IV domenica di Quaresima: "Bisognava far festa"
Da "Il Vangelo dell'amore" di p. Stefano Liberti (2017)
LE
PARABOLE DELLA MISERICORDIA (Lc 15)
Perché Gesù “accoglie
i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2)? Gesù risponde a questa accusa,
che gli viene rivolta dai farisei e dagli scribi, attraverso tre parabole in
cui evidenzia la gioia di ritrovare ciò che si era perduto. Sottointese sono
una serie di domande sulla natura e l’agire di Dio:
il nostro Dio, è un Dio solo dei giusti o anche dei
peccatori? Dio attende che i peccatori si convertano e facciano ritorno a lui,
oppure va lui stesso a cercarli, nella situazione di peccato in cui si trovano?
Il perdono che Dio concede al peccatore richiede la volontà e il cammino della
conversione oppure è anteriore alla stessa conversione? E soprattutto, l’amore
di Dio va meritato o è amore gratuito che vuole raggiungere tutti?[1]
Se le risposte possono oggi apparire almeno
teoricamente scontate è anche grazie a questi stupendi racconti che Gesù ci ha
trasmesso per rivelarci come agisce Dio. Li troviamo nel capitolo 15 del Vangelo
lucano che presenta queste tre parabole dette “della misericordia” e che hanno
molti elementi comuni: nella prima c’è un pastore che ha perso una pecora e
lascia le altre novantanove per andarla a
cercare; nella seconda c’è una donna che ha perso una delle dieci monete
che costituisce il suo “tesoretto” e non si dà pace finché non l’ha ritrovata; nell’ultima
– la più celebre ed elaborata - c’è un padre che vede partire il figlio minore,
fuggito con la sua parte di eredità, ma continua a sperare nel suo ritorno. Tre
perdite che hanno in comune la gioia e la festa per il ritrovamento di ciò che
si era smarrito.
Qual è allora il messaggio che Gesù vuole dare a chi
lo accusa di accogliere i peccatori? É che chi ama veramente qualcosa (e ancor
più qualcuno) soffre per la perdita di ciò che ama, desidera e si impegna a
ritrovarla, fa festa e condivide con gli altri la gioia di averla ritrovata. Dio
ci ama e per questo soffre se ci smarriamo, ed è nella gioia se ci ritrova. Dio
non è un giudice inclemente, ma un padre misericordioso che ci ama in modo
esagerato.
Per
gli ebrei l’uomo peccatore è indegno di avvicinarsi al Signore, ma se il
peccatore non si può avvicinarsi al Signore - l’unico che può toglierlo da
questa condizione di peccato - cosa può fare? Niente: è condannato e non ha
speranze. Può solo continuare a vivere nel peccato e cercare di godersi la vita
prima che la sua condanna venga eseguita.
Gesù
è come se rispondesse: “Questo non è vero, Dio ti ama e desidera il tuo bene,
non la tua condanna. Mi ha mandato proprio per fartelo sapere, per guarirti, per
purificarti. Accoglimi e lascia che io ti guarisca e ti purifichi. Non sei tu
che devi purificarti per accogliere me, ma sono io che, accogliendomi, ti
purifico”. Non solo, ma io “vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un
peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di
conversione” (v.7).
Gesù rifiuta il peccato, ma ama il
peccatore, spera che si converta, e agisce perché ciò possa avvenire. E in
effetti i peccatori e i pubblicani si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo e
riescono a convertirsi, mentre i giusti che si reputano puri e santi, criticano
e accusano Gesù, non lo capiscono e lo rifiutano. Questi pensano di meritare
l’amore di Dio, ma l’amore di Dio è gratuito: non si può meritarlo, si
può solo accoglierlo.
Questo amore – rivela l’Apostolo Paolo in uno dei
testi più vertiginosi nella sua profondità – è un amore che Dio prova per
l’uomo mentre l’uomo è peccatore, mentre è suo nemico, mentre lo nega e lo
bestemmia (cfr. Rm 5,6-11). É un amore folle o una follia d’amore, potremmo
dire; è un amore che non possiamo nutrire in noi stessi; è un amore scandaloso,
infatti l’unico nome che merita è croce (“lo scandalo della croce”: Gal 5,11).
Dio dà se stesso, il Figlio, al mondo, perché ama il mondo nel medesimo momento
in cui il mondo odia Dio fino a rifiutare il Figlio e metterlo in croce[2].
