Ravasi: gli ultimi articoli pubblicati (e altro ancora)
"Il gran coraggio di fare il parroco" (Il Sole 24ore, 17 marzo 2019)
In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi analizza una serie di ritratti di vita standard di sacerdoti e monaci per definirne pregi e virtù, ma anche ombre e difficoltà.«Uno dei principali responsabili, forse il solo responsabile, dell’avvilimento delle anime è il sacerdote mediocre». Questo monito usciva dalla penna di uno scrittore che ha composto uno dei più acuti e drammatici ritratti sacerdotali. È Georges Bernanos che nel 1936 pubblicava quel capolavoro che è il Diario di un curato di campagna, divenuto anche uno straordinario film di Bresson (1950). Il protagonista, come è noto, non è un atleta della fede e della virtù: timido, maldestro, malato di cancro, con una tara ereditaria. Eppure in lui lo spirito di Dio è epifanico, anzi diafanico perché è trasmesso dalla sua carità, da una interiorità umile e sofferta, da una preghiera trasfigurante, da una vicinanza assoluta all’umanità sofferente e peccatrice.
Morirà come il Cristo agonizzante, spogliato, sporco di sangue, senza il conforto di Dio, assistito solo da un ex-prete e dalla sua compagna e sarà proprio lo spretato, che ha in sé ancora e per sempre il carattere sacerdotale, ad assolverlo nella confessione, prima che pronunci, spirando le sue ultime parole: «Che importa? Tutto è grazia». Sia pure a distanza siderale da quest’opera, si è registrato sempre il tentativo di scavare nell’intimità profonda del prete cattolico, soprattutto in questo periodo in cui si è sollevato il manto ipocrita di cui alcuni di loro si rivestivano, divenendo sepolcri imbiancati sotto le cui lastre marmoree si celano vermi e putridume, secondo la ben nota immagine evangelica.In verità, la vulgata mediatica ha ormai, al riguardo, coniato un canone accusatorio globale che ignora le percentuali (ben più basse di quanto si supponga) e i diritti di tutela fino alla condanna certa. Sta di fatto, però, che il crimine di «questi scelerati preti» (l’espressione era nei Ricordi del Guicciardini ma riguardava un altro vizio bollato spesso da papa Francesco, la smania del potere clericale) è ben più grave proprio per la loro identità. L’esame severo è, perciò, più che giustificato, come è stato voluto dagli ultimi due pontefici. Impietosa ed esagerata ma con una sua parziale e terribile verità è l’affermazione che un celebre contemporaneo di Guicciardini, Machiavelli, emetteva nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio: «Abbiamo con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo: di essere diventati senza religione e cattivi».Era l’anticipazione dell’assioma di Bernanos sul prete mediocre o, peggio, perverso, causa di scandalo e di crollo della fede nella comunità ecclesiale. Dicevamo che altri hanno tentato di imitare lo scrittore francese, sia pure a distanze abissali. Il più fine e positivo è stato forse il fiorentino Nicola Lisi col suo Diario di un parroco di campagna (1942), le cui pagine hanno i colori dei «Fioretti» francescani. Recente (2017) è stato un giornalista sportivo, Gianni Clerici, col suo Diario di un parroco del lago, alle prese coi contrabbandieri lariani e con un abbandono finale del ministero sacerdotale.Sta di fatto che si moltiplicano, accanto ai pamphlet accusatori più o meno scandalistici, i libri che cercano di scavare nella vita standard di un prete per scovarne le crisi, le ombre e le luci. Talora con esiti un po’ banali e di facile consumo: è il caso, ad esempio, del successo registrato dal breve romanzo di un giornalista francese, Jean Mercier, col suo Il signor parroco ha dato di matto (San Paolo 2017). Il titolo dice tutto, perché questo prete, amareggiato dalla superficialità dei suoi fedeli, riuscirà a scuoterli solo murandosi in una cella nel giardino della canonica, con una finestrella minima sulla via che si trasforma in una sorta di inedito confessionale. Qualcosa di simile, ma con diverso spessore tematico, anche perché il racconto è autobiografico e motivato pastoralmente, è alla base della testimonianza di Thomas Frings, parroco a Münster, dal titolo sconsolato: Non posso più fare il parroco.
Infatti, sulla sua pagina Facebook nel febbraio 2016 annunciava di «correggere la rotta», di abbandonare «l’inutile sforzo» di un ministero ecclesiale sclerotico e senza sussulti spirituali nei fedeli: si sarebbe ritirato per un periodo di congedo e riflessione in un monastero benedettino. A questo punto la sua lunga sequenza critica nei confronti di una grigia e stantia missione pastorale quotidiana, narrata con icasticità e persino con ironia, diventa paradossalmente uno squillo di tromba. Altri sacerdoti e fedeli raccolgono la provocazione perché si ritrovano riflessi in quel ritratto e, così, don Thomas riprende un diverso ministero tra monastero, comunità esterne e interventi pubblici. Si potrà anche discutere su molti aspetti, ma la sua è una radiografia che rivela la carie di uno scheletro secolare che ha bisogno di nuova linfa, soprattutto in questa Europa così secolarizzata, soprattutto se si vuole rispondere all’interrogativo iniziale del titolo tedesco Aus, Amen, Ende? («Fuori, amen, fine?»).
