XXIV domenica del tempo ordinario: le parabole della misericordia (15 settembre)
Nel mio libro "Il Vangelo dell'amore" scrivevo:
Perché Gesù “accoglie i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2)? Gesù risponde a questa accusa, che gli viene rivolta dai farisei e dagli scribi, attraverso tre parabole in cui evidenzia la gioia di ritrovare ciò che si era perduto. Sottointese sono una serie di domande sulla natura e l’agire di Dio:
il nostro Dio, è un Dio solo dei giusti o anche dei peccatori? Dio attende che i peccatori si convertano e facciano ritorno a lui, oppure va lui stesso a cercarli, nella situazione di peccato in cui si trovano? Il perdono che Dio concede al peccatore richiede la volontà e il cammino della conversione oppure è anteriore alla stessa conversione? E soprattutto, l’amore di Dio va meritato o è amore gratuito che vuole raggiungere tutti?[1]
Se le risposte possono oggi apparire almeno teoricamente scontate è anche grazie a questi stupendi racconti che Gesù ci ha trasmesso per rivelarci come agisce Dio. Li troviamo nel capitolo 15 del Vangelo lucano che presenta queste tre parabole dette “della misericordia” e che hanno molti elementi comuni: nella prima c’è un pastore che ha perso una pecora e lascia le altre novantanove per andarla a cercare; nella seconda c’è una donna che ha perso una delle dieci monete che costituisce il suo “tesoretto” e non si dà pace finché non l’ha ritrovata; nell’ultima – la più celebre ed elaborata - c’è un padre che vede partire il figlio minore, fuggito con la sua parte di eredità, ma continua a sperare nel suo ritorno. Tre perdite che hanno in comune la gioia e la festa per il ritrovamento di ciò che si era smarrito.
Qual è allora il messaggio che Gesù vuole dare a chi lo accusa di accogliere i peccatori? É che chi ama veramente qualcosa (e ancor più qualcuno) soffre per la perdita di ciò che ama, desidera e si impegna a ritrovarla, fa festa e condivide con gli altri la gioia di averla ritrovata. Dio ci ama e per questo soffre se ci smarriamo, ed è nella gioia se ci ritrova. Dio non è un giudice inclemente, ma un padre misericordioso che ci ama in modo esagerato.
Per gli ebrei l’uomo peccatore è indegno di avvicinarsi al Signore, ma se il peccatore non si può avvicinarsi al Signore - l’unico che può toglierlo da questa condizione di peccato - cosa può fare? Niente: è condannato e non ha speranze. Può solo continuare a vivere nel peccato e cercare di godersi la vita prima che la sua condanna venga eseguita.
Gesù è come se rispondesse: “Questo non è vero, Dio ti ama e desidera il tuo bene, non la tua condanna. Mi ha mandato proprio per fartelo sapere, per guarirti, per purificarti. Accoglimi e lascia che io ti guarisca e ti purifichi. Non sei tu che devi purificarti per accogliere me, ma sono io che, accogliendomi, ti purifico”. Non solo, ma io “vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (v.7).
Gesù rifiuta il peccato, ma ama il peccatore, spera che si converta, e agisce perché ciò possa avvenire. E in effetti i peccatori e i pubblicani si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo e riescono a convertirsi, mentre i giusti che si reputano puri e santi, criticano e accusano Gesù, non lo capiscono e lo rifiutano. Questi pensano di meritare l’amore di Dio, ma l’amore di Dio è gratuito: non si può meritarlo, si può solo accoglierlo.
Questo amore – rivela l’Apostolo Paolo in uno dei testi più vertiginosi nella sua profondità – è un amore che Dio prova per l’uomo mentre l’uomo è peccatore, mentre è suo nemico, mentre lo nega e lo bestemmia (cfr. Rm 5,6-11). É un amore folle o una follia d’amore, potremmo dire; è un amore che non possiamo nutrire in noi stessi; è un amore scandaloso, infatti l’unico nome che merita è croce (“lo scandalo della croce”: Gal 5,11). Dio dà se stesso, il Figlio, al mondo, perché ama il mondo nel medesimo momento in cui il mondo odia Dio fino a rifiutare il Figlio e metterlo in croce[2].
Le
parabole della pecora e della moneta smarrita
(Lc 15,1-10)
Il pastore e un donna, un maschio
e una femmina, un modo per dire la totalità, per indicare che in Dio avviene
sempre così.
La parabola del pastore ci ricorda
che l’agire di Dio non si basa sui numeri, sulle statistiche: la priorità di
Dio è l’amore per chi ne ha bisogno, per chi è in pericolo. Allora uno diventa
più importante di novantanove perché se c’è qualcuno in difficoltà, lo vai ad
aiutare senza fare troppi calcoli.
Gesù, buon pastore, va in cerca della
pecora che si è persa e, quando la trova, se la mette sulle spalle – grande
scena di tenerezza – e non torna subito dalle novantanove, ma continua a
lasciarle sole per andare invece a casa a chiamare tutti a fare festa per
quest’unica pecora che è stata ritrovata. Quando Dio ci ritrova e ci perdona, è
come se esistessimo solo noi per lui, e allora fa festa: è tanta la gioia di averci ritrovati,
di averci potuto perdonare che tutto il resto per Dio non conta; in questo
momento contiamo solo noi!
La stessa dinamica si ripete nell’altra
piccola parabola: una donna perde una moneta – l’equivalente della paga quotidiana
di un operaio – delle dieci che possiede. Quando la ritrova, allora ecco di
nuovo la festa, la gioia. Non si accontenta dicendo: me ne restano nove! Questa
donna - cioè Dio! - butta all'aria tutta la casa, cerca in tutte le direzioni,
fatica senza risparmiarsi finché non ritrova la moneta perduta: e la moneta è
l'uomo, sei tu!