Recalcati ed altri intellettuali che riflettono sulla pandemia
- Come i monaci continuiamo a studiare (e preghiamo la Madonna), di Fabrice Hadjadj
Albert Camus scrive nell’inizio della Peste:
- L’AUDACIA CHE CI È POSSIBILE (Massimo Recalcati in “la Repubblica” del 27 marzo 2020)«Benché un flagello sia un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. (…) A questo riguardo i nostri concittadini erano come tutti gli altri, erano presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni?».
Il tempo che stiamo vivendo è il tempo di un trauma collettivo, se il trauma è un evento che spezza violentemente la nostra rappresentazione ordinaria del mondo introducendo la dimensione angosciante dell’inatteso, dell’imprevedibile, dell’ingovernabile. Per Freud un evento può dirsi traumatico perché non essendo in nessun modo prevedibile ha reso impossibile qualunque forma di difesa. Nessuno infatti era preparato a una emergenza come quella che stiamo vivendo. Uno spartiacque si è scavato tra la nostra vita com’era prima e come sarà dopo. Già, ma come sarà dopo?
In un articolo ampio e ricco, pubblicato ieri sulle pagine del nostro giornale, Alessandro Baricco ci invita con decisione a pensare al tempo del dopo-trauma. Lo ha fatto evocando la figura dell’audacia. In questo tempo di crisi acuta essa appare interpretata innanzitutto dai nostri medici e dal nostro personale sanitario impegnati direttamente sul fronte tremendo della malattia. Non per spirito di avventura, ma per necessità, o, se si preferisce, per dovere etico e professionale. È un esempio notevole di rigore e passione; non indietreggiare di fronte al male, essere dove sono il dolore e la paura più grande.
Ma l’invito di Baricco all’audacia trascende il tempo dell’acuzie e anche quello delle cure mediche. Possiamo limitarci alla prudenza, necessaria per difendere la nostra vita e quella degli altri al fine di rallentare la catena del contagio, o possiamo anche cominciare a fare leva sull’audacia? Si tratta di guardare oltre mentre ancora si è chiusi nelle nostre case, impietriti dalla paura che, come è noto, non solo agli psicoanalisti, restringe forzatamente l’orizzonte del mondo. Si può rispondere in due modi alla lezione potente del trauma: fingere di tornare a vivere come prima, come se nulla fosse accaduto, dunque misconoscere la portata catastrofica del suo evento, oppure provare a trarre dalla questa impensata potenza negativa una forza nuova. Essere audaci significa per me questo: non misconoscere il trauma, ma prenderlo come un’occasione potente di trasformazione.
La psicoanalisi ne fa un caposaldo della sua pratica: la crisi più profonda può sempre rivelarsi come l’occasione straordinaria di una ripartenza. È la cicatrice viva che riconosciamo in tutte quelle persone che si sono trovate di fronte al rischio della loro morte o coinvolti in un lungo periodo di privazione e dolore e che resistendo e sopravvivendo non sono più riusciti a vivere come prima. Come se l’incontro con la possibilità concretissima della loro fine avesse esaltato la loro pulsione di vita. La loro necessità è divenuta quella di voler spendere tutto il tempo che restava della loro vita per l’essenziale; eliminare il superfluo, gli ingombri, l’impotenza e l’utopia astratta per coltivare la potenza vitale dell’essenziale.
Questa è per me una formula dell’audacia: liberarsi dei pesi che ostacolano il dispiegamento della forza vitale e scommettere sulla potenza affermativa di questo dispiegamento. Stiamo sperimentando che è diventato possibile quello che ritenevamo impossibile. Nel male questo è avvenuto con l’epidemia. Nessuno poteva immaginare che il mondo potesse fermarsi e la morte dilagare. E nel bene? Non sono già sotto ai nostri occhi le formidabili energie creative che si sono mobilitate in risposta al trauma? Solidarietà, de-burocratizzazione, impresa, flessibilità, importanza finalmente riconosciuta alla sanità e alla scuola pubblica, ai beni comuni, eccetera.
La potenza di quello che sta accadendo non può esaurirsi nella sola risposta collettiva (necessaria) del distanziamento sociale. Bisogna anche accorciare i tempi, liberare le forze produttive, favorire progetti, visioni e azioni inaudite almeno quanto lo è stato, nel male, il trauma dell’epidemia. Ogni trauma esige, infatti, che la ripartenza sia audace perché la sua potenza negativa possa convertirsi in una opportunità affermativa. L’impossibile che diviene possibile non deve accadere solo sul piano angosciante di un dramma totalmente inatteso e sconvolgente che si è realizzato come il nostro peggiore incubo, ma deve ispirare anche la dimensione generativa delle nostre scelte future: l’audacia di imprese collettive ritenute impossibili che diventano finalmente possibili.
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