Coronavirus: trovare il bene anche nel male che stiamo vivendo
Ancora più incisive le parole, anch'esse diventate virali, di una psicologa, Francesca Morelli, che ci invita a riflettere su "ciò che ci sta spiegando il virus" (2).
Alla ricerca del senso è anche un articolo pubblicato il 10 marzo su L'Osservatore Romano ("Scoprire il senso di questa crisi") (3).
Sono parole di speranza e di fede anche quelle trasmisse (in video) da p. Ermes Ronchi e da Marina Marcolini: "Sono giorni strani, giorni “senza” (4).
Assolutamente da leggere sono poi le riflessioni di p. Maurizio Patriciello pubblicate su Avvenire ("Dio ci sta parlando ora. Che nulla di questa prova vada perduto") (5).
Alla ricerca di un senso è anche la lettera di un sacerdote romano, don Francesco Pesce, diffusa anche su Vaticanews: “Viviamo in pienezza questi giorni difficili” (6)
(1) Stasera prima di addormentarvi pensate a quando torneremo in strada.
A quando ci abbracceremo di nuovo, a quando fare la spesa tutti insieme ci sembrerà una festa. Pensiamo a quando torneranno i caffè al bar, le chiacchiere, le foto stretti uno all’altro.
Pensiamo a quando sarà tutto un ricordo ma la normalità ci sembrerà un regalo inaspettato e bellissimo. Ameremo tutto quello che fino ad oggi ci è sembrato futile. Ogni secondo sarà prezioso.
Le nuotate al mare, il sole fino a tardi, i tramonti, i brindisi, le risate.
Torneremo a ridere insieme.
Forza e coraggio.
Ci vediamo presto!
(2) Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte.Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare...In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l'economia collassa, ma l'inquinamento scende in maniera considerevole. L'aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira...In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class.In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all'altro, arriva lo stop.Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro. Sappiamo ancora cosa farcene?In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia.In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel "non-spazio" del virtuale, del social network, dandoci l'illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto.Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato?In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l'unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunita, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro.Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci.Perchè col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto. Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.
(3) (i nostri giovani hanno bisogno di avere) la conferma che, anche dentro a questo scompiglio, la vita vale la pena, che questa crisi in cui siamo affondati nasconde un senso, ancora misterioso, ma già presente. Hanno bisogno di scoprire che il vero compito assegnato, adesso, è andare alla ricerca di questo significato. È un compito per cui ci vorrà tutta la vita, ma il cui unico rischio è la salvezza e una trasmissione positiva alle generazione successive. Non molto lontano da dove sono nato, in provincia di Arezzo, nella pieve di San Pietro a Romena (XII sec.), in uno dei capitelli, uno scultore ignoto ha inciso la scritta Tempore famis, volendo tramandarci una certezza, un onore e una dignità che oggi abbiamo smarrito. In tempo di fame. La gente moriva di fame e intanto edificava chiese e realizzava opere d’arte. Come scrive Guido Tonelli nel saggio Genesi, il grande racconto delle origini (Feltrinelli, 2019), se gli uomini delle caverne, nelle condizioni precarie in cui vivevano, sono stati disposti ad investire energie, risorse e tempo per realizzare le pitture rupestri, sottraendoli ad attività come la caccia, la costruzione di ripari e altre cose di più immediata utilità, ciò significa che proprio nelle condizioni più avverse è supremamente necessario scoprire e narrare un punto oltre la contingenza delle cose. Occorre individuare cioè un punto a cui ancorare la propria presenza nel mondo. Qualcosa che affermi il significato della nostra esistenza e del senso della fatica ad essa connessa.
Questa è la speranza che nutro per i miei figli studenti e per tutti in questo particolarissimo tempo di fame; questo è l’augurio che faccio a loro e a tutti noi: trovare persone in grado di mostrare che anche in questa circostanza vale la pena affrontare la partita, perché siamo più del rischio di un contagio. Viviamo un tempo privilegiato, proprio perché non si può più perdere tempo. C’è da scoprire chi siamo e cosa sostiene il nostro essere qui ora. Tempore pestilentiae, e non è un’esercitazione.
(4) Sono giorni strani, giorni “senza” (senza messe, nessun evento, pochi contatti…) e la prima cosa che balza al cuore, per me, è un sentimento di precarietà della vita. Mia e dei miei cari, mia e del mondo. La vita è mia ma non dipende da me. Basta un invisibile virus, anche se dal nome regale… Eppure voglio fare qualcosa, dare un senso a questi giorni di crisi, in questo inizio di quaresima. Voglio accogliere questa precarietà (che siano queste le ‘ceneri’ della liturgia?…), non solo accettarla ma accoglierla, e farne nascere una maggiore empatia con la fragilità degli altri. Sono davanti a un bivio: posso alimentare la paura, con le sue chiusure paralizzanti e le critiche distruttive, oppure posso sentirmi coinvolto e responsabile, base del vivere civile, e cristiano.
