Lo scisma nella Chiesa? Divisioni e pericoli da destra e da sinistra



Di un possibile scisma il Papa ne ha parlato (per la prima volta) ai giornalisti durante il viaggio che lo portava in Mozambico. La sua risposta è nota: "Non temo uno scisma nella Chiesa, ma prego perchè non avvenga". Si pensa alla Chiesa conservatrice americana, attiva nello screditare il Papa e nel "difendere" la dottrina cristiana, ma non si può minimizzare anche il pericolo di una divisione a sinistra, tra i vescovi progressisti tedeschi che hanno indetto un sinodo "vincolante per la chiesa in Germania". Ancora il Papa: «oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro alla Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che finiranno male» (La Repubblica, 10 settembre).

Così su Tempi (il mensile di Comunione e Liberazione): 
A inizio settembre la Congregazione per i vescovi e il Pontificio consiglio per i testi legislativi hanno fatto sapere alla Conferenza episcopale tedesca che il sinodo «vincolante per la chiesa in Germania», annunciato lo scorso marzo dal cardinale Reinhard Marx per discutere di abolizione del celibato sacerdotale, insegnamento della morale sessuale e di potere clericale, «non è ecclesiologicamente valido». Per tutta risposta i vescovi tedeschi hanno confermato che andranno avanti lo stesso: «Non seguiamo il codice di diritto canonico», ha ribadito il cardinal Marx. Tensioni tra conferenze episcopali locali e Roma sono da sempre all’ordine del giorno nella chiesa, ma il pontificato di Papa Francesco ci aveva abituati a scontri più o meno velati tra ambienti conservatori e Vaticano, tanto che pochi giorni fa Bergoglio – commentando le critiche dei prelati americani al suo magistero – ha parlato per la prima volta apertamente di «scisma», dicendosi non preoccupato di questa eventualità. Adesso che un possibile strappo arriva anche dagli ambienti progressisti tedeschi, convinti che il Pontefice sia “dalla loro parte”, il tema comincia a farsi largo tra gli osservatori delle dinamiche vaticane. Abbiamo chiesto a Matteo Matzuzzi, vaticanista del Foglio, un commento sull’attuale situazione.
C’è chi grida allo scisma in America, c’è chi grida allo scisma in Germania, certo è che che conservatori e progressisti stanno scuotendo la Barca di Pietro. Ma quando Papa Francesco afferma in volo «io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano» sta confermando la possibilità di un collasso della Chiesa cattolica (lungo la linea di frattura conservatori-progressisti eternamente evocata dalla stampa) o il sorgere di chiesette “decentrate”?
Penso che in realtà il Papa voglia sfidare i suoi oppositori, la variegata galassia di quanti remano contro la sua agenda. Dicendo che non ha paura di uno scisma – usando lo stesso tono con cui si commenterebbe il risultato del posticipo di Serie A il lunedì mattina al bar – sembra dire: volete la rottura? Bene, fatevi vedere, uscite allo scoperto. Petto in fuori e pronto al combattimento, proprio come un perfetto soldato ignaziano. È un atteggiamento diametralmente opposto a quello mostrato da Paolo VI nel post Concilio: allora i pericoli di scismi erano ben più concreti rispetto a ora, sia sul versante conservatore sia (e soprattutto) su quello progressista. Papa Montini scelse di tacere. Non scrisse più encicliche dopo la rivolta di interi episcopati europei contro l’Humanae vitae. Si astenne da pronunciamenti dottrinali, si chiuse sempre più in se stesso con l’unico obiettivo di traghettare la Barca di Pietro in porto nonostante la tempesta apparentemente senza scampo. Bergoglio no, lui getta il guanto di sfida a quanti – per usare le sue parole – fanno sorrisi tenendo il coltello sotto il tavolo. Quanto alle chiesette decentrate, non è detto che lui sia in linea di massima contrario: dopotutto nel programma di governo del pontificato, la Evangelii gaudium, ha scritto che bisogna cedere poteri alle conferenze episcopali locali anche in materia dottrinale.
Il rischio di uno scisma americano si fonda su un problema di fede, di dottrina, o di natura politica? In questo senso quando Bergoglio dice che «è un onore essere criticati dagli americani» aggiungendo «se a qualcuno verrà in mente qualcosa che devo fare lo farò», fa una battuta avvelenata o si mostra disponibile a un dialogo con il fronte antiromano?
