Baricco: "E ora le élite si mettano in gioco"
«There is no Alternative»Baricco analizza la situazione generale del mondo in cui viviamo, definita dalla rottura del secolare patto tra le persone comuni e le classi dirigenti che le guidano, governano, informano e che, secondo la visione di un tempo, tengono in piedi il mondo. Secondo Baricco è in parte colpa dell’atteggiamento delle stesse élite, e in parte una conseguenza della diffusione di internet, del mondo digitale, dei social network, creati da libertari che volevano ridistribuire il potere e la conoscenza, ma che non sono riusciti a fare lo stesso con la ricchezza, come ha raccontato approfonditamente nel suo ultimo libro, The Game. Da qui si è arrivati al successo del populismo, alla crisi dell’Europa, alle difficoltà delle democrazie e allo scardinamento dell’ordine che ha retto il mondo finora: «la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto della fortezza delle élites». L’articolo si conclude con l’invito alle élite di rimettersi in gioco e ripensare un proprio ruolo contemporaneo.L’articolo è stato subito molto commentato: c’è chi ha accusato Baricco di comportarsi come gli intellettuali che critica banalizzando l’insofferenza delle persone comuni; chi di semplificare, chi di dimenticare che il miglioramento della vita di tutti possa essere avvenuto attraverso battaglie dal basso e non grazie a leadership, come ha scritto in particolare Mariana Mazzucato sempre su Repubblica: a cui hanno risposto sul Post anche Massimo Mantellini e il direttore del Post Luca Sofri (che aveva già espresso una visione simile sull’inadeguatezza delle élite). L’analisi di Baricco è stata ora pubblicata su The Catcher, il magazine della scuola Holden, dove si può leggere integralmente:
M. Thatcher
Dunque, riassumendo: è andato in pezzi un certo patto tra le élites
e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Non è proprio
un’insurrezione, non ancora. È una sequenza implacabile di impuntature, di
mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità.
Ossessivamente, la gente continua a mandare — votando o scendendo in strada — un messaggio
molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare.
Come diavolo è potuto succedere?
Come diavolo è potuto succedere?
Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti
dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i
broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti
politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di
quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di
500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della
categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli
umani lì.
Sono pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del denaro che c’è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto scherzando), occupano gran parte dei posti di potere. Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente.
Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra.
Sono pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del denaro che c’è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto scherzando), occupano gran parte dei posti di potere. Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente.
Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra.
Una sorprendente cecità morale — mi sento di aggiungere — impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi
il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio
di psicofarmaci.
Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto
che ha poche interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui
vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che
fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto, nella loro
vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei privilegiati
difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente
improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi. Da quell’elegante parco
naturale, tengono per i coglioni il mondo. Oppure, volendo: lo tengono in
piedi. Se non addirittura: lo salvano.
Ultimamente ha preso piede la prima versione. Ed è lì che è saltato quel
tacito patto di cui parlavamo, e che descriverei così: la gente concede
alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e
le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un
ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere. Tradotto in termini
molto pratici descrive una comunità in cui le élites lavorano per un mondo
migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida
dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e volendo
crede ai preti. Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il
meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava,
era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci sta mettendo in
difficoltà è: il patto non c’è più.
Ha iniziato a traballare una ventina d’anni fa, ora si sta sbriciolando. Lo
sta facendo più in fretta dove la gente è più sveglia (o esasperata): l’Italia,
ad esempio. La gente qui ha iniziato a non fidarsi neanche più dei medici, o
degli insegnanti. Quanto al potere politico, prima lo ha affidato a un
super-ricco che odiava le élites (trucco che poi gli americani avrebbero
copiato), poi ha provato un’ultima volta con Renzi, scambiandolo per uno che
non c’entrava con le élites: alla fine ha decisamente stracciato il patto e se
n’è andata direttamente a comandare. Cos’è che li ha fatti così
arrabbiare?
