Sul sedicenne che, con un amico, nel ferrarese ha ucciso i suoi genitori


Prendo in prestito da don Andrea Lonardo, sempre attento a ciò che accade attorno a noi, la raccolta di articoli e le sottolineature su l'ultimo fattaccio di cronaca nera che ha scosso l'opinione pubblica.

1/ "Quei figli senza senso di colpa" di Massimo Recalcati (La Repubblica, 13.1.17)
Quello che più colpisce dell'atroce delitto di Codigoro è l'assenza di senso di colpa nei due giovanissimi assassini. Del figlio innanzitutto, ancora più del suo sanguinario complice. La motivazione del suo gesto appare sconcertante nella sua semplicità: «Non sopportavo più le loro prediche», «volevo liberarmene».
La grande tragedia di Edipo re di Sofocle, riletta da Freud, ha elevato la ferocia del figlio Edipo che assassina il padre a paradigma di una scena universale: ogni figlio vuole liberarsi di suo padre e dei suoi genitori per realizzare il proprio desiderio...
Ma Edipo, che realizza la più estrema della trasgressioni, porta anche su di sé le marche dei terribili crimini del parricidio e dell'incesto. Per questo al termine della tragedia si cava gli occhi con i fermagli dei capelli di sua moglie e madre Giocasta. A dimostrazione che la Legge si è iscritta nel suo corpo nella forma del senso di colpa per ciò che ha commesso.
Nel delitto di Codigoro, invece, in primo piano non c'è alcun conflitto tra Legge e desiderio e, di conseguenza, nessuna esperienza autentica della colpa. La fredda frivolezza con la quale vengono messi a morte i genitori non sembra avere più alcun rapporto con il senso della tragedia. Il figlio che, con la complicità di un amico reclutato a pagamento, ha macchinato il delitto, non mostra, infatti, al termine degli interrogatori, alcun segno di pentimento. E poco importa se più tardi il suo avvocato dirà il contrario...
Anziché essere diviso dal conflitto tra il desiderio e la Legge, egli ha ucciso semplicemente per coltivare l'illusione di una vita facile e spensierata – letteralmente: senza pensiero. La violenza furiosa che rende impossibile ogni parola si configura così come il suo strumento più immediato: per raggiungere l'obbiettivo di una libertà spensierata bisogna eliminare fisicamente l'insopportabile presenza dei propri genitori e delle loro prediche.
"Onora tuo padre e tua madre" è uno tra i comandamenti biblici più belli. Portare "onore" ai propri genitori – non malgrado siano imperfetti e vulnerabili, ma proprio perché essi sono tali – significa riconoscere il debito simbolico grazie al quale la vita sorge e iscrivere la propria vita nel patto tra le generazioni perché nessuna vita può farsi da se stessa.
La bellezza di questo comandamento è stata oltraggiata da questo figlio che mostra di non saper sopportare la minima frustrazione.
Ma questo figlio è anche un nostro figliola liberazione da ogni senso di colpa viene infatti salutata dal neo-libertinismo del nostro tempo come un principio irrinunciabile trascurando il fatto che esso non è di per sé una malattia, ma il fondamento di ogni possibile incorporazione soggettiva della Legge.
Se nelle società religiose l'ipertrofia sacrificale del senso di colpa poteva dar luogo ad una vera e propria malattia psicologica –, nella società attuale la sua estinzione prepara ad una dimensione predatoria dei rapporti umani che sembra non trovare più argini. Senza esperienza del senso di colpa non c'è, infatti, esperienza possibile della Legge. Riconoscere la propria colpa è infatti il primo indispensabile passo affinché la Legge possa iscriversi nel cuore dell'uomo.
2/ "Il ragazzo che ha ucciso i genitori con l'amico" di Niccolò Zancan, La Stampa 13/1/17
...«R. aveva provato la coca. Lo ha raccontato qui davanti alla lavanderia. Gli era piaciuta molto. Si sentiva proprio bene, carico. Aveva tirato calci a una porta e sfondato una finestra a pugni. Mi ricordo che aveva detto di essersi sentito come un supereroe. Secondo me, per combinare quello che hanno fatto l’avevano presa entrambi. E poi so che fumavano anche le canne e l’oppio».  