La
parabola del Padre buono e dei suoi due figli
(Lc 15,11-32)
Ora è un padre che perde un figlio
fuggitivo e lo perde sentendosi considerato da lui come morto, pur di avere la
sua parte di eredità. Così facendo egli esprime la volontà di dare un taglio
radicale ai legami con il padre: l’unica cosa che vuole da lui è il denaro, non
l’insegnamento, non la sapienza, non l’aiutarlo a crescere, non l’affetto... É
come se gli dicesse: “Tu non mi servi più, per me sei come morto! Allora dammi
quello che, da morto, serve a me per vivere!”. Il Padre (Dio) lo lascia
scappare, Dio ci lascia peccare... perché l'Amore non può costringere! “L'Amore
può soltanto amare, cioè soffrire e attendere, chiamare e attirare e aprire le
braccia”[3].
Non c’è una figura femminile in
questa storia, però non è difficile scorgere dietro al volto di questo padre,
anche il volto e la tenerezza di una madre[4].
É facile leggere dietro la fuga del
figlio minore la situazione di tanti
adolescenti che si allontanano da Dio – con cui avevano una relazione infantile
imposta dai genitori – in nome di una pretesa libertà. Spesso essi fanno come
il figlio minore che:
Inebriato
dalla libertà di cui crede ormai di godere, si getta nei “paradisi artificiali”
del divertimento, dell’alcol e del sesso, e dimentica
il padre!
Ma il padre non si
dimentica di lui.
Anzi, il padre non ha mai pensato tanto intensamente al figlio come dal giorno
in cui è partito. Egli attende il suo ritorno con ansia, lo spera con tutta
l’anima, lo desidera, lo invoca giorno e notte. Non è difficile immaginare
questo padre: ogni mattina, il primo pensiero è per il figlio lontano (Dove sarà? Povero ragazzo, così solo, così
impulsivo, lo uccideranno! Tornerà mai a casa?); e ogni sera, fino a tarda
ora, in attesa, con angoscia nel cuore. E il vangelo ce lo mostra questo padre,
mentre scorge il figlio “quando questi
era ancora lontano” (v.20). Quel giorno egli stava là sulla porta della
casa ad attendere il figlio, con la speranza di vederlo apparire in lontananza;
quel giorno come sicuramente tutti i giorni precedenti, per mesi e per anni;
un’attesa silenziosa, lunga, sofferta; un desiderio più forte della morte, che
continuava a sperare contro ogni speranza. In quell’attesa del padre, c’è
l’attesa di Dio, il suo sguardo colmo di affetto verso ogni peccatore, perché
ritorni a lui; c’è la sua tenerezza indistruttibile verso ciascuno di noi,
perché sappiamo tornare a casa ogni volta che ce ne fossimo allontanati. Egli
non cessa mai di amarci. Non ci condanna; vuole solo che ci riconosciamo suoi
figli e viviamo felici il nostro essere figli[5].
Prima
di arrivare a questo incontro commovente, il figlio minore viene descritto in
quella spirale di depravazione che lo priva di ogni dignità. Spende tutto pensando
che la vita sia uno sballo e che gli amici e l’amore si possano comprare. Arriverà
a fare il guardiano di porci, cosa che
per un israelita è proibita essendo questi animali impuri. Mostra così di aver dovuto
rinunciare anche all’eredità del proprio popolo rompendo definitivamente con la
sua famiglia e per altro inutilmente, perché questo lavoro comunque non gli
consente di sopravvivere: si ritrova infatti a guardare con invidia a questi
animali, perché loro almeno mangiano le carrube e lui non ha neppure quelle.
Questa è l’abiezione a cui lo ha portato il rifiuto del padre come datore di
vita. E allora, una volta che il ragazzo ha toccato il fondo, “ritornò in sé” (v.17) e decide di
tornare a casa, perché lì persino i servi stanno meglio di lui. Torna dal padre non perché pentito, ne
tantomeno perché mosso dall’amore per lui, ma solo perché lì stava meglio.
Questo figlio continua ancora a lasciarsi guidare dall’interesse e soprattutto
continua ancora a non capire chi è il padre perché un padre non può trattare un
figlio come un servo. Nonostante tutto, Dio si accontenta anche di questo! Ed è
proprio
questa
tenerezza misericordiosa che rivela tutta la profondità del peccato del figlio,
che aveva cessato di vedere nel padre colui che l’amava veramente, rifiutandosi
di lasciarsi amare, e questo era stato il suo peccato. Il peccato è sempre una
negazione di amore, un fuggire dall’amore di Dio Padre per voler far da sé[6].