Allora a cosa dedicare questi giorni “senza”? A riempire i carrelli dei supermercati? Molto meglio dedicarli a qualcosa che spesso fuggiamo come un nemico: l’interiorità. E se provassimo a prenderci del tempo? Per esempio, mi prendo tempo per il silenzio – spengo la tv, incubatrice di paure, e lo smartphone contagiatore, che le diffonde alla massima velocità – per vivere momenti di solitudine amica. Posso meditare, pregare, uscire a camminare. Vivere la pura gioia di pensare, di leggere, di fare arte. Di viaggiare interiormente in compagnia dei grandi di ogni tempo. Mi prendo il tempo per la famiglia, per le relazioni, per una visita a persone che non vedo da tempo. Per riaccendere il telefono e chiamare un amico. Di questi giorni io vorrei salvare la consapevolezza che siamo tutti interconnessi, che facciamo rete insieme, e che in ciascuno c’è l’orma di ognuno. Vorrei che restasse, di questi giorni, l’idea che possiamo ricompattarci, e avere fiducia negli scienziati e anche negli amministratori. La convinzione che io non posso, con le mie scelte, smagliare questa rete, facendo di testa mia, aprendo così un buco o una breccia nella diga comune. Forse ce la faremo a salvare, di questi giorni, anche un senso di solidarietà: la tua vita è anche la mia vita. E anch’io collaboro, obbedisco alle disposizioni, mi comporto con cautela e responsabilità. Perché proteggendo me stesso, proteggo i più deboli: anziani, adulti e bambini malati… Voglio investire le mie energie, in questa quaresima strana, non per demolire ma per costruire qualcosa, perché sia più viva e più solidale la nostra Casa comune.
(5) Davanti all’invisibile pollicino stanno crollando le nostre vanterie, i nostri orgogli, le nostre sufficienze. Davanti all’imprendibile moscerino ci sentiamo indifesi, spaesati, impauriti. E che dobbiamo fare? Dobbiamo mantenere la calma, essere pazienti, intelligenti, misericordiosi per poterci difendere con le poche armi che abbiamo a disposizione. Dobbiamo obbedire con fiducia assoluta a ciò che ci viene ordinato come un novizio obbedisce al suo maestro. Anche quando non ne siamo convinti, anche quando, per pigrizia, abitudine, negligenza o altro, ci verrebbe da fare diversamente. Tutto deve essere fatto per amore. “Solo per amore”. Per amore non ti abbraccio, per amore resto chiuso in casa, per amore non celebro la Messa insieme a voi, indispensabili compagni del mio pellegrinaggio. Per amore non scappo via dalla mia regione. Per amore limito i miei impegni. Possibile? Possibile che un sacerdote possa non celebrare l’Eucarestia con la sua comunità, per amore? Certo. Se serve a limitare il propagarsi di questo fastidioso, inopportuno e pericoloso ospite, volentieri celebro da solo per voi che rimanete a casa. E sappiate che lo faccio “solo per amore”. Ma un credente non sente il bisogno di accostarsi all’Eucarestia? Ci mancherebbe. Magari lo sentisse sempre. Ma Dio è più grande del nostro cuore e anche della nostra Messa. Dio lo incontro dappertutto, nella sua Parola, nei fratelli, nella preghiera. Lo incontro nello studio e nella meditazione che questo silenzio forzato mi propone. Lo incontro nell’obbedienza alla santa Chiesa. Quaresima è tempo di penitenza. Quest’anno la penitenza non la scegliamo, ci viene imposta. Non ci resta che accogliere l’invito, chinare il capo e dire con sofferta fermezza: «Sia fatta la tua volontà, Signore». Che nulla vada perduto di questa esperienza di solitudine, di silenzio, di sofferenza, di amore. Dio ci sta parlando ancora.
(6) Che cosa ci dice come Cristiani questa prova? Ci insegna qualcosa? Come leggerla e viverla da una prospettiva cristiana? Innanzitutto vorrei dire a tutti noi di sollevare lo sguardo per tornare a vedere che ci sono molti, e sono milioni, che da tanti anni vivono nel mezzo del virus della guerra, della fame e della sete, vittime di malaria e di lebbra. (...) Questa prova è arrivata nel Tempo di Quaresima. Riscoprirci fragili è l’invito del Mercoledì delle Ceneri. Questo non significa cadere nello sconforto della sofferenza e della rassegnazione. Come cristiani riscoprirsi fragili significa riconoscerci figli, bisognosi dell’aiuto del Padre. Siamo fragili ma in buone mani. Dio non ci abbandona e noi siamo chiamati a fidarci di lui. Si legge nella seconda lettera ai Corinzi: “Mi compiaccio nelle mie debolezze, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte”. Questo atteggiamento di profonda umiltà e fiducia è fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita. San Paolo comprende con chiarezza come affrontare e vivere ogni evento, soprattutto la difficoltà; nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza. (...)