"Mind the economy": Vittorio Pelligra e "la potenza dei simboli del Natale"


Vittorio Pelligra è un professore di Politica Economica all'Università di Cagliari che, sul Il Sole 24 Ore, cura la rubrica domenicale Mind The Economy dedicata a temi economici legati alla società, alla religione, alla condizione umana in generale. Sono quindi riflessioni interessanti e non riservate agli addetti ai lavori. Il suo ultimo articolo è su: "La forza della reciprocità e la potenza dei simboli del Natale" (in fondo al post vedi la lista dei suoi ultimi articoli):

La tregua militare tra tedeschi e anglo-francesi della notte della vigilia di Natale del 1914 sta sempre lì a ricordarci la naturale socievolezza della nostra specie, la semplice bellezza delle relazioni umane e la potenza straordinaria dei simboli

di Vittorio Pelligra
(Agf Creative)
(Agf Creative)
Cooperare significa trovarsi in una situazione di potenziale conflitto e scegliere, invece, di aiutarsi reciprocamente. “Reciprocamente” è la parola chiave, perché è la reciprocità la chiave della nostra capacità di fare le cose insieme. È un legame potente, il cemento della società. Ci tiene uniti e ci consente di stabilire relazioni cooperative e di mutuo vantaggio anche tra estranei, anche tra soggetti non correlati geneticamente, anche in interazioni sporadiche e non ripetute e perfino in situazioni di conflitto aperto.
“Quid pro quo” dicevano i latini, “tit-for-tat”, traducono oggi i teorici dei giochi. La reciprocità, nella sua versione “diretta”, è la disponibilità ad essere gentili, quando la gentilezza ha un costo, verso chi è stato gentile con noi, ma anche di punire, sempre in maniera costosa, chi ci ha danneggiati. La sua versione “indiretta” implica che l’essere stato aiutato da qualcuno mi spinga a voler aiutare un terzo.
Osserviamo innumerevoli esempi di reciprocità diretta e indiretta, in natura: dalle cernie che imparano ad allearsi con murene e labri, alle scimmie antropomorfe che si spulciano vicendevolmente con grande e mutua soddisfazione, dagli spinarelli che si nutrono in coppia, fino ai pipistrelli vampiro che si scambiano il cibo affinché nessuno, nel gruppo, patisca la fame.
Il primo ad intuire che sotto questi strani comportamenti operava la logica della reciprocità è stato il biologo Robert Trivers, che, ancora giovanissimo, al ritorno da un viaggio di studio in Africa, pubblicò, nel 1971, un articolo fondamentale sull’evoluzione dell’altruismo reciproco. Trivers iniziò col descrivere l’enigma della cooperazione attraverso la metafora del “dilemma del prigioniero”: se cooperiamo stiamo meglio tutti, ma se io so che tu vuoi cooperare, allora avrò interesse a defezionare e tu, anticipando questo, sceglierai, a tua volta, di defezionare, ottenendo entrambi, in questo modo, un risultato peggiore di quello che avremmo potuto ottenere se avessimo cooperato.
Che fare? La strategia ottimale è quella di defezionare sempre, anche se in questo modo, alla fine, staremo tutti peggio. Questo dilemma rappresenta un elemento cardine nello studio delle decisioni strategiche, perché è pervasivo ed estremamente robusto, lo troviamo dappertutto in natura e in società e le sue conclusioni logiche sono a prova di bomba: cooperare in una situazione simile è impossibile. Ma Trivers dimostra, invece, che se il gioco viene giocato ripetutamente, allora, in virtù di un “altruismo reciproco” - così lo definisce - allora è possibile sfuggire alla trappola della mutua defezione e cooperare diventa razionale per tutti. Si spinge fino a ipotizzare che le nostre emozioni sociali, la gratitudine e il senso di colpa, per esempio, si siano sviluppate per facilitare la logica della reciprocità nelle nostre relazioni interpersonali.
C'è un secondo personaggio interessante in questa storia. Si tratta dell'economista matematico Robert Aumann che, durante gli anni della guerra fredda lavorò allo studio delle condizioni che facilitavano o rendevano difficile la comprensione delle mosse del nemico e, quindi, i negoziati di pace. Una delle intuizioni di Aumann era relativa al fatto che, paradossalmente, anche una mossa difensiva poteva acquistare una valenza aggressiva. Quando negli Usa si iniziarono a costruire rifugi antiatomici, per esempio, questo innervosì molto i Russi e, invece di ridurre la tensione tra le superpotenze, la fece aumentare. Che ragione c'è, infatti, di costruire un rifugio, se non perché si ha paura di un conflitto imminente? Ma perché ci dovrebbe essere un conflitto imminente? Forse perché gli Usa sanno che, se dovessero scatenare un attacco, scatenerebbero il contrattacco dei Russi (reciprocità negativa).
