RIFLESSIONI. Enzo Bianchi: "Pregare ai tempi della pandemia" e "Sguardi della tenerezza.". Antonio Scurati:"Il coronavirus ha segnato la fine di un'epoca"
Pregare ai tempi della pandemia. Noi, accanto al cuore di Dio
Papa Francesco ha avuto l’audacia di porsi come intercessore per l’umanità colpita dal coronavirus. Lo ha fatto andando a pregare davanti all’icona di Maria Salus populi romani e poi davanti allo storico Crocifisso nella chiesa di San Marcello al Corso, lo stesso che Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 volle in San Pietro per la liturgia di confessione dei peccati commessi dalla Chiesa nella storia. Il Papa ha detto: «Ho chiesto al Signore di fermare l’epidemia: fermala, Signore, con la tua mano!».
Parole ispirate dalla fede e dalla convinzione dell’efficacia della preghiera. Sono però parse stonate ad alcuni che hanno sottolineato come la vittoria sul virus si può ottenere grazie alla competenza umana e soprattutto alla ricerca scientifica e alla medicina. Dobbiamo essere sinceri e ammettere che per l’uomo secolarizzato di oggi è difficile, se non impossibile, pensare a un Dio che interviene a togliere il male. Questo soprattutto dopo l’acquisizione, anche nel pensare la fede, che Dio non manda il male per castigare i nostri peccati, perché non vuole la morte dei peccatori ma che essi si convertano e vivano.
Nel nostro immaginario devoto non abbiamo più la concezione di un Dio irato, che punisce o interviene, in nome di una giustizia da noi pensata umanamente, per sanzionare i nostri comportamenti e forzarci al bene. Abbiamo perduto anche l’immagine di un Dio che può liberarci qui e ora dal male in cui gemiamo e soffriamo. Come dunque pregherà un cristiano nell’ora del bisogno, della sofferenza e della morte? Cosa chiederà?
Parole ispirate dalla fede e dalla convinzione dell’efficacia della preghiera. Sono però parse stonate ad alcuni che hanno sottolineato come la vittoria sul virus si può ottenere grazie alla competenza umana e soprattutto alla ricerca scientifica e alla medicina. Dobbiamo essere sinceri e ammettere che per l’uomo secolarizzato di oggi è difficile, se non impossibile, pensare a un Dio che interviene a togliere il male. Questo soprattutto dopo l’acquisizione, anche nel pensare la fede, che Dio non manda il male per castigare i nostri peccati, perché non vuole la morte dei peccatori ma che essi si convertano e vivano.
Nel nostro immaginario devoto non abbiamo più la concezione di un Dio irato, che punisce o interviene, in nome di una giustizia da noi pensata umanamente, per sanzionare i nostri comportamenti e forzarci al bene. Abbiamo perduto anche l’immagine di un Dio che può liberarci qui e ora dal male in cui gemiamo e soffriamo. Come dunque pregherà un cristiano nell’ora del bisogno, della sofferenza e della morte? Cosa chiederà?
Tutta la Scrittura, nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento, ci testimonia preghiere rivolte a Dio o a Gesù per la guarigione, fino alla richiesta di vittoria sulla morte. Mosè, quando sua sorella Maria fu colpita dalla malattia della lebbra, gridò al Signore: «Dio, ti prego, guariscila!» (Nm 12,13) e a Gesù tante volte fu chiesta la guarigione, dai malati stessi o da altri che glieli presentavano. Dunque con fede, semplicità e confidenza filiale in quest’ora di epidemia possiamo chiedere a Dio: «Ferma questa pestilenza! Liberaci da questa pandemia!». Non dimentichiamo che questa preghiera fiduciale è la stessa che la Chiesa ha sempre fatto per chiedere la pioggia, il ritorno del sereno, o per la liberazione da tempeste, dalla fame e dalla guerra.
Ma attenzione, il cristiano è ben consapevole: con questa formulazione di preghiera non pretende, non detta a Dio il comportamento, ma semplicemente denuncia davanti a lui il dolore che assale l’umanità e la potenza della morte che avanza. D’altronde Gesù stesso nel Getsemani di fronte alla morte violenta che stava per raggiungerlo pregò così: «Padre, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36). Il Padre non gli tolse quel calice che Gesù, restando fedele alla sua vocazione e alla sua verità, non poteva non bere. Significativamente però, come attesta il Vangelo secondo Luca, gli mandò un messaggero, un “angelo interprete”, a consolarlo e a sostenerlo nella prova (cf. Lc 22,43). Potremmo dire che lo Spirito santo si fece consolatore di Gesù e, come l’aveva fortificato nel deserto di fronte alla tentazione del demonio, lo sostenne al momento della sua passione e morte.
Dio risponde sempre alla nostra preghiera, che noi dobbiamo fare con insistenza, senza venir meno: non per affaticare Dio, ma per invocarlo accanto a noi, per entrare nel mistero della sua presenza amorosa e accogliere il suo Spirito santo. Sì, perché Gesù ha detto: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono» (Lc 11,13).
Ma attenzione, il cristiano è ben consapevole: con questa formulazione di preghiera non pretende, non detta a Dio il comportamento, ma semplicemente denuncia davanti a lui il dolore che assale l’umanità e la potenza della morte che avanza. D’altronde Gesù stesso nel Getsemani di fronte alla morte violenta che stava per raggiungerlo pregò così: «Padre, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36). Il Padre non gli tolse quel calice che Gesù, restando fedele alla sua vocazione e alla sua verità, non poteva non bere. Significativamente però, come attesta il Vangelo secondo Luca, gli mandò un messaggero, un “angelo interprete”, a consolarlo e a sostenerlo nella prova (cf. Lc 22,43). Potremmo dire che lo Spirito santo si fece consolatore di Gesù e, come l’aveva fortificato nel deserto di fronte alla tentazione del demonio, lo sostenne al momento della sua passione e morte.
