Gli articoli recenti di Enzo Bianchi
Jesus, dicembre 2019: Debolezza evangelica e fragilità umana
Vita pastorale, dicembre 2019: Si è avviato un cammino per tutte le chieseIl grande monaco Bernardo di Clairvaux coniò una straordinaria esclamazione: “Optanda infirmitas!”, “O desiderabile debolezza!” (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Nella vita di ciascuno di noi è infatti decisivo sperimentare la debolezza, esperienza inevitabile che ci può dare la consapevolezza del non essere Dio ma creature “mancanti”, bisognose l’una della presenza e della cura dell’altra. Esperienza che può preservare, se la cecità non è dominante, dall’orgoglio, dal narcisismo e dal culto egolatrico del proprio “io”.Purtroppo però, soprattutto nello spazio cristiano, anziché cogliere tutta la beatitudine possibile insita nella debolezza, si innalzano spesso inni alla fragilità. C’è una forte confusione nel linguaggio riguardo a debolezza, fragilità e vulnerabilità, e questo non favorisce certo un cammino autentico di crescita umana e cristiana. L’enfasi con cui si parla della fragilità e la si invoca quale giustificazione di molti comportamenti, è solo una strategia per catturare persone fragili ed esercitare su di esse un potere e un’attrattiva che non stanno nello spazio della carità e della solidarietà.Le persone fragili vanno infatti aiutate ad accedere alla fortezza, che è significativamente una delle quattro virtù cardinali. La loro fragilità chiede piuttosto a chi le incontra di imparare a sentirsi vulnerabile: vulnerabilità non è fragilità! Nello svuotamento e nell’abbassamento in Gesù Cristo (cf. Fil 2,6-8), Dio si è fatto vulnerabile, vero uomo con una vita nella carne (sárx: Gv 1,14), e così si è mostrato solidale con noi fino alla morte. Le ferite, le stigmate della passione, rimaste anche nel corpo glorioso del Cristo risorto, raccontano questa vulnerabilità di Dio per sempre. Sì, in noi umani la vulnerabilità è luogo d’incontro con Dio e con gli altri: così non è una debolezza, ma è la nostra forza. Ecco come si possono comprendere le paradossali parole dell’Apostolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).Vulnerabilità significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro, e nasce da fiducia, rinuncia al controllo, desiderio di apertura all’altro. Dalla vulnerabilità nasce la fraternità, perché cade il muro dell’indifferenza, scompare il velo della legge (cf. 2Co 3,13-16) e il cuore di pietra si trasforma in cuore di carne (cf. Ez 11,19; 36,26). Per questo non è la fragilità che va cercata, perché essa, come ogni male e ogni povertà, ci è data dalla vita e dalle vicende in cui siamo immersi; bisogna invece cercare la fortezza, per essere liberati dalla fragilità e vivere in pienezza. La fragilità non sia dunque un alibi che nasconde l’impotenza o l’incapacità di prendere in mano la propria vita.Vivere richiede di avere fiducia nella vita, di lottare in favore della vita e di amarla con tutte le proprie forze. L’esistenza di ciascuno di noi non è fatta di azioni eroiche e prodigiose, ma perde sapore e senso se la si consegna alla fragilità, all’indolenza, all’inerzia, all’inconcludenza. E la virtù della fortezza – sia chiaro – non ha nulla a che spartire con la durezza o la violenza, perché esige proprio una lotta contro gli impulsi mortiferi che abitano il cuore umano: essa richiede coraggio, audacia, determinazione e soprattutto perseveranza, con la quale – ci ha detto Gesù – è possibile “salvare” le nostre vite (cf. Lc 21,19).Occorre pertanto più che mai vigilare per non essere sedotti da queste continue giustificazioni della fragilità, anche perché l’esperienza mi dice che molti finiscono di fatto per servirsi egoisticamente delle fragilità altrui, sempre difese, per difendere così anche le proprie; amano strumentalizzare le fragilità degli altri per conservare il potere esercitato su di essi psicologicamente o con inconsistenti accenti terapeutici. Nelle vite comunitarie e familiari si conoscono bene queste derive che impediscono una vera comunione e contraddicono un cammino comune, mentre giustificano all’interno della convivenza umana sentieri privi di qualsiasi convergenza e senza alcuna solidarietà fraterna.Non confondiamo dunque fragilità con vulnerabilità e non dimentichiamo che la fortezza è una virtù cardinale, un vero e proprio cardine per la vita umana e cristiana.
La Repubblica:Si è da poco concluso un sinodo per molti aspetti inedito e che – dobbiamo riconoscerlo – ha di fatto avviato un processo nella vita della chiesa, un processo che non pare facilmente arrestabile e che contiene una dinamica riguardante non solo l’Amazzonia. Perché i problemi in esso posti e discussi e le vie da percorrere intraviste riguardano tutta la chiesa presente nei diversi continenti della terra.Certo, è stato un sinodo per molti aspetti “blindato”, perché non sono stati pubblicati gli interventi dei padri sinodali, mentre le sintesi offerte alla stampa non permettevano neppure ipotesi circa la paternità degli interventi. Ma questa misura di prudenza ha garantito che non ci fossero letture divisive, capaci solo di registrare conflitti e contrapposizioni e, soprattutto, di far emergere schieramenti induriti. Sì, la libertà salvaguardata dalla non pubblicazione degli interventi è stata non solo garantita ma anche praticata con audacia e parrhesía, senza paura da parte dei padri sinodali di essere stigmatizzati come infedeli alla tradizione o addirittura in contraddizione con la dottrina cattolica.Anche perché, alla vigilia e durante il sinodo stesso, si era manifestata una forte opposizione all’Instrumentum laboris anche ad opera di cardinali, oltre che di vescovi e teologi. Nella nostra chiesa regnano molte paure, l’aprire cammini è sentito come temerario e forze tradizionaliste si mostrano efficacemente sempre più allarmate e allarmanti, non solo critiche, ma pronte a esercitare un ministero di condanna che pretende di discernere l’eresia addirittura nel corpo episcopale e nel successore di Pietro. È ormai in atto l’esercizio dell’occhio cattivo (cf. Mt 20,15), dell’occhio che spia, che si nutre di giudizio e di condanna e non sa più che cosa siano né la misericordia né il primato della carità su ogni espressione di verità (cf. Ef 4,15).In verità il sinodo si è svolto in un clima sereno e fraterno, c’è stato molto ascolto reciproco, senza le temute rigidità; si sono condivise esperienze impensabili eppure realmente vissute nelle chiese; si è dato voce al grido dei poveri, ritenuti non solo destinatari della carità ma vero magistero per la chiesa; e per la prima volta hanno potuto far sentire la loro voce persone non credenti ma esperte su alcuni temi trattati dal sinodo, come l’emergenza ecologica, che resta la minaccia più prossima e più preoccupante al nostro orizzonte. La conversione richiesta dal sinodo è integrale: pastorale, culturale, sociale ed ecologica. Solo così la chiesa potrà essere pienamente madre di questi popoli amazzonici. E sia detto chiaramente: al centro dell’intero dialogo sinodale c’è sempre stato il Cristo, Signore della chiesa e del mondo, unico Salvatore dell’umanità. Non vi sono stati segni di debolezza in materia di fede cristologica, nonostante i timori e le denunce di quanti paventavano che il sinodo si trasformasse in un evento sociologico e culturale.In questo mio breve intervento voglio solo mettere a fuoco tre temi affrontati, che non sono piccola cosa e vanno collocati nel contesto sinodale e nel documento finale come “segni dei tempi”, che dovranno impegnare la chiesa a cercare, riflettere, fare discernimento, e dovranno essere deliberati dal papa per la chiesa in Amazzonia, ricevendo così la qualità di indicazioni profetiche anche per le altre chiese.Il primo tema, quello più difficile e contestato, che ha ricevuto l’approvazione dei due terzi dell’assemblea (dunque il non placet di un terzo), è quello delle comunità costrette a vivere senza Eucaristia. Queste sono molte in Amazzonia, ma non si dimentichi che anche nelle terre dell’Europa (penso a Francia, Belgio e paesi del Nord) molte comunità cristiane sono alla vigilia della stessa situazione. Mancano le vocazioni presbiterali, le comunità mostrano spesso un grembo sterile, quando non abortivo, e così le assemblee domenicali risultano “assemblee senza presbitero”, ridotte a celebrare la sola liturgia della Parola. Ma la chiesa vive dell’Eucaristia, è generata dall’Eucaristia, è edificata dall’Eucaristia e, se viene a mancare questa sua fonte di vita, è facilmente soggetta all’indebolimento della fede, a patologie del vivere cristiano: si sfilaccia, si riduce a movimento, con il rischio di scomparire. Si è parlato a lungo di presbiteri uxorati, che d’altronde sono già presenti nelle chiese orientali cattoliche, ma su questo punto resta lontana una risposta positiva. Permane in alcuni settori non minoritari il timore che, se la chiesa latina aprirà alla possibilità di conferire l’ordine a uomini sposati, il valore del celibato non sarà più compreso e subirà una diminuzione della sua valenza profetica.