Ancora sul bullismo (e sul dibattito "classista" scatenato da Michele Serra)
Alcuni episodi di cronaca hanno riacceso i riflettori sulla piaga del bullismo: Lucca, Velletri e Lecce sono le più recenti città dove si sono verificati questi episodi. La scuola è il comune denominatore: qui i prepotenti cercano popolarità e potere ai danni dei compagni più deboli o dei professori che hanno paura di affrontarli.
Interessanti sono alcune riflessioni, a partire da uno speciale di Sette (il settimanale del Corriere della Sera) che offre delle coordinate per riconoscere vittime e carnefici e alcuni consigli per affrontare la piaga, così come il dibattito scaturito da una riflessione di Michele Serra nella sua "Amaca" per La Repubblica del 20 aprile:
Tocca dire una cosa sgradevole, a proposito degli episodi di intimidazione di alunni contro professori. Sgradevole ma necessaria. Non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore, e lo è per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto: il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza. Cosa che da un lato ci inchioda alla struttura fortemente classista e conservatrice della nostra società (vanno al liceo i figli di quelli che avevano fatto il liceo), dall'altro lato ci costringe a prendere atto della menzogna demagogica insita nel concetto stesso di "populismo".Il suo articolo è stato accusato da molti di classismo e una certa insensibilità. Sulla Repubblica del 21 aprile, Serra ha risposto alle critiche con un altro articolo:
Il populismo è prima di tutto un'operazione consolatoria, perché evita di prendere coscienza della subalternità sociale e della debolezza culturale dei ceti popolari. Il popolo è più debole della borghesia, e quando è violento è perché cerca di mascherare la propria debolezza, come i ragazzini tracotanti e imbarazzanti che fanno la voce grossa con i professori per imitazione di padri e madri ignoranti, aggressivi, impreparati alla vita. Che di questa ignoranza, di questa aggressività, di questa mala educación, di questo disprezzo per le regole si sia fatto un titolo di vanto è un danno atroce inferto ai poveri: che oggi come ieri continuano a riempire le carceri e i riformatori.
Una mia recente Amaca sulle aggressioni agli insegnanti ha sollevato, su alcuni giornali e sui social, una rovente discussione. In estrema sintesi: ho attribuito alla "struttura fortemente classista e conservatrice della nostra società" il maggiore tasso di aggressività e di indisciplina che si registra (stando alle cronache) nelle scuole tecnico-professionali e nelle medie inferiori rispetto ai licei, frequentati quasi solo "dai figli di quelli che hanno fatto il liceo".Interessante è anche l'analisi di Massimo Fini: "I bulli a scuola e l'Occidente" (dissento solo sull'amaro e apocalittico finale):
Poiché, scrivendo una nota di 1500 caratteri, si è costretti a evitare la zavorra dell'ovvio, non ho aggiunto che esistono fior di liceali screanzati e arroganti, e borgatari gentili e brillanti che ogni professore vorrebbe avere nella sua classe. Mi interessava dire del macro-fenomeno, e in buona sostanza, non citandolo, di ripetere l'antica lezione di don Milani sulla "scuola di classe". (Vale ricordare, in proposito, recenti polemiche su alcune auto-promozioni di eleganti licei romani e milanesi, orgogliosi di avere nelle proprie aule alunni, come dire, ben selezionati socialmente).
In altri tempi qualcuno mi avrebbe accusato di fare del facile sociologismo di sinistra, offrendo un alibi ai violenti, vedi la conclusione di quell'Amaca: sono "i poveri che oggi come ieri continuano a riempire le carceri e i riformatori". Ma i tempi devono essersi ribaltati, davvero ribaltati, se invece in molti hanno scelto di rivolgermi esattamente l'imputazione opposta, accusandomi di "classismo" e di "puzza sotto il naso", nel solco del molto logoro, molto falsificante ma sempre trionfante cliché "quelli dell'establishment contro quelli del popolo".
Ora: fino a che sono i social a chiamarmi in causa, sono costretto a replicare che non posso replicare. Non certo per alterigia ma per una ragione oggettiva sulla quale sarebbe importantissimo, e liberatorio, che tutti riflettessimo, dal prestigioso intellettuale allo hater seriale: la moltitudine dei commenti (non tutti, ovviamente) NON riguarda quello che ho scritto, riguarda la sua eco, i commenti ai commenti, voci relate, fonti in brevissimo tempo vaghe e remote. Il testo (i 1500 caratteri della mia Amaca, insomma le mie parole) quasi non vale più. Quasi nessuno lo legge fino in fondo e lo analizza. Vale il caotico, per certi versi mostruoso contesto del chattismo compulsivo, così compulsivo che perde il filo del discorso già in partenza. E dunque alle migliaia di persone che, sui social, mi hanno sommerso di accuse e di invettive, sono costretto a dire, in buona amicizia: voi non state parlando di me e non state parlando di quello che ho scritto, dunque scusate ma non posso rispondervi. Non è che non voglio: non posso. Le parole sono troppo importanti perché se ne possa fare un uso così approssimativo.
Si moltiplicano gli episodi di studenti, in genere delle prime classi, cioè adolescenti o preadolescenti, che offendono, minacciano, picchiano, umiliano i loro professori. Ma anche di genitori che aggrediscono i docenti. Sono solo le manifestazioni più appariscenti di una questione che solo apparentemente riguarda la scuola e i giovani, o in particolare l’Italia, ma si innesta nella profonda decadenza del mondo occidentale, il suo lento e inesorabile marcire. Dove tout se tient.1. Il crollo del principio di autorità. Da troppi decenni, direi anzi da un paio di secoli, abbiamo privilegiato la libertà sull’autorità. Ma la libertà è la cosa più difficile da gestire. Del resto l’autorità non esisterebbe da millenni se non fosse necessaria alla convivenza sociale. Lo sapevano molti dei nostri maggiori, da Platone a Dostoevskij, pensatori di cui oggi è perfin difficile immaginare l’esistenza, in un mondo che non pensa più se non in termini scientifici, tecnologici, quantitativi.2. La graduale scomparsa della famiglia come nucleo essenziale di una comunità, scomparsa che si lega ad un individualismo senza più freni e inibizioni.3. La necessità assoluta dell’apparire per poter essere in una società dove ci sentiamo tutti omologati, tutti dei ‘nessuno’. Non è certamente un caso che i fenomeni di bullismo, scolastico e non scolastico, non abbiano, agli occhi di chi li compie, valore di per sé ma solo se visualizzati nel mondo globale.4. Lo strapotere della tecnologia che ha preso il posto dell’umano. Dai robot alle macchine che si guidano da sole a tutto l’enorme complesso dell’intelligenza artificiale. Gli adolescenti poiché più fragili ma quindi anche più sensibili, sono solo la spia più evidente di una tragedia che ci coinvolge e ci travolge tutti.Rimontare la china, a questo punto, è impossibile. Bisogna lasciare che il corpo malato si decomponga ulteriormente fino a diventare cadavere. Solo allora si potrà ricominciare.
Vedi anche il commento apparso su Avvenire ( "Il bullismo in classe. Fallimenti e responsabilità: qualcosa che serve a questa scuola") e quello per l'Agi di don Mauro Leonardi e la proposta di 7 film sul bullismo da mostrare a scuola.da: Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2018
Fra i tanti video proposti in rete vi segnalo: