, assistenza, solidarietà.
Lo Stato
«Lo Stato deve garantire cure adeguate ma anche la morte per chi non resiste». Questa tesi suppone che davanti alla sofferenza di un suo cittadino lo Stati resti neutrale, considerando vita e morte sullo stesso piano.
I diritti
«È umiliante dover andare in Svizzera per morire». La Costituzione italiana già garantisce il diritto di rifiutare le cure (articolo 32), la legge 38 assicura il diritto alle cure palliative, la legge 219 apre alla sedazione palliativa profonda. Davvero serve altro?