È certamente vero che il celibato per il Regno, secondo il vangelo sempre un dono di Dio e non una legge, conferisce la possibilità di dedicarsi maggiormente al ministero, senza dover pensare alla propria famiglia; ma dovremmo anche ricordarci che nel celibato vi sono grandezza e miseria, che in esso si può in realtà vivere una chiusura, una philautía, un egoismo che minacciano il ministero più dell’essere coniugi e padri di famiglia. Affermava già il concilio: “Il celibato non è richiesto dalla natura stessa del sacerdozio … anche se vi sono molte ragioni per praticarlo” (Presbyterorum ordinis 16). Ma di fronte al diritto all’Eucaristia della comunità cristiana, affinché essa non muoia per mancanza della comunione al Corpo e al Sangue del Signore, occorrerebbe avere più fiducia, più coraggio, più passione per i cristiani che non possono accedere al sacramento. Si è in ogni caso avviato un processo, nel quale si intravede la possibilità di ordinare presbiteri dei diaconi permanenti sposati. Si faccia attenzione: non è un’apertura a ordinare immediatamente uomini sposati, bensì diaconi permanenti sposati già ordinati da anni, che abbiano dato prova di possedere una formazione adeguata, di capacità di essere pastori della comunità attraverso il ministero della Parola e dell’Eucaristia, dunque della capacità di presiedere e governare, e perciò siano riconosciuti dalla comunità. Così nelle aree più lontane e ora abbandonate a se stesse della regione amazzonica vi sarà una presenza stabile che edifica la comunità cristiana, anche qualora il passaggio di missionari fosse molto raro, addirittura una sola volta all’anno.L’altro tema affrontato è quello della presenza delle donne nella vita della chiesa. Essendo oggi impensabile anche solo di discutere l’accesso delle donne al ministero presbiterale, che cosa si può fare affinché nella chiesa la donna non permanga in posizione ausiliaria rispetto all’autorità e ai ministri ecclesiastici? Si ripete spesso, e lo si ribadisce anche nel documento finale del sinodo, che “occorre rafforzare ed espandere gli spazi per la partecipazione dei laici sia nella consultazione sia nel processo decisionale, nella vita e nella missione della chiesa” (n. 94). Ma poi? E cosa significa l’espressione “leadership” poco cattolica secondo cui “è necessario che la donna assuma con maggior forza la sua leadership all’interno della chiesa” (n. 101)? E cosa significa concretamente “riconoscere la ministerialità che Gesù ha riservato alle donne” (n. 102)?Si registra qui l’epifania dell’esitazione, del non saper dire… Personalmente non ho mai aderito all’ipotesi dell’ordinazione delle donne oggi, sia per ragioni ecumeniche, sia perché la maggior parte dei cattolici attuali non è a mio parere disposta ad accettarla; ma perché non diciamo con chiarezza che cosa sia possibile o non possibile affinché tutti i fedeli laici, senza distinzione gli uomini come le donne, siano concretamente un soggetto ecclesiale? Sulle donne nella chiesa vi sono troppe locuzioni ambigue, idealiste e romantiche, che comunque sembrano né convincere né incantare le nuove generazioni. E perché non ci si interroga sull’abbandono della chiesa da parte delle donne più giovani?Occorre infine dire una parola sull’ipotesi della celebrazione di un rito amazzonico, un rito che sappia inculturare il Vangelo e l’Eucaristia nelle culture ancestrali di questi popoli. Certo, i riti della chiesa cattolica sono molti (ventitré, dice il documento finale al n. 117), ma sono riti antichi scaturiti dalla vita e dalla cultura delle terre in cui è stato annunciato il Vangelo; da secoli però la chiesa latina ha imposto il suo rito in tutte le terre di missione. È dunque urgente favorire l’elaborazione di un rito per l’Amazzonia, ma ci sono anche altre terre, in oriente e soprattutto in Africa, che, grazie a una liturgia propria, potrebbero esprimere la loro confessione di fede attraverso modalità che rispondano alle loro lingue e alle loro culture, senza tradire il Vangelo. Sarà un cammino lento, che non può essere fatto da esperti a tavolino, e richiederà l’esercizio di un profondo discernimento nell’assunzione di tesori spirituali e rituali dei vari popoli, senza acconsentire all’introduzione di elementi non chiaramente né squisitamente coerenti con la fede cristiana; questa sa assumere tutto l’umano, sa trasfigurare questo mondo e le sue creature, pur riconoscendo sempre che Dio è tutto in tutti e che Cristo resta l’unico Salvatore dell’umanità. Questo processo auspicato e non ancora avviato pone però una domanda che riguarda tutte le chiese: perché negli ultimi secoli tale cammino non è stato possibile, ma anzi vietato e condannato? I tentativi fatti in Cina (questione dei riti cinesi) e in India ci devono interrogare!Ancora una volta sarà papa Francesco a pungolarci su nuovi sentieri, con saldezza e fedeltà alla tradizione, ma anche nella libertà da paure e timori che facilmente paralizzano il cammino della chiesa. Abbiamo un papa che è anche un profeta: fidiamoci!
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