Allora
“ritornò in sé”. Dà l’idea di una
ritrovata interiorità: dopo aver vissuto solo in maniera esteriore,
superficiale, la disperazione lo porta a riflettere sulla sua vita, a farsi
delle domande importanti, a chiedersi cosa veramente cercava di ottenere e
perché non l’ha ottenuto.
Luca ha qui l'occasione di illustrarci tutta la
dinamica della conversione, per quanto ancora immatura, scandita da tre
momenti:
a)
ritornare in sé è il primo passo: rendersi conto della propria situazione. É
necessario per questo fare silenzio dentro di sé e attorno a sé: dal frastuono
esteriore e dalle distrazioni riscoprire la propria interiorità.
b)
"mi alzerò e andrò da mio padre".
Bisogna maturare la decisione di un radicale cambiamento.
c)
"Si alzò e tornò da suo padre".
É necessario che quanto maturato interiormente sia anche attuato. Quell’alzarsi
(lo stesso verbo della resurrezione) dice l'attuazione del piano di
conversione; mentre il “tornare da" indica un nuovo orientamento di vita
che il giovane ha dato a se stesso.
“Era ancora lontano”: il processo di
conversione, o meglio di maturazione interiore verso il padre, era ancora
lontano dall'essere compiuto, era dettato solo dal bisogno. Ma a Dio non
interessa che l'uomo sia pienamente convertito, né gli importa sentire parole
di conversione. Per Dio è importante cogliere nell'uomo almeno un accenno di
pentimento, al resto pensa lui. Non è l'uomo, infatti, che si salva con il suo
pentimento, ma è Dio che compie la sua salvezza. L'importante è che l'uomo si
renda disponibile. Basta poco!
Ora l’attenzione della narrazione
si concentra tutta sul padre e non più sul figlio. Il padre – si dice – lo vede
da lontano. Questo vuol dire che non ha mai rinunciato ad aspettare il ritorno
del figlio. Commosso, gli corre incontro così che non debba neppure fare tutta
la strada, perché tutta la strada per andare incontro al padre può essere
penosa e umiliante.
Questo padre, senza parole, prima
ancora che il figlio parli, gli dice: io ti voglio bene; tu per me sei figlio e
“gli si gettò al collo” (v. 20). Non
per strozzarlo, non per rinfacciargli le scelte fatte o per come lo aveva fatto
penare, ma per abbracciarlo e baciarlo.
Cinque
verbi descrivono tutta la dinamica del grande amore di questo padre: "lo vide, ebbe compassione, gli corse
incontro, gli si gettò al collo e lo baciò". É l'esplosione di un
amore incontenibile che, finalmente, può esprimersi nella sua pienezza.
“Gli corse incontro”: nel mondo orientale
non esiste la fretta, tutto è molto più calmo, tranquillo. Sono poveri, ma molto
ricchi di tempo. Non si corre mai: il correre è considerato un atto di cattiva
educazione e una persona adulta - come qui il padre - che corre per raggiungere
una persona di grado inferiore, compie un gesto disonorante. Dio Padre non
esita a disonorarsi pur di onorare il figlio.
Gli impedisce inoltre di completare
la frase che il figlio aveva preparato per farsi riaccettare: può dire “Padre, ho peccato verso il cielo e davanti a
te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (v.21), ma senza
arrivare a ripetere: “trattami come uno
dei tuoi salariati”. Il padre risponde donandogli ciò che solo un figlio
può ricevere: il vestito bello; l’anello con lo stemma di famiglia e il sigillo
che serviva per i documenti, che lo reintegra totalmente come figlio e poi i
calzari ai piedi, che portavano i figli e non i servi, perché i servi andavano
a piedi nudi. Sono tutti gesti che esprimono il desiderio del padre di riconoscerlo
come figlio, nella piena dignità di figlio. E ordina ai servi di preparare il
vitello grasso per fare festa.