Ecco, quindi, che la costruzione dei rifugi non fa altro che segnalare ai russi l’imminenza di un attacco americano e questo, a sua volta, non fa altro che accrescere le probabilità di un attacco sovietico. Lavorando su questi temi e sulle condizioni che ostacolano e facilitano la comprensione reciproca, Aumann dimostra una versione generalizzata del cosiddetto “folk theorem”; un teorema che mostra come, in ogni situazione ripetuta infinite volte, con un numero anche molto grande di giocatori, con un numero anche molto grande di scelte a disposizione di ciascun giocatore, è sempre possibile e razionale cooperare per ottenere un mutuo beneficio, a patto di essere sufficientemente pazienti. E questo vale anche nel caso di situazioni così difficili e conflittuali come il dilemma del prigioniero, che sembrano fatte apposta per indurre il conflitto.
Il terzo episodio, in questa mini-storia della reciprocità, è ambientato ad Ann Arbor, Università del Michigan; siamo nel 1979. Quattordici ricercatori, tutti esperti, da vari punti di vista, del dilemma del prigioniero, vengono invitati dal politologo Robert Axelrod, a partecipare ad uno strano torneo. Ciascuno di loro avrebbe dovuto inviare la propria strategia per una versione ripetuta del dilemma. Ogni strategia sarebbe stata inserita in un computer e avrebbe sfidato tutte le altre in un girone all’italiana. Le strategie inviate erano molto diverse fra loro, alcune estremamente complesse, altre più semplici, ma quella che si rivelò superiore a tutte le altre, era la più semplice in assoluto: tit-for-tat. Inizia a cooperare e poi fai esattamente quello che ha fatto il tuo avversario nel round precedente; se lui coopera, allora tu cooperi, se defeziona, allora tu defezioni. L'exploit di tit-for-tat sorprese tutti, forse anche il suo ideatore, lo psicologo matematico Anatol Rapoport. Ma i risultati erano così interessanti che Axelrod decise di indire un nuovo torneo.
Questa volta gli sfidanti erano sessantadue, tutti ben consci ed informati dei risultati del primo torneo. Axelrod avviò le sfide sul suo computer ed ancora una volta tit-for-tat arrivò prima. La semplice regola della reciprocità diretta aveva sconfitto tutti i contendenti. Le sue caratteristiche vincenti sono state individuate e studiate successivamente da psicologi, economisti, politologi, biologi ed informatici, tra gli altri. Una combinazione di “gentilezza”, “reattività”, “perdono” e “chiarezza”. Queste sono le quattro caratteristiche principali di tit-for-tat. È gentile perché non defeziona mai per prima; è reattiva perché risponde ad una defezione con una immediata defezione; non tarda a perdonare, perché anche dopo una defezione, se l’avversario riprende a cooperare, allora anche tit-for-tat farà lo stesso, ristabilendo così il rapporto di mutuo vantaggio; infine la strategia è chiara, perché la sua logica è semplice e facilmente comprensibile in ogni circostanza, anche nelle condizioni più difficili, quelle dove il conflitto riguarda nemici dichiarati, perfino in guerra.
Siamo nel dicembre del 1914, il primo conflitto mondiale è esploso, ormai, da qualche mese; terribile, crudele e spietato. Sugli ottocento chilometri del fronte occidentale le cose non vanno bene. Il comando alleato ha deciso di optare per una guerra di “logoramento”: un morto da parte tedesca, uno da parte degli anglo-francesi e alla fine questi ultimi, più numerosi, vinceranno. Questa guerra si fa in trincea, da una parte loro, dall’altra noi, in mezzo, qualche centinaio di metri di terra di nessuno. 
Dietro le linee, l’artiglieria che martella, incessante, le postazioni nemiche. L’artiglieria è incessante, certo, ma a ben vedere, neanche poi troppo. Succede infatti, che dopo un po' di mesi di conflitto ravvicinato, di confronto ripetuto e di convivenza forzata sullo stesso campo di battaglia, gli eserciti avversari iniziano a studiarsi e a conoscersi. Da una parte c'è l’ordine di sconfiggere il nemico, più profondamente, c'è il desiderio di uscire vivi da quell’inferno di fango e morte. È qui che la logica della reciprocità inizia a far presa. Inizialmente i gruppi che si fronteggiano a distanza ravvicinata sugli opposti lati del fronte, cominciano con l'attuare delle tregue tacite durante le pause nelle quali si distribuisce il rancio. È così sicuro che in quei momenti nessuno sparerà, né da una parte, né dall’altra, che le pattuglie di corvè iniziano ad assumere atteggiamenti rilassati, “ridevano e chiacchieravano ad alta voce”, conferma un testimone oculare. Iniziava ad emergere la cooperazione, anche tra nemici mortali. I cecchini tedeschi sparavano sempre nella stessa direzione, ben sapendo che lì non si trovava nessun soldato avversario.