Dio risponde sempre alla nostra preghiera, che noi dobbiamo fare con insistenza, senza venir meno: non per affaticare Dio, ma per invocarlo accanto a noi, per entrare nel mistero della sua presenza amorosa e accogliere il suo Spirito santo. Sì, perché Gesù ha detto: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono» (Lc 11,13).
Ogni nostra preghiera rivolta a Dio è sempre epiclesi, invocazione della discesa dello Spirito; e se non siamo liberati dal male, siamo comunque aiutati dallo Spirito stesso ad attraversare questa notte tenebrosa, sapendo che il Signore è accanto a noi. Come sta scritto nel salmo: «Così dice il Signore: Mi invocherà e io gli darò risposta, io sarò con lui nell’angoscia» ( Sal 91,15). Ecco perché in questi giorni nella nostra preghiera, quella a cui ci invita il Papa, quella spontanea dei credenti (a cui dà “luogo” stasera alla 21 a Brescia il Rosario promosso, anche in tv e sul web, dai media cristianamente ispirati), chiediamo che lo Spirito Santo ispiri la nostra azione, ci sostenga nel prenderci cura dei bisognosi e ci faccia sentire la presenza di Dio accanto a noi. Ma una forma semplice come quella utilizzata dal Papa – «Signore, ferma l’epidemia!» – è un grido che Dio certamente ascolta e comprende; soprattutto, è un grido che predispone chi lo eleva ad abbandonarsi con fiducia nel Signore. Nella preghiera è il nostro cuore che vuole stare accanto al cuore di Dio e le parole vanno comprese con il cuore. Per questo possiamo dire: «Signore, aiutaci, allontana da noi l’epidemia, fa’ trionfare la vita sulla morte!» e, nello stesso tempo, impegnarci per essere suoi strumenti in questa lotta contro il male. Papa Francesco ci ha chiamati a mezzogiorno di oggi alla preghiera comune del Padre Nostro, invitando tutti i cristiani e tutte le Chiese: sarà un’intercessione che ci vedrà concordi nel chiedere a Dio quei doni che sono necessari e che egli, quale Padre buono, non ci negherà. Pregheremo insieme: «Liberaci del male!».
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Emergenza coronavirus
"Gli sguardi della tenerezza"
di Enzo Bianchi
È possibile pensare ad altro, in questo tempo in cui stiamo soffrendo a causa dei diversi atteggiamenti da assumere per difendere da questo nemico invisibile noi stessi, le persone che amiamo e gli altri?
Credo sia impossibile, anche perché non appena ci fermiamo a riflettere, ci poniamo inevitabilmente domande che non ci esentano dal pensare alla morte. Sì, la morte che ormai ha colto non solo “altri”, ma anche persone care, qualcuno con un volto per noi riconoscibile, che aveva una famiglia, degli amici, un lavoro, una vita di relazioni.
Sappiamo inoltre che quanti muoiono per questo virus vengono portati via da casa e strappati improvvisamente agli affetti dei loro cari, affetti che non possono più essere manifestati; diventano da un giorno all’altro persone sole, in mano a estranei ed entrano in un processo medico che, pur curandoli, li fa sentire abbandonati. Quanti uomini e donne ho ascoltato in questi giorni dire: «L’hanno caricato sull’ambulanza, non abbiamo potuto seguirlo, né avere sue notizie fino a quando ci è giunta la comunicazione della sua fine. E poi nessun saluto neppure al corpo morto, ma solo una bara anonima tra tante altre portate via, senza un possibile congedo».
La paura di tanti, soprattutto anziani, è di ammalarsi e morire soli, lontani da chi si ama e senza neppure quei segni religiosi così importanti per chi ha una fede cristiana. Il sentimento che molti conoscono di fronte a questi eventi è certo la compassione, un “soffrire insieme”. Questa compassione viene però vissuta in modo parziale, e in verità è ridotta a poco più che una semplice afflizione: sentimenti, emozioni, dolore, senza però poter compiere un gesto, senza poter fare nulla di concreto per chi soffre o muore.
Certo, si può anche piangere, ma senza potersi prendere cura di chi muore, in un’impotenza disperante. Siamo chiamati ad accettare un “non fare” perché qualsiasi gesto ci è impedito, al fine di vincere questo male, di predisporre tutto perché la vita possa vincere. Dobbiamo assolutamente accettare questa realtà, non esorcizzarla e neppure rimuoverla con espedienti che vorrebbero renderci ciechi e assicurarci un’immunità che non è per tutti. Siamo insieme “sulla stessa barca”, giovani e vecchi, insieme dobbiamo anche stare in silenzio e assumere queste domande mute senza cedere al fatalismo, bensì con la volontà di combattere contro la morte: la morte che deve interrogarci affinché prendiamo sul serio la vita. Pensare la morte, infatti, è pensare la vita, anche se in questo momento fatichiamo a comprenderlo. Come scrive Fernando Savater: «Si diventa umani quando si assume, anche se mai del tutto, la certezza della morte».
Intanto, proprio nello spazio chiuso nel quale in questi giorni siamo costretti ad abitare con quanti condividono con noi la vita, cerchiamo di avere sguardi di tenerezza, di scambiare parole che aiutino la convivenza, di amarci come viandanti che sanno che il viaggio finisce. Perché ciò che davvero conta è come si è percorso insieme il viaggio della vita