Ancora sugli effetti del Coronavirus nella fede


Ora anche nel centro e sud Italia le Chiese interrompono le attività extra-sacramentali (catechesi, oratorio...) e si continua a riflettere sugli effetti della paura del contagio sulla vita dei fedeli. C'è il senso di responsabilità da parte della Chiesa, pronta a fare ciò che gli esperti ritengono opportuno per arginare l'epidemia, ma anche diverse obiezioni rispetto alle forti limitazioni religiose. 
Vedi ad esempio ciò che scrive Andrea Riccardi (e, in fondo, alcune riflessioni dello storico Franco Cardini che ricorda come "Un tempo durante le epidemie si pregava; oggi si chiudono le chiese"):
(..) Non sono un epidemiologo, ma ci troviamo davvero di fronte a rischi così grandi da rinunciare alla nostra vita religiosa comunitaria? La prudenza serve, ma forse ci siamo fatti prendere la mano dalla grande protagonista del tempo: la “paura”. Peraltro negozi, supermercati e bar (in parte) sono aperti, mentre bus e metro funzionano. E giustamente. Le chiese invece sono state quasi equiparate a teatri e cinema (obbligati alla chiusura). Possono restare aperte, ma senza preghiera comune. Che pericolo sono le messe feriali, cui partecipa un pugno di persone, sparse sui banchi in edifici di grande cubatura? Meno che un bar o la metro o un supermercato. Solo in Emilia sono state permesse le messe feriali.
Un forte segnale di paura. Ma anche l’espressione dell’appiattimento della Chiesa sulle istituzioni civili. Le chiese non sono solo “assembramento” a rischio, ma anche un luogo dello spirito: una risorsa in tempi difficili, che suscita speranza, consola e ricorda che non ci si salva da soli. (...) Di certo la preghiera comune in chiesa alimenta speranza e solidarietà. Si sa come motivazioni, forti e spirituali, aiutino a resistere alla malattia: è esperienza comune.
Il sociologo americano Rodney Stark, scrivendo sull’ascesa del cristianesimo nei primi secoli, nota come fu decisivo il comportamento dei cristiani nelle epidemie: questi non fuggivano come i pagani fuori dalle città e non sfuggivano agli altri, ma, motivati dalla fede, si visitavano e sostenevano, pregavano insieme, seppellivano i morti. Tanto che il loro tasso di sopravvivenza fu più alto dei pagani per l’assistenza coscienziosa, pur senza medicamenti, e per il legame comunitario e sociale. I tempi cambiano, ma le recenti misure sul coronavirus sembrano banalizzare lo spazio della Chiesa, rivelando la mentalità dei governanti.
Di fronte alla “grande paura”, parla solo il messaggio della politica, unica e incerta protagonista di questi giorni. Il silenzio nelle chiese (anche se aperte) è un po’ un vuoto nella società: il libero trovarsi insieme nella preghiera sarebbe stato ben altro messaggio, anche se ci vogliono prudenza e autocontrollo. Social, radio e televisione non lo sostituiscono.
Si capisce perché l’arcivescovo di Torino, monsignor Nosiglia, lamenti che, nell’ordinanza della Regione Piemonte (simile alle altre del Nord) «i servizi religiosi vengano considerati superflui e quindi non esenti da provvedimenti restrittivi». È così: “superflui”. È un fatto su cui riflettere: prodotto di una politica che insegue la paura, anche se talvolta esibisce simboli religiosi. Ma il simbolo religioso, per eccellenza, è la comunità in preghiera.
Nemmeno ai tempi dei bombardamenti e del passaggio del fronte durante la seconda guerra mondiale (quando la Chiesa fu l’anima della tenuta di un popolo), si chiudevano le chiese e si sospendevano le preghiere. Anzi il popolo si radunava fiducioso in esse, nonostante i pericoli di bombe e massacri. Forse la collaborazione dell’autorità ecclesiastica locale con quelle regionali è stata troppo intesa come subordinazione a quest’ultima. Si finisce così per banalizzare la presenza e l’apporto della Chiesa, che dà invece un suo contributo alla vita delle persone. Si svolgono tristi funerali al cimitero, con solo pochi familiari. Il “silenzio” e la solitudine religiosa sono un aggravio tra le difficoltà. Proviamo ad ascoltare i sentimenti del “popolo di Dio”: a Padova la famiglia di una quattordicenne, stroncata da un malore, ha rifiutato il funerale privato e l’ha ottenuto dalle autorità all’aperto per far partecipare tanti giovani.
Questi sono gli ultimi articoli che ho trovato:
«Dio onnipotente ed eterno, dal quale tutto l’universo riceve l’energia, l’esistenza e la vita, noi veniamo a te per invocare la tua misericordia,

poiché oggi sperimentiamo ancora la fragilità della condizione umana nell’esperienza di una nuova epidemia virale.
Noi crediamo che sei tu a guidare il corso della storia dell’uomo e che il tuo amore può cambiare in meglio il nostro destino, qualunque sia la nostra umana condizione.
Per questo, affidiamo a te gli ammalati e le loro famiglie:
per il mistero pasquale del tuo Figlio
dona salvezza e sollievo al loro corpo e al loro spirito.
Aiuta ciascun membro della società a svolgere il proprio compito, rafforzando lo spirito di reciproca solidarietà.
Sostieni i medici e gli operatori sanitari,
gli educatori e gli operatori sociali nel compimento del loro servizio.
Tu che sei conforto nella fatica e sostegno nella debolezza,
per l’intercessione della beata Vergine Maria e di tutti i santi medici e guaritori, allontana da noi ogni male.
Liberaci dall’epidemia che ci sta colpendo
affinché possiamo ritornare sereni alle nostre consuete occupazioni e lodarti e ringraziarti con cuore rinnovato.
In te noi confidiamo e a te innalziamo la nostra supplica,
per Cristo nostro Signore. Amen» (Nosiglia)
Sono giorni strani, giorni “senza” (senza messe, nessun evento, pochi contatti…) e la prima cosa che balza al cuore, per me, è un sentimento di precarietà della vita. Mia e dei miei cari, mia e del mondo. La vita è mia ma non dipende da me. Basta un invisibile virus, anche se dal nome regale…
Eppure voglio fare qualcosa, dare un senso a questi giorni di crisi, in questo inizio di quaresima.
Voglio accogliere questa precarietà (che siano queste le ‘ceneri’ della liturgia?…), non solo accettarla ma accoglierla, e farne nascere una maggiore empatia con la fragilità degli altri.
Sono davanti a un bivio: posso alimentare la paura, con le sue chiusure paralizzanti e le critiche distruttive, oppure posso sentirmi coinvolto e responsabile, base del vivere civile, e cristiano.
Il vangelo domenica accendeva una luce sulla precarietà:
Non di solo pane vive l’uomo!L’uomo non vive solo trasformando le pietre in pane, o in beni economici, vive anche della contemplazione delle pietre del mondo, vive di bellezza, di relazioni e di sapienza. La vita vive anche di vita donata alla cura d’altri.
Allora a cosa dedicare questi giorni “senza”? A riempire i carrelli dei supermercati? Molto meglio dedicarli a qualcosa che spesso fuggiamo come un nemico: l’interiorità. E se provassimo a prenderci del tempo? “Perdonate se non ho guardato / con la dovuta attenzione tutte le meraviglie/ quotidiane. I passaggi di luce, le stagioni. / Certe facce. O musi. Se non ho adorato/ la varietà mutevole del mondo…” (Mariangela Gualtieri)
Per esempio, mi prendo tempo per il silenzio – spengo la tv, incubatrice di paure, e lo smartphone contagiatore, che le diffonde alla massima velocità – per vivere momenti di solitudine amica. Posso meditare, pregare, uscire a camminare Vivere la pura gioia di pensare, di leggere, di fare arte. Di viaggiare interiormente in compagnia dei grandi di ogni tempo.
Mi prendo il tempo per la famiglia, per le relazioni, per una visita a persone che non vedo da tempo. Per riaccendere il telefono e chiamare un amico.
Di questi giorni io vorrei salvare la consapevolezza che siamo tutti interconnessi, che facciamo rete insieme, e che in ciascuno c’è l’orma di ognuno.
Vorrei che restasse, di questi giorni, l’idea che possiamo ricompattarci, e avere fiducia negli scienziati e anche negli amministratori. La convinzione che io non posso, con le mie scelte, smagliare questa rete, facendo di testa mia, aprendo così un buco o una breccia nella diga comune.
Forse ce la faremo a salvare, di questi giorni, anche un senso di solidarietà:
la tua vita è anche la mia vita. E anch’io collaboro, obbedisco alle disposizioni, mi comporto con cautela e responsabilità. Perché proteggendo me stesso, proteggo i più deboli: anziani, adulti e bambini malati…
Voglio investire le mie energie, in questa quaresima strana, non per demolire ma per costruire qualcosa, perché sia più viva e più solidale la nostra Casa comune. (E. Ronchi)
Professor Cardini, qual è oggi la reazione del credente all’epidemia?