Una prima risposta è facile: la crisi economica. Intanto le
élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando
tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato
i sacrifici sulla gente. Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007–2009 che
sia accaduto veramente questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la
percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente
si è presentata a regolare i conti, per così dire.
È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di
cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro
che quello. Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione
crediti.
La seconda ragione è più sofisticata e l’ho veramente capita solo quando mi
son messo a studiare la rivoluzione digitale e ho scritto The Game. La riassumerei
così. Tutti i device digitali che usiamo quotidianamente hanno
alcuni tratti genetici comuni che vengono da una certa visione del mondo,
quella che avevano i pionieri del Game. Uno di questi tratti è decisamente
libertario: polverizzare il potere e distribuirlo a tutti. Tipico
esempio: mettere un computer sulla scrivania di tutti gli umani. Potendo, nelle
tasche di ogni umano. Fatto. Non va sottovalutata la portata della cosa. Oggi,
con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste
quattro mosse: accedere a tutte le informazioni del mondo, comunicare con
chiunque, esprimere le proprie opinioni davanti a platee immense, esporre
oggetti (foto, racconti, quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di
bellezza. Bisogna essere chiari: questi quattro gesti, in passato, potevano
farli solo le élites. Erano esattamente i gesti che fondavano l’identità delle
élites. Nel Seicento, per dire, erano forse qualche centinaio le persone che in
Italia potevano farli. Ai tempi di mio nonno, forse qualche migliaio di
famiglie. Oggi? Un italiano su due ha un profilo Facebook, fate voi.
Così — occorre capire — il Game ha abbattuto delle barriere psicologiche secolari, allenando la
gente a sconfinare nel terreno delle élites e togliendo alle élites quei monopoli che la rendevano mitologicamente intoccabile. È chiaro: da lì in poi la situazione prometteva di diventare esplosiva.
Non sarebbe forse successo niente se non fosse per un altro tratto del
Game, una sua imprecisione fatale. Il Game ha ridistribuito il potere, o almeno
le possibilità: ma non ha ridistribuito il denaro. Non c’è nulla,
nel Game, che lavori a una ridistribuzione della ricchezza. Del sapere, della
possibilità, dei privilegi, sì. Della ricchezza, no. La dissimmetria è
evidente. Non poteva che ottenere, alla lunga, una rabbia sociale che è
dilagata silenziosamente come un’immensa pozzanghera di benzina. Devo aver già
detto che poi la crisi economica ci ha tirato un fiammifero dentro. Acceso.
Dopo, quel che è successo lo sappiamo. Ma non sempre lo vogliamo veramente
sapere. Riassumo io, per comodità. La gente, senza perdere un certo
aplomb, si è recata a prendere il potere; perfino in modo composto,
ma con una sicurezza di sé e un’assenza di timore reverenziale che da tempo non
si vedeva. Lo ha fatto, per lo più, votando. Cosa? Il contrario di quello che
suggerivano le élites. Chi? Chiunque non facesse parte delle élites o fosse
odiato dalle élites. Quali idee? Qualsiasi idea che fosse l’opposto di cosa
avevano in mente le élites. Semplice, ma efficace. Posso fare un esempio
sgradevole che però riassume bene la situazione? L’Europa.
Quella dell’unità europea è chiaramente un’idea forgiata dalle élites. Di
certo non l’ha chiesta la gente, scendendo in strada e invocandola a gran voce.
È un’intuizione di pochi illuminati che si può facilmente spiegare così:
spaventata da cosa era riuscita a combinare nel ’900, e incalzata dalle due
grandi potenze americana e sovietica, l’élite europea ha capito che le
conveniva piantarla lì con questa lotta selvaggia e secolare, tirare giù le
frontiere e formare un’unica forza politica ed economica.