Gli anglo-francesi bersagliavano con la loro artiglieria le linee nemiche solo a certi orari, con una precisione e una puntualità tali, da mettere i nemici nelle condizioni di organizzare i loro movimenti con grande facilità e sicurezza. Nessuno violava la tregua di fatto; erano “gentili”. Ma erano anche “reattivi”; subito pronti alla ritorsione, nel caso qualcuno avesse violato l’accordo. I tedeschi, per esempio, rispondevano sempre col lancio di tre bombe per ognuna che esplodeva nel loro campo.
L’astensione dall’aggressività del conflitto, dunque, non doveva essere interpretata come un segno di debolezza o di incapacità, ma come una scelta deliberata. Quando la tregua saltava, di solito veniva ripristinata in breve tempo, attraverso strategie di de-escalation, di raffreddamento del conflitto, che ristabilivano rapidamente la situazione di pace iniziale. Ci si “perdonava”. Infine, la strategia delle due fazioni contrapposte era “chiara”. Così chiara che dopo pochi giorni in trincea, anche i nuovi arrivati capivano cosa stesse succedendo. L'apice di questa estesa fraternizzazione si raggiunse intorno al Natale del 1914, quando le truppe, in varie regioni del fronte, prima timidamente, poi con sicurezza sempre maggiore, iniziarono ad uscire dalle trincee a ad avviarsi attraverso la terra di nessuno, verso le postazioni nemiche. Nella terra di nessuno i nemici si incontrarono, ripetutamente, per scambiarsi doni e cibo, per celebrare i riti del Natale e per seppellire i morti delle rispettive parti.
Durante la notte della Vigilia si organizzarono partite di pallone e concerti improvvisati. La cooperazione era finalmente emersa chiaramente anche tra nemici, anche in assenza di un'autorità sovraordinata, anzi, proprio contro il volere dell’autorità sovraordinata. Perché i comandi dei due eserciti tentarono in tutti i modi di ostacolare questa fraternizzazione: dai processi sommari, alle decimazioni, fino alle minacce di cannoneggiare le proprie prime file. In Orizzonti di Gloria, Stanley Kubrick ricostruisce magistralmente, sulla base di testimonianze reali, il clima di terrore e di prevaricazione nelle linee di comando francesi. L'unica via per far ripartire la guerra, per spingere i soldati a riprendere ad ammazzarsi tra loro, è quella di neutralizzare la logica della reciprocità, di spezzare il legame tacito e la comunanza di interessi che si erano creati nei lunghi mesi di vita in trincea. Per questo i capi decisero di passare all’uso sempre più frequente delle incursioni. Queste sortite altamente organizzate potevano coinvolgere da una decina fino a centinaia di soldati. Si usciva dalle proprie trincee e ci si dirigeva verso il nemico. Se l’incursione andava bene, si facevano dei prigionieri, se andava male, si contavano i compagni morti. Ma, in ogni caso, gli alti comandi avevano sempre modo di verificare l'accaduto e, eventualmente, di punire i “codardi”.
Queste forme di “arditismo” fecero rapidamente saltare la cooperazione e innescarono, al contrario, catene inarrestabili di ritorsioni. Dopo un attacco, ci si aspettava, infatti, il contrattacco nemico; ma anche coloro che ne avevano appena subito uno, non potevano sapere se si sarebbe trattato di un episodio isolato o della prima di una serie di incursioni ripetute. Niente più chiarezza, gentilezza e perdono, ma solamente reattività. Si era ormai innescato un circolo di reciprocità negativa. Quello che porterà alla carneficina di un intero Continente. Una generazione di giovani mandata a morire dalla follia e dall’ambizione di un’aristocrazia fuori dal tempo. 
Per rompere il circolo virtuoso della cooperazione, emerso spontaneamente tra antagonisti in una situazione di conflitto aperto, era stato necessario un intervento deliberato, un piano ben progettato e articolato, una volontà precisa, dell’uomo contro altri uomini, della volontà di guerra contro il desiderio della vita e l’anelito alla pace. Eppure, la tregua di quella notte di vigilia del 1914 sta sempre lì a ricordarci la naturale socievolezza della nostra specie, la semplice bellezza delle relazioni umane e la potenza straordinaria dei simboli. Buon Natale. 
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