A questo punto appare in scena il
figlio maggiore: anche lui è un figlio mancato che non ha capito la vera
identità del padre. Per
il figlio minore il padre è un concorrente ("devo andarmene di casa per realizzarmi");
per il figlio maggiore egli è un despota ("mi tocca lavorare tutta la vita
facendo il bravo ragazzo senza una piccola soddisfazione"). Il figlio
maggiore è il figlio perbene, proprio come i
farisei e gli scribi che si sentono puri e non capiscono perché Gesù si
contamini con i peccatori. É un figlio mancato che ha vissuto un’obbedienza
servile, senza libertà, senza gioia. Un figlio mancato è, di conseguenza, un
fratello mancato, incapace di gioire per il ritorno del fratello che definisce
“tuo figlio” (così come avviene spesso tra i genitori che scaricano sull’altro
i difetti o le marachelle del loro figlio). É il fratello che ora fa emergere
tutto il suo risentimento perché è possibile stare col Padre senza comprendere
chi veramente sia, puoi lavorare con lui senza gioirne, puoi lasciare che la
tua fede diventi ossequio rispettoso senza che ti faccia esplodere il cuore di
gioia. Quante volte anche noi, nei confronti di fratelli che hanno sbagliato,
ma a volte ritornano, rischiamo di essere ben poco accoglienti e festosi:
non
disposti ad accoglierli al banchetto festoso dell’eucaristia. Si sentono dire
che hanno sbagliato gravemente, hanno rotto l’alleanza, hanno fatto storie di
vita e di amore che contraddicevano la Legge e la volontà di Dio, perciò devono
pagarla. Possono ritornare a casa, entrare in casa ed essere nuovamente figli
nella casa del Padre, ma senza partecipare alla tavola, senza fare festa in un
banchetto. Quelli che sono sempre rimasti a casa, che hanno cercato di essere
irreprensibili, fedeli ad ogni comando e precetto, non possono tollerare la
festa, il banchetto in onore di chi era perduto e ha fatto ritorno! Non gli
basta che gli altri facciano un cammino di pentimento, che chiedano perdono, né
che siano sottoposti a umilianti rituali per essere riammessi: vogliono che
regni la giustizia come loro la immaginano… Non sanno pensare a Dio come a
colui che “chiude gli occhi sui peccati
degli uomini” (cfr. Sap 11,23), che “è
buono verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35), né immaginano suo Figlio
come colui che è venuto per i malati, non per i sani, per i peccatori, non per
i giusti[7].
Il
padre esce a pregare lo stizzito fratello maggiore, tenta di spiegargli le sue
buone ragioni, di coinvolgerlo nella gioia.
La
persona umana può sprecare la sua vita in due modi, dice in sostanza la
parabola:
-
uno
consiste nel fuggire Dio, sottraendosi alla responsabilità dell’essere figlio,
non riconoscendo l’amore di Dio e distruggendo la parte più nobile della
propria natura; questo è male, e la persona deve pentirsi di una simile
condotta e cambiare vita per essere nuovamente accolta nella casa del Signore;
-
l’altro
modo è quello di coloro che non sanno apprezzare il dono di essere figli e
rimangono a casa senza gioia, senza mai sentirsi felici in niente, anzi
coltivando uno spirito di rivendicazione per un capretto mai avuto; anche
questo modo è sbagliato, anche loro commettono una colpa, poiché non sanno amare,
e il loro spirito spiace al Signore.
É
questo il lieto annunzio di Gesù: un Dio di bontà, un Dio di letizia, che vuole
la felicità dei suoi figli: vuole che tornino a lui, quando se ne fossero
allontanati, e vuole che rimangano nella sua casa in armonia ed entusiasti (…)
capaci di tenerezza l’uno per l’altro e verso la vita. Non più spirito di
rivalsa o di rivalità, ma di rispetto e di fraternità sincera, amante e
perdonante[8].
[1] E. Bianchi, Raccontare
l’amore, p.61
[2] Idem, p.62-63
[3] A. Comastri, Lettera
pastorale (Quaresima 2002)
[4] E’ quanto ha voluto mostrare Rembrandt nel celebre
quadro “Ritorno del figliol prodigo”
(1668) dipingendo le due mani del Padre misericordioso
differenti: una maschile che sostiene il figlio ed una femminile che accarezza
teneramente le spalle del figlio ritrovato.
[5] C. Rocchetta, Teologia
della tenerezza, pp.226-227. Corsivi nell’originale.
[6] Idem
[7] E. Bianchi,
Raccontare l’amore, p.105-106.
[8] C. Rocchetta, Teologia
della tenerezza, pp.226-227, p.230