R. è il timido, il ricco, il figlio dei ristoratori ammazzati a colpi d’ascia. Invece M. è il povero, l’estroverso, quello pieno di fidanzate, quello che ogni giorno posta una foto nuova su Instagram riflessa nello stesso specchio di casa: muscoli addominali, fumo dalle narici, un balletto, un ciuffo. «Ogni tanto si arrabbiava, ma niente di che. Una volta ha sfasciato la televisione perché era stato lasciato da una ragazza». Ma torniamo al timido R. «Posso dire questo, con le fidanzate aveva sempre paura di essere rifiutato. Forse ne aveva avuta una. Non era molto sicuro di sé. La madre la odiava proprio. Diceva frasi tipo: Quella t… di mia madre! Quella p…! Voleva essere lasciato in pace, non andare a scuola. Mentre la madre insisteva perché frequentasse l’istituto tecnico, per prendere il diploma. Chiedeva cose normali, la madre di R. era uguale a mia madre». Tu li hai mai visti litigare? «Sì, un giorno ero a casa loro. Pomeriggio. La madre si è arrabbiata perché R. gli aveva preso 10 euro dal portafoglio senza chiedere il permesso. È venuto fuori un litigio di tre ore, voglio dire una rissa. Una cosa infinita. Lui la riempiva di parolacce. Urlava. Era fuori di sé. Al punto che ho preso e me ne sono andato»...  
Cosa facevano R. e M. prima di diventare due assassini? «Erano stati bocciati entrambi. Ma R. cercava ancora di venire a scuola, M. invece tagliava quasi sempre. Alle volte stava tutta la notte a giocare alla XBox, sai Fifa 2016? Quello del calcio. Così di mattina cercava solo un posto per andare a dormire». E poi? «D’inverno la discoteca Caprice, d’estate all’Ipanema. Certe volte M. andava a fare i tuffi dal pontile di Lido di Volano». E poi, cos’altro? «Te l’ho detto. Le canne, queste sigarette elettroniche». Qual è l’ultima volta che l’avete visto? «M. era scomparso da due settimane, una cosa strana perché lui era sempre in giro, non so dove fosse finito», dice adesso una sua amica. Ma il pomeriggio del giorno successivo all’omicidio era di nuovo qui, al solito bar a giocare a biliardino. Erano le 17. «Sembrava la persona più tranquilla del mondo», dicono tutti...
3/ "Droga e potere, quelle parole che nessuno vuole più pronunciare" di Silvia Cattarina (Il Sussidiario, 14.1.17) 
...i ragazzi che da tanti anni accogliamo nelle comunità terapeutiche de L'Imprevisto ci aiutano a capire, ci aprono un poco gli occhi. 
La prima considerazione che buttano lì, il primo dubbio, riguarda la presenza, l'uso e l'abuso in tutti questi atroci delitti delle sostanze stupefacenti, della droga insomma. Temono, e noi educatori con loro, che vi sia una generale sottovalutazione se non addirittura una colpevole negazione di questa presenza. È difficile pensare che la droga non la faccia da padrona, considerata l'efferatezza, la ferocia, il numero di colpi abitualmente inferti, la modalità di esecuzione, le varie, più disparate e occasionali armi usate, l'insistenza, la premeditazione, l'accanimento, il senso di impunità. Tutte queste sono evidentemente conseguenze anche della droga, questi sono gli immancabili effetti delle sostanze.
Certo il disagio giovanile, l'abbandono, i problemi personali, familiari, sociali, la fragilità psicologica o psichica… ma se a questo aggiungi il sentimento di onnipotenza, la sensazione di sentirsi dei semidei che la droga ti porta, la forza incontrollata e spropositata di cui ti carica, allora si riesce a rendersi conto maggiormente degli avvenimenti in questione. 
Perché non si dice e non si scrive — o si dice e si scrive troppo poco — che c'è sempre, quasi sempre di mezzo la droga, in tutti o quasi tutti questi drammaticissimi fatti? 
L'altra considerazione la buttiamo lì noi come diretta conseguenza della prima: tantissimi giovani pensano di essere al mondo inutilmente, vanamente. Ritengono che non ci sia nulla che valga veramente la pena. Che nella realtà non ci sia una presenza, un volto, una chiamata. A dire il vero questo lo pensano in genere gli adulti, allora al ragazzo rimane un unico scopo, un unico desiderio: il potere
La vita è, conta, e tu vali, solo se hai potere. Quale potere più grande, pertanto, per un giovane che quello di uccidere. Di uccidere sé stesso, i propri cari, di martoriare il proprio corpo con la droga, l'anoressia, la bulimia, il cambiare sesso, "scegliere l'omosessualità", il bullismo, sfregiare il volto con l'acido, il femminicidio, il gioco d'azzardo, internet… Tutte queste esperienze sono manifestazioni del potere di cui io ho bisogno per vivere, per essere, per contare.  
Ecco, se la logica del mondo è questa, se il senso della vita è solo il possesso, il potere, il comando, allora si capisce, è inesorabilmente inevitabile, che la droga sia il potente alimento, il necessario utilissimo alleato per questo. Se la vita non è un imprevisto, un dono immenso e affascinante pur nella sua drammaticità, non resta che esercitare un potere, voluto come altrettanto immensamente grande. Appunto, innanzitutto verso di me, sulla mia persona; sui miei cari (le tante e infinite violenze intra-familiari), principalmente verso e contro i genitori, in quanto ritenuti responsabili e rappresentanti di una promessa tradita.
4/ "I no impossibili dei genitori ai loro ragazzi" di Antonio Polito, Corriere della Sera, 13.1.17
Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. Da quando si aggrappano a noi per tirarsi in piedi facendoci sentire onnipotenti, a quando noi ci aggrappiamo a loro per frenarne il delirio di onnipotenza, passa tanto tempo. Ci sembrano sempre nati ieri; ma sedici, diciotto anni sono abbastanza per fare del nostro bambino un individuo dotato di libero arbitrio, di conseguenza diverso da noi. Talvolta estraneo. O addirittura nemico.
Riccardo e Manuel, i due complici del parricidio e matricidio di Pontelangorino di Codigoro, sono una storia a sé. Il loro è un comportamento deviante, materia per giudici e psichiatri. Ma anche quei due adolescenti in fin dei conti sono millennials, come chiamiamo con enfasi anglofona i ragazzi di oggi. E lo sappiamo, ce lo raccontiamo ogni giorno, che tra la generazione Y (ormai quasi Z) e quella dei genitori è aperto oggi un conflitto molto aspro. Ce l’hanno con noi. Sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello che abbiamo trovato.
Insieme con il trasferimento del reddito, si è però interrotto il canale di trasmissione di molti altri beni dai padri ai figli. Di valori, per esempio; di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune, perfino di lingua (si diffonde un italiano sempre più maccheronico). Si è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia viene per l’appunto dal latino «tradere», trasmettere. I ragazzi vivono così in un mondo in cui le cose che contano sono diverse da quelle che contano per i genitori. Ma il guaio è che è il loro mondo a essere quello ufficiale e riconosciuto, vezzeggiato e corteggiato, perché sono loro i nuovi consumatori.
Al centro di questo mondo c’è una cultura del narcisismo, per usare l’espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso», «realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un’educazione sentimentale è un’educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei calciatori e delle stelline. I genitori, anche i migliori, sono rimasti soli. È finito il tempo in cui «i metodi educativi in famiglia non venivano smentiti o condannati dal contesto», protesta Massimo Ammaniti ne Il mestiere più difficile del mondo, il libro scritto con Paolo Conti e pubblicato dal Corriere. Oggi invece la smentita è continua.
Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche dell’individuo e non nella cultura della nostra società, come se la risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don Bosco. È dunque perfino ovvio che l’epicentro di questo terremoto sia la scuola. E che il conflitto più aspro con i nostri figli avvenga sul loro rendimento scolastico. A parte una minoranza di dotati e di appassionati, per la maggioranza dei nostri figli lo studio è inevitabilmente sacrificio, disciplina, impegno, costanza. Tutte cose che non c’entrano niente con il narcisismo del tempo.
Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. I ragazzi fanno cose inaudite pur di sottrarsi. L’aneddotica è infinita. C’è la giovane che riesce a ingannare i genitori per anni, fingendo di fare esami che non ha mai fatto ed esibendo libretti universitari contraffatti. C’è il ragazzone che scoppia a piangere come un bambino ogni volta che il padre accenna al tema dello studio. C’è quello che dà in escandescenze. Quello che mette il cartello «keep out» sulla porta della cameretta. Quello che non toglie le cuffie dell’iPod. Padri e madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati? Lo spaesamento è testimoniato dall’espressione che usiamo correntemente nelle nostre conversazioni: «Ciao, che fai?». «Sto facendo fare i compiti a mio figlio». «Far fare», un unicum della lingua italiana, una costruzione verbale che si applica solo alla lotta quotidiana con gli studi dei figli.