Naturalmente non era un piano di facilissima realizzazione. Per secoli
l’élite aveva lavorato a costruire il sentimento nazionalista, di
cui aveva avuto bisogno per affermarsi, e perfino l’odio per lo straniero, che
le era stato utile quando si era trattato di menar le mani: adesso bisognava
smontare tutto, e invertire il senso di marcia.
Prima le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti. Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l’un l’altro con la baionetta in mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e un’unica bandiera: non proprio un passeggiata. Per questo, con indubbia abilità, l’élite impose un modello di unità europea che potremmo definire ad alta drammaticità: una volta fatta, l’unità doveva diventare irreversibile.
Bruciarono le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro. Non lo avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo. Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo era la pazienza: su «Le Monde Diplomatique» (non esattamente un organo di informazione populista) mi è accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di copiare e incollare qui:
Prima le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti. Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l’un l’altro con la baionetta in mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e un’unica bandiera: non proprio un passeggiata. Per questo, con indubbia abilità, l’élite impose un modello di unità europea che potremmo definire ad alta drammaticità: una volta fatta, l’unità doveva diventare irreversibile.
Bruciarono le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro. Non lo avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo. Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo era la pazienza: su «Le Monde Diplomatique» (non esattamente un organo di informazione populista) mi è accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di copiare e incollare qui:
“Nel 1992, i Danesi hanno votato contro il trattato di
Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2001 gli Irlandesi
hanno votato contro il trattato di Nizza: sono stati obbligati a tornare alle
urne. Nel 2005 i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato
costituzionale europeo (Tce): gliel’hanno poi imposto con il nome di Trattato
di Lisbona. Nel 2008 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona:
sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2015, il 61,3% dei Greci ha
votato contro il piano di austerità di Bruxelles: gli è stato inflitto lo
stesso”.
Impressionante litania, bisogna ammetterlo. Dice che un piano B non
c’era. There Is No Alternative. Il tratto limpidamente
elitario dell’Europa Unita si è rafforzato quando, fatta l’Europa, si è
sedimentato il sistema di potere europeo: le istituzioni, gli organi di
governo, e perfino le personalità deputate a governare.
Difficile immaginare qualcosa che renda meglio l’idea di un’élite magari
sapiente ma lontana, irraggiungibile, detentrice di ragioni e numeri
incomprensibili, e scarsamente consapevole della vita reale della gente. Non è
escluso che nel frattempo facciano anche molte cose a favore della gente: ma
certo la loro prima funzione sembra essere quella di ricordare in modo
definitivo che il pianoforte c’è chi lo suona e chi lo porta su per le scale, e
a suonarlo, qui, è l’élite.
Così, nell’istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di loro, subito: l’Europa era il simbolo più evidente, era il bersaglioimmediatamente visibile all’orizzonte. Aveva un’aura di invincibilità che però, si è scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le élites: per gli altri cittadini del Game, l’incantesimo si era spezzato. Potremmo dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l’Europa? No, non potremmo veramente dirlo. Contro questa Europa, piuttosto, contro l’Europa come simbolo del primato delle élites, questo sì. Antieuropeista, oggi, significa più che altro anti-élite. Circola già la formuletta buona: l’Europa dei popoli. Non vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l’unità in sé che vogliamo spezzare, è l’unità voluta e gestita in quel modo dalle élites.
Così, nell’istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di loro, subito: l’Europa era il simbolo più evidente, era il bersaglioimmediatamente visibile all’orizzonte. Aveva un’aura di invincibilità che però, si è scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le élites: per gli altri cittadini del Game, l’incantesimo si era spezzato. Potremmo dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l’Europa? No, non potremmo veramente dirlo. Contro questa Europa, piuttosto, contro l’Europa come simbolo del primato delle élites, questo sì. Antieuropeista, oggi, significa più che altro anti-élite. Circola già la formuletta buona: l’Europa dei popoli. Non vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l’unità in sé che vogliamo spezzare, è l’unità voluta e gestita in quel modo dalle élites.
L’Europa è solo