Per Bergoglio l’America del nord, quella “yankee”, è incomprensibile. È un problema culturale latente che si trascina da sei anni. I pregiudizi verso gli Stati Uniti, “l’Impero”, sono quelli alimentati dalla politica latinoamericana durante il Novecento. Ed è difficile cancellarli. Anche la “teologia del pueblo”, branca “buona” della teologia della liberazione e riferimento per inquadrare per quanto possibile Francesco in un filone ideologico-sociale, ha ben poco da spartire con gli Stati Uniti. Sono due mondi opposti. Lo si era capito perfettamente nel 2015, durante il viaggio papale a New York, Washington e Philadelphia. Era la prima volta che il quasi ottantenne Bergoglio metteva piede in quella terra, fatto che dice già molto. In tutti i discorsi, non mancava mai l’elemento di distinzione culturale, a indicare una certa diffidenza. Personalmente, comunque, non vedo alcun rischio di scisma americano, le tensioni sono dovute innanzitutto a elementi politici (le priorità del Papa callejero, a partire dal suo ospedale da campo, non hanno niente a che spartire con l’eco di quel che è stata la stagione culture wars), in secondo luogo al fatto che almeno nelle sue roccaforti numeriche il cattolicesimo americano è conservatore. E certe svolte o novità introdotte dal 2013 in poi sono state ben poco tollerate. Da qui a parlare di strappo, però, ce ne passa.
Intanto l’episcopato tedesco non arretra sul sinodo «vincolante per la chiesa in Germania»: dopo aver sventolato per anni la bandiera “Bergoglio ci chiede cose nuove” il cardinal Marx sfida il Vaticano: «noi non seguiamo il codice canonico». L’incontro, atteso per la prossima settimana dopo scambi di corrispondenza resi pubblici, con il cardinale Marc Ouellet, prefetto della congregazione per i Vescovi, disinnescherà il “caso tedesco”?
Il vero problema è appunto la Germania, che va avanti per la sua strada facendo intendere che il Papa sta dalla sua parte. Il che è problematico. Qui non si tratta di frange rivoluzionarie, bensì della quasi totalità dell’episcopato. Negli ultimi quattro anni il cardinale Reinhard Marx ha prima detto che «non sarà Roma a dirci cosa dobbiamo fare in Germania», poi ha spiegato che «il Sinodo sarà vincolante», infine che il processo avviato nel suo paese è «sui generis» e non vincolato dal diritto canonico. È una sfida alla curia romana che potrebbe generare, questa sì, una rottura, altro che America. Eppure non c’è nulla di nuovo: da decenni i vescovi tedeschi minacciano scismi e lanciano avvertimenti al Vaticano, e finora erano sempre stati bloccati. Negli anni Novanta i vescovi Kasper, Lehmann e Saier chiesero di autorizzare il riaccostamento dei divorziati risposati alla comunione: Giovanni Paolo II, e il suo prefetto per la Dottrina della fede, Ratzinger, risposero picche. Anni dopo, cambiato il pontefice, sono tornati alla carica e hanno vinto la battaglia. Il contenimento degli abituali capricci dipende dalla reazione che si ha a Roma: se si afferma che è lecito dare agli episcopati locali poteri dottrinali è chiaro che si apre una breccia e neppure troppo piccola.
Ma esistono davvero «innumerevoli credenti in Germania», come sostiene Marx, che vogliono discutere le questioni messe all’ordine del giorno del sinodo come il celibato sacerdotale? E sono questioni sufficienti ad alimentare uno scisma?
È un problema di soldi. Molto banale. Da anni la Chiesa cattolica tedesca sta affrontando una crisi dovuta al calo delle entrate, sempre più fedeli preferiscono, per così dire, rinunciare al battesimo pur di non pagare l’esosa Kirchensteuer, la tassa per chi si professa credente. Chiese vuote, centinaia di parrocchie soppresse, calo drammatico delle vocazioni sacerdotali. Che fare, dunque? Semplice: rendere più accattivante la chiesa. Quando nessuno entra più in un ristorante si tenta di salvare l’impresa cambiando l’insegna e organizzando un bel restyling. Il principio è lo stesso. Meno vincoli, meno dottrina, più aperture, più tolleranza, più accomodamenti. Il tutto sotto lo slogan della chiesa pastorale. Ma, diceva il cardinale Caffarra, una chiesa con meno dottrina non è più pastorale, bensì «solo più ignorante».
Nella storia della chiesa, quando si sono scongiurati gli scismi e perché?
Raramente si sono scongiurati. Non esistono ricette: andare alla guerra porta pochi risultati, come insegna la Riforma luterana. Dialogare, pure come dimostra la rottura con i lefebvriani. Si può concedere qualcosa, ma i grandi problemi – se sono veramente grandi – prima poi tornano fuori e spesso si dimostrano irrisolvibili. 
E quando si sono verificati, si è trattato di divisioni di élite, come sembra sostenere il Papa, o di popolo? 
Sia di élite sia di popolo. Dipende dalle circostanze storiche. È innegabile che i veterocattolici – per citare l’esempio fatto dal Papa – che se ne andarono nell’Ottocento erano un’élite, il popolo (scarso) venne dopo. Poi è vero che dietro un leader carismatico può esserci un popolo più o meno numeroso a seconda delle contingenze. Lutero accese la miccia, ma le polveri pronte a prendere fuoco erano già presenti in gran quantità. Lefebvre, in maniera minore e più contenuta, pure: seminò in un campo fertile.  

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