A questo punto può essere accostata la voce di un altro sacerdote più ottimista, il bergamasco Giulio Dellavite, che sceglie di camminare sul crinale delicato di due generi, il narrativo e il saggistico. Il titolo può impressionare solo chi non ha assuefazione col linguaggio biblico: Se ne ride chi abita i cieli è una frase del v. 4 del Salmo 2 che, con un antropomorfismo, raffigura un Dio piuttosto sarcastico nei confronti dell’agire umano contro di lui e del suo Messia. Da un lato, dunque, c’è il registro narrativo del manager con l’auto in panne che, in una serata uggiosa, chiede soccorso bussando a un monastero isolato, con una serie di successivi colpi di scena.
D’altro lato, c’è il dialogo coi personaggi di quel piccolo mondo, dall’abate al portinaio, dal bibliotecario all’ortolano e così via, in un ramificarsi progressivo di temi che si aggirano nelle pianure dell’esistenza ma che si inerpicano anche sui sentieri d’altura della riflessione morale e teologica. Si delinea, così, un sorprendente contrappunto in cui i ruoli possono invertirsi quando ci si avvia sulla strada della ricerca di senso. Certo, il monaco sembra avere più da dire e da offrire, tant’è vero che il manager scopre squarci inediti dell’essere e dell’esistere, e soprattutto si accorge di dover rettificare proprio quel patrimonio di leadership che inalberava come suo vessillo. Tuttavia anche il religioso non uscirà indenne da questo lungo dialogo che è sostanzialmente un saggio sul potere come servizio, tant’è vero che in finale si elencano le fonti del magistero di papa Francesco adottate come tessuto delle pagine di quel confronto vivace, spirituale ma non clericale, intellettuale ma non astratto, realistico ma non superficiale.
"Speriamo nell'Apocalisse" (Il Sole 24ore, 10 marzo 2019)
"Il teologo di Barack Obama" (Il Sole 24 ore, 24 febbraio 2019)In una società così secolarizzata la Quaresima è una parola ignorata e forse ignota, se non nello stereotipo «faccia da quaresima». Nella storia della cultura occidentale è stato, però, un tempo ricco di simbolismi e di pratiche spirituali: si pensi solo al digiuno, un segno carico di significati anche caritativi, tipico pure di altre fedi (ad esempio, il Kippur ebraico e il Ramadan musulmano), da non equivocare con la dieta che ne è solo una scimmiottatura “laica”. Ma il cuore di questo arco temporale di quaranta giorni che è iniziato mercoledì scorso col rito delle Ceneri – vero e proprio schiaffo alla superficialità vana e vacua contemporanea – è la tensione verso la Pasqua. Abbiamo, così, voluto infilare una collana di testi – tra i tanti apparsi in questo periodo – che si proiettano idealmente verso una meta “pasquale”.È la meta suprema della storia, configurata nella risurrezione di Cristo, che è l’irruzione dell’eterno nel tempo, del divino nel creaturale, dell’infinito nel relativo. In questa prospettiva l’opera più alta, vero e proprio vessillo non solo religioso ma anche artistico, è l’Apocalisse. Nella sterminata letteratura che l’ha commentata, ricreata, attualizzata e persino deformata facciamo emergere un testo lasciato in eredità da uno dei maggiori studiosi di quest’opera, il gesuita italo-argentino Ugo Vanni, scomparso a Roma a 89 anni lo scorso 27 settembre. Un discepolo, Luca Pedroli, ha edito la lettura integrale condotta dal suo maestro su quelle pagine sacre, adatte certo a palati forti, ma aliene dall’eccitazione oracolare o dalla vena catastrofica alla Apocalypse now in cui sono state compresse.
L’opera, sottoposta a varie ermeneutiche millenaristiche, apocalittiche, esoteriche, storiche, allegoriche e così via, è collocata da Vanni in un grembo ecclesiale liturgico nel quale s’intrecciano e interagiscono, attraverso l’efficacia del rito, storia ed escatologia, presenza e attesa, il realismo amaro della persecuzione e la scenografica luminosa della nuova Gerusalemme futura. L’imponente commento di Vanni, preceduto da un volume a parte con un’introduzione generale e col testo tradotto e accompagnato dal greco a fronte, è una straordinaria guida per varcare l’orizzonte letterario e teologico di quest’opera dalla quale non si può uscire indenni.
Accanto a questo monumento esegetico collochiamo il mini-libretto di Harry O. Maier dell’università di Vancouver che punta, invece, a disegnare uno schizzo sull’attualità dell’Apocalisse, codice interpretativo del “tempo presente” e del “senso della fine” (o piuttosto del fine) della storia. Lo studioso canadese s’interroga: «L’Apocalisse può darci qualcosa in cui sperare che non sia solamente una morte inevitabile raggiunta dopo tante delusioni e sofferenze?». E la sua è una vivace risposta positiva, piena di ammiccamenti a varie vicende odierne.Ma lo sguardo su quell’“oltre” può essere ben più acuto e capace di perforare la trama globale della storia alla ricerca di un filo dinamico segreto in tensione verso un Oltre trascendente. È ciò che ha fatto una teologa tedesca dell’Eberhard-Karls-Universität di Tubinga, Johanna Rahner, classe 1962, che porta il cognome di uno dei maggiori teologi del secolo scorso, Karl Rahner. La sua s’intitola esplicitamenteIntroduzione all’escatologia cristiana: eppure non esita a varcare le frontiere minate dei territori misteriosi fatti balenare da questa disciplina teologica.
Intendiamo alludere a quelle domande che spesso si archiviano perché generano vertigini o rigetti: che cos’è la risurrezione del corpo e dell’anima? Che valore ha la scenografia del giudizio finale? Che senso ha per l’uomo contemporaneo smaliziato far balenare immagini paradisiache o infernali? L’idea di una stasi purgatoriale oltre la morte è una mitologia arcaica o può essere ricondotta a una prospettiva concettuale coerente? La reincarnazione è compatibile con un’escatologia cristiana? E più brutalmente: esiste una legittima ermeneutica dell’immaginario cristiano sull’oltrevita così da riconoscerne o negarne l’esistenza? Queste e tante altre questioni affiorano in pagine terse e vivaci che non esitano a citare, accanto ai teologi e filosofi paludati, anche la Arendt e Benjamin, Brecht e Camus, Darwin e Foucault, Klee e Keplero-Copernico-Newton-Galilei e così via.
Rimane, comunque, una certezza: quegli orizzonti estremi, sempre rimossi, ritornano a galla e ci assillano, credenti e no, perché «dove si perde la capacità di sperare nel futuro, anche quello oltre la morte, alla fine si perde ciò che è propriamente umano». Anche in questo caso, a lato dell’architettura ideale sontuosa della Rahner, poniamo un mini-testo, scritto da un teologo raffinato come Rosino Gibellini che in poche pagine riesce a raccogliere il succo di un’insonne ricerca di molti, rubricandolo sotto il titolo modesto ma accattivante di Meditazione sulle realtà ultime. In realtà si tratta di una sintesi della ricerca sul tema dell’escatologia nella riflessione teologica del secolo scorso, che è simile a un delta molto ramificato di questioni e che ha coinvolto i maggiori pensatori. Essi si sono confrontati sulla dialettica tra morte e vita in Dio, sull’immortalità dell’anima e la risurrezione dei morti (categorie apparentemente alternative), sulla preghiera per i defunti, una prassi tradizionale nella cristianità e così via.Certo è che affacciarsi sull’eterno e sull’infinito con la nostra attrezzatura gnoseologica ancorata a linguaggi e strutture spazio-temporali è un’impresa ardua. È ciò che anche l’ebraismo ha sperimentato attraverso vari sguardi. Uno di questi è la celebrazione del sabato, Un momento di eternità, come recita il titolo di un saggio di Benjamin Gross, della nota Università israeliana di Bar-Ilan, scomparso nel 2015. La filigrana di rimandi biblici e giudaici, molto attraente, regge una riflessione che scopre del sabato non solo la sua dimensione storica, familiare, sociale, liturgica, etica ma proprio il suo essere segno di pienezza. Non spazio temporale vuoto, ma spina nel fianco delle divagazioni e distrazioni della nostra cultura, così che l’occhio dell’anima si protenda verso il futuro escatologico.
È «un assaggio di eternità», come lo definiva Abraham J. Heschel nel suo famoso Il Sabato (ultima edizione presso Garzanti nel 1999), tentativo felice di mostrarne «il significato per l’uomo moderno». Concludiamo, allora, questa nostra carrellata libraria stando sulla porta della Quaresima, tempo “pasquale” germinale, con una testimonianza del fisico Giuliano Toraldo di Francia rilasciata anni fa durante un congresso su Teilhard de Chardin: «Sono un agnostico, ma leggendo le opere di questo gesuita scienziato capisco il suo tentativo di trovare un senso all’avventura del mondo e alla nostra vita. Se Dio è il nome di questo senso, anch’io posso pregare: In te, Domine, speravi».
In questo articolo il Card. Gianfranco Ravasi commenta il saggio “Uomo morale e società immorale” del teologo americano Reinhold Niebuhr, a cui si è ispirato anche Barack Obama."Due sfide poste alla fede nella cultura contemporanea"
Il Cardinal Gianfranco Ravasi in questa sua prolusione rivolta ai seminaristi dell’Istituto Superiore di Teologia di Évora (Portogallo), ci introduce alla riflessione sulle sfide che la cultura contemporanea pone alla fede. La scienza, con la genetica, le neuroscienze e l’intelligenza artificiale, assieme all’utilizzo delle reti cosiddette “social” stanno modificando, con il crescente timore di una disumanizzazione, il contesto dialogico, religioso e sociale. Le riflessioni del Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura non sono un invito a rifiutarne l’utilizzo ma a riconoscerne le potenzialità di diffusione e di conoscenza come mezzo di approfondimento per la comunicazione interculturale e interreligiosa.