Pop theology. La teologia (pre-conciliare) di The Young Pope


Il teologo Pino Lorizio, su Famiglia Cristiana, analizza la teologia della serie TV "Il Papa giovane" di Sorrentino.

04/01/2017  Il papa inventato da Paolo Sorrentino merita ulteriori riflessioni. C'è da chiedersi se questa figura, equivoca e coinvolgente, sia davvero moderna. Perché è piuttosto una modernità tridentina, che in maniera spesso subliminale bussa alla porta del cristianesimo odierno, invocando un ritorno indietro verso una fede e una chiesa preconciliare e tradizionalista piuttosto che tradizionale. Ma cosa sarebbe oggi la Chiesa cattolica senza il Vaticano II?


Quando viene eletto un papa nella persona di un cardinale quasi del tutto sconosciuto, soprattutto alla curia romana, bisogna aspettarsi delle sorprese, nelle quali, agli occhi della fede, agisce lo Spirito, salvo poi che a sorprenderci possa essere anche un pontefice noto, come papa Benedetto, col suo gesto inatteso e per alcuni inspiegabile della rinuncia. È questo anche il caso di Pio XIII, al secolo Lenny Belardo, protagonista della serie tv diretta da Paolo Sorrentino. Molti aspetti di questa fiction fanno riflettere e meriterebbero approfondimenti, qui ci soffermeremo in particolare sulla sua “teologia”, così come si esprime nei discorsi che gli sono stati messi in bocca dall’autore della sceneggiatura, dai quali assumeremo alcuni spunti per l’oggi della fede e della chiesa cattolica.
Prima dei discorsi “ufficiali” che il giovane papa pronunzierà, viene messo in scena un discorso onirico (I episodio) ispirato al Dio che non si dimentica di nessuno e al fatto che l’armonia con Lui passa attraverso l’armonia con la vita e l’esperienza del gioco, per concludersi sulla felicità, con una serie di passaggi decisamente e volutamente provocatori, non di rado irritanti, che lasciano la folla perplessa e sgomenta. Ed eccoci al primo drammatico discorso (II episodio) tenuto da una loggia in penombra di un pontefice che sceglie il nascondimento e rifugge l’esposizione mediatica. Il tema è la denuncia del fatto che ci siamo dimenticati di Dio. La sua assenza è frutto di questa dimenticanza. Del resto siamo nel tempo della povertà e il mondo è diventato così povero da non avvertire la mancanza di Dio come mancanza (M. Heidegger).
Il Dio dimenticato è un Dio che esige tutto e si potrà vedere il papa solo se ci si ricorderà di Dio, non c’è posto per la chiesa e il suo pontefice supremo in un mondo che ha dimenticato Dio. E bisogna essere più vicini a Dio che agli uomini, perché “tutti noi siamo soli davanti a Dio”. Non è il papa che deve provare l’esistenza di Dio, ma chi si è dimenticato di Lui a dover dimostrare la sua non esistenza. È un Dio col quale Belardo ingaggia una lotta senza pari. Del resto lo stesso Benedetto XVI, nel suo discorso ad Erfurt (stiamo ricordando i 500 anni dalla riforma) aveva detto che la teologia è “lotta con Dio”: “Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio”.
Dovremo attendere il V episodio per ascoltare il discorso ai cardinali del nuovo, giovane papa, che ha atteso il rientro della tiara dagli Stati Uniti, cui, a suo dire “incautamente” l’aveva ceduta, mettendola all’asta, Paolo VI. Il mistero di Dio si infittisce e la chiesa dovrà chiudere le sue porte, perché ritorni ad essere il luogo del mistero. Dobbiamo essere “proibiti, inaccessibili e misteriosi” e smettere di guardare al mondo che non ha nulla da dirci, perché solo la chiesa possiede la verità (citazione di Ignazio d’Antiochia). È una profonda e per nulla banale critica alla “chiesa in uscita” e alla visione del Vaticano II: evangelizzazione, ecumenismo, tolleranza non dovranno più appartenere alla chiesa, da cui è bandita la parola “compromesso”.
Nonostante l’innegabile suggestione che può suscitare, la spietata posizione, peraltro estemporanea ed anacronistica, del giovane papa finisce col rinnegare un punto di non ritorno, che il credente oggi non può ritenere alla stregua di una parentesi o di una deriva. Il look, accuratamente scelto per questa occasione e il bacio della pantofola, sembrerebbero elementi di folklore, ma rivelano un’immagine di chiesa, ispirata al senso del mistero ed estremamente esigente, perché il nuovo papa non vuole amici o simpatizzanti, ma solo innamorati. Allorché si sono riempite le piazze di folle plaudenti, i cuori sono rimasti vuoti di Dio. L’immagine della porta piccola e stretta, nonché chiusa, rappresenta simbolicamente l’ecclesiologia di Pio XIII. E il perdono non potrà mai più essere concesso ad libitum.
Le contraddizioni e i mali della chiesa sono, in forma spietata, presenti in tutta la serie, dall’omosessualità del clero alla pedofilia, dalla sovresposizione mediatica al carrierismo, dalla mondanità ai compromessi. Mali da cui non è esente la missione e l’esercizio della carità, come viene rappresentata nel viaggio in Africa e nel discorso lì pronunciato (episodio VIII). Dio è amore, ma il giovane papa non parlerà di Dio, perché chiede a gran voce la pace. Una pace bella e sconcertante, da lui stesso sperimentata in una gita sul fiume in Colorado coi suoi genitori all’età di otto anni. Datemi la pace e vi darò Dio: è questo il suo messaggio all’Africa dilaniata da conflitti e percossa da dittatori che indossano la maschera della carità. Giungiamo così all’epilogo veneziano, con l’ultimo discorso, pronunciato da piazza san Marco (X episodio).
Siamo così al filo rosso di tutta la serie: l’assenza di Dio è il riflesso dell’assenza del padre. Ma a Venezia, ispirandosi alla beata Juana e ribadendo che Dio (una “linea aperta”) non si mostra, non parla, non si fa vedere, non ci conforta, conclude col sorriso di Dio e chiede a tutti di sorridere. Ai bambini amava ripetere: “Pensate a tutte le cose che vi piacciono: quello è Dio”. Il cerchio in un certo senso si chiude perché ritorna il messaggio del discorso onirico iniziale, epurato da tutte le provocazioni morali in esso contenute. Da tutta la vicenda espressa nella serie, emerge con chiarezza l’ispirazione agostiniana adottata da Pio XIII: “se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l’idea giusta”.
La contrapposizione delle due città, la dialettica assenza/presenza di Dio, l’amore assoluto della “terza navigazione”, espresso nelle mirabili pagine dei commenti agostiniani alle lettere di Giovanni, sono fonti certamente non secondarie di questa teologia. Potremmo concludere sottolineando la paradossalità costitutiva di questa visione, che ad esempio emerge allorché Lenny Belardo si paragona a Dio, dicendo che la sua natura è la contraddizione e rintracciandone l’immagine nelle proprie contraddizioni. Mi sono chiesto se davvero questa figura fantastica e struggente, equivoca e coinvolgente sia antiquata, lasciandomi interrogare sul fascino che ha esercitato sui giovani studenti di teologia. Mi sono risposto che si tratta di una figura moderna, della modernità tridentina, che in maniera spesso subliminale bussa alla porta del cristianesimo odierno, invocando un ritorno indietro verso una fede e una chiesa preconciliare e tradizionalista piuttosto che tradizionale.
Ma l’elemento più inquietante della teologia di Pio XIII è che quello che emerge dai suoi discorsi potrebbe rivelarsi un Dio senza Cristo, o meglio una teologia senza cristologia. Meglio ancora siamo di fronte a una cristologia sommersa, in cui si rovescia la prospettiva oggi comune nelle teologie contemporanee: non è Cristo che rivela il volto di Dio, ma la questione cruciale di Dio che dischiude il volto di un Gesù, che rimane sempre velato, come il corpo del Cristo di Giuseppe Sanmartino, presente nella cappella Sansevero di Napoli. Il crocifisso dell’immagine rovesciata con cui si risveglia e l’unico cenno al radicalismo della croce presente nell’ultimo passaggio del discorso ai cardinali, ci situano di fronte a una prospettiva teologica unilaterale e forse perdente, ma anche suggestiva e impressionante, con la domanda di fondo: cosa sarebbe la chiesa cattolica senza il Vaticano II, o meglio, è possibile oggi un cattolicesimo ispirato esclusivamente alla modernità tridentina? L’impossibilità è l’orizzonte di una fiction, che meriterebbe ulteriori approfondimenti e riflessioni.

Su Jesus (febbraio 2017):
SORRENTINO, THE YOUNG POPE E L’IDEOLOGIA DELL’APPARIRE
di Piero Pisarra
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Un papa ateo o, peggio, deista, ministro di una divinità pagana, distante e capricciosa. Non cita mai Gesù il papa americano di Paolo Sorrentino. La sua religione è il mistero e la paura il suo modo di governo. Odia il buonismo, teorizza il “cattivismo”, si nega alle folle plaudenti, toglie dal museo tiara, sedia gestatoria e vecchi paramenti. Ma in fondo Lenny Belardo, alias Pio XIII, è solo un bambino abbandonato in orfanotrofio da genitori egoisti, due figli dei fiori fuggiti forse a Venezia. Uno che cerca la mamma e ne trova il sostituto nella suora interpretata da Diane Keaton.
Psicanalisi d’accatto, teologia da quattro soldi, brandelli di catechismo mal digerito, The Young Pope è una serie televisiva che mescola banalità sconcertanti e trovate inverosimili, come conferma ora anche il libro che il regista ha tratto dalla sceneggiatura: Il peso di Dio. Il vangelo di Lenny Belardo (Einaudi).
Che «sacro» e «segreto» siano indissociabili è un’idea vecchia quanto la storia delle religioni. E che l’aura di «mistero» possa far crescere le attese e favorire le vendite di un prodotto è cosa nota a tutti gli esperti di marketing, anche di marketing papale. Non basta dire, come fa il protagonista, che le «banalità sconcertanti» nascondono spesso verità profonde.
L’autore si muove lungo il crinale tra il kitsch e il sublime. E non si sa se, nel suo caso, sia peggio il kitsch o il sublime. Sublimi sono le sferzate di Pio XIII contro una religiosità di routine, l’ostentazione di anticonformismo. Kitsch i giardini del Vaticano in stile Mulino bianco con gli alberi sempre in fiore e le suore a lavare i panni nelle fontane.
Sorrentino è regista di interni, l’ultimo dei caravaggeschi, geniale nei notturni e nei chiaroscuri a lume di candela, nelle inquadrature sbilenche, nelle sfilate di spettri. Un genio barocco che in Roma e Venezia trova due teatri a sua dismisura. Ma qui è la macchina narrativa a fare acqua. E The Young Pope soltanto un esercizio di stile. Una serie di dieci puntate prigioniera di quella stessa ideologia dell’apparire che Pio XIII denuncia nei suoi sermoni.

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