Bisognerebbe invece fare qualcosa. Ci vorrebbe una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell’educazione, e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo. Ma i miei figli cantano, insieme con Fedez: «E ancora un’altra estate arriverà/ e compreremo un altro esame all’università/ e poi un tuffo nel mare / nazional popolare/ La voglia di cantare non ci passerà».
5/ "Tocca a noi adulti riempire il vuoto del loro futuro" di Michela Marzano, La Repubblica 14.1.17

Increduli prima di riconoscere che dalle loro parti c’è poco da fare: si sta insieme, si fa un giro, si gioca alla playstation, si mangia una pizza, si fuma. Poco o niente, quindi. Come se la vita fosse vuota, non solo di progetti, ma anche di senso. Ma basta questo vuoto a spiegare l’accaduto? È il vuoto che porta a non rendersi conto delle conseguenze di quello che si fa e della gravità dei propri gesti?

... forse si dovrebbe fare una seria riflessione sulla condizione esistenziale in cui si trovano oggi tanti giovani, persi in un mondo ormai privo di punti di riferimento e di regole, spesso abbandonati a loro stessi, quasi sempre incapaci di proiettarsi nel futuro. Ragazzi che, talvolta, crescono convinti che nella vita funzioni tutto come all’interno di un videogioco — dove si vince o si perde, ma in fondo poco importa, basta aspettate la partita successiva, ricominciare da capo, e poi ancora di nuovo, tanto c’è sempre tempo per una rivincita. Oppure anche pieni di rabbia e sfiduciati: nella vita non cambia mai nulla, a che serve impegnarsi, è così che vanno le cose, per noi non c’è futuro. In quale futuro può d’altronde proiettarsi un adolescente che passa ore e ore di fronte a una playstation, salta la scuola, si rifiuta di aiutare i propri genitori a casa o al lavoro, e aspetta solo che arrivi la sera per ricominciare il giorno dopo a vivere esattamente nello stesso modo? Cosa siamo capaci di trasmettere o insegnare ai nostri figli sul senso della vita quando li lasciamo crescere così, giustificandoli magari sempre e comunque, tanto sono ancora giovani?

Pare che adesso i due adolescenti si siano resi conto di quello che hanno fatto. Pare che, tornati progressivamente alla realtà, siano sconvolti, esattamente come i genitori di uno di loro che parlano del figlio come di un ragazzo come tanti: una storia «normale», una realtà «normale», una vita «normale». La madre non esita a difenderlo — ma anche questo sembra «normale », è sua madre, non si smette mai di voler bene a un figlio. Se lui è colpevole dovrà pagare, dichiara la donna, aggiungendo però che, secondo lei, il figlio era sotto ricatto per una storia di soldi: lui passava il tempo chiuso in camera sua a giocare alla playstation, non sarebbe successo nulla se «ci fosse rimasto anche quella notte».
In tutta questa “normalità”, sorge tuttavia il sospetto che, a forza di capire e perdonare, i genitori non aiutino così tanto i propri figli a crescere e ad assumersi la responsabilità dei propri gesti. Certo, un genitore non può smettere di voler bene ai figli. Ma voler bene non significa anche far prendere loro coscienza del fatto che la realtà è irreversibile e che, quando si agisce, non basta un “clic” per tornare sui propri passi?
C
redo sia un errore ignorare il fatto che, nel vuoto esistenziale di tanti adolescenti, ci sia anche un vuoto di limiti e di regole: questo si fa, questo non si fa, questo si dice, questo non si pensa nemmeno. Forse è questa la lezione da trarre da tutta la vicenda: ripensare i rapporti che esistono oggi tra giovani e adulti, e chiedersi se i veri problemi ce li abbiano gli adolescenti — che sono certamente sempre più incapaci di distinguere il mondo reale da quello virtuale; che sembrano un po’ tutti alla ricerca di senso; che manifestano sempre più spesso segni di malessere, facendo del male agli altri e a loro stessi — oppure gli adulti — forse non più in grado di insegnare ai ragazzi che la vita, in fondo, è il risultato delle scelte che si fanno giorno dopo giorno. Il futuro non è vuoto per definizione. Lo si costruisce (e riempie) quotidianamente. Con sforzi e sacrifici che a volte possono sembrare inutili, ma che tante altre volte ci permettono di essere fieri dei risultati raggiunti.

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