«In Italia e in Occidente si osserva una reazione infantile. I numeri attuali dell’emergenza dovrebbero indurci a un atteggiamento responsabile. E cioè, come credenti, dovremmo pensare che ogni giorno nel mondo muoiono migliaia di bambini per fame o per mancanza di cure. Se non si fa questa distinzione, ogni ragionamento è falsato».
Come si comportavano nel passato i cristiani nelle situazioni di emergenza?
«Una volta si aveva fede. Fino alla rivoluzione industriale, si sapeva poco della trasmissione dei virus. La medicina dell’epoca pensava che il contagio avvenisse per la corruzione dell’aria. La teoria aristotelica dei quattro elementi (terra, aria, fuoco e acqua) valeva per la composizione sia del mondo sia del corpo umano. Se uno dei quattro elementi si alterava, se un umore si corrompeva, allora si manifestava la malattia. Il compito della scienza era quello di cercare di riequilibrare gli umori nell’organismo».
La fede prevaleva sulla scienza?
«Bisogna intendersi sui termini. Attenzione a definire quelle pre-illuministiche come credenze pseudo-scientifiche. Erano le risposte che il sapere di allora riusciva a dare per fronteggiare l’epidemia. Tra pochi decenni diranno le stesse cose delle odierne soluzioni proposte dalla medicina contro il Coronavirus. La differenza semmai è un’altra».
Quale?
«Le cause dell’epidemia venivano rintracciate nella corruzione dell’aria o negli influssi delle stelle, ma in passato prevaleva la granitica convinzione che tutto fosse sovrastato dalla volontà divina. Dall’Illuminismo in poi, invece, l’Occidente ha cominciato a ragionare per individui e non come collettività. E questo è un grave errore perché, come ci ricorda Papa Francesco, non si devono confondere gli individui con le persone».
Dov’è la differenza?
«Si è persona se si entra in relazione con gli altri, relativizzando se stesso rispetto alla società. Aver reciso il cordone con il sacro ha portato ad assolutizzare l’individuo e ciò spiega perché ci comportiamo da bambini sciocchi davanti al Coronavirus. Noi occidentali abbiamo scoperto una quantità di cose, abbiamo fatto progredire la conoscenza umana ma abbiamo perso il senso del sacro».
Che tipo di fede prevale?
«Una fede fragile e individualista. La nostra fede in Dio zoppica. Oggi non faremmo mai una novena affinché Dio ci liberi dall’epidemia. Sarebbero gli stessi medici cattolici ad ammonirci di pregare in casa. L’epidemiologia moderna è un incentivo alla nostra carenza di fede. Siamo dentro un cortocircuito da cui non riusciamo a uscire. Oggi la gente si preoccupa dei pericoli naturali e solo in un secondo momento pensa che Dio ci aiuti. Dilaga l’errata convinzione che pregare privatamente e pregare insieme siano la stessa cosa».
Non è così?
«No, assolutamente. Cito un episodio emblematico. Sant’Agostino vide Sant’Ambrogio meditare in silenzio la parola di Dio e ne rimase sconvolto perché era abituato alla preghiera a voce alta e collettiva come nella tradizione latina. Oggi non capiamo lo stupore di Sant’Agostino perché pensiamo che non sia importante se la preghiera sia individuale o comunitaria».
Non si prega da soli?
«Esiste ovviamente la preghiera mistica che si fa in silenzio e da soli, ma, come direbbero gli ebrei, non è la preghiera che Dio predilige. La preghiera privilegiata è quella che il popolo di Dio fa, ordinatamente, tutto insieme. Una volta durante le epidemie si organizzavano novene e processioni per invocare la protezione divina, oggi si chiudono le chiese. Non andiamo a messa e quindi ci rassegniamo all’isolamento. La prudenza è sacrosanta e la scienza è preziosa, ma manca una riflessione più ampia».
È una crisi di senso?
«Sì. Abbiamo tagliato le radici che ci tenevano in contatto con la dimensione trascendente. La vera grande epidemia attuale è la nostra selvaggia e disperata paura. Durante la peste del 1630 si sapeva che la morte non è la fine di tutto. Oggi, invece, si usano i colori pastello ai funerali perché il nero e il violaceo suscitano terrore. Sono stato poco tempo fa in India e alcuni medici locali mi hanno confermato che aveva ragione Madre Teresa: la differenza tra un orientale e un occidentale è l’atteggiamento di fronte alla morte. Noi occidentali ne siamo terrorizzati, non sappiamo più morire». (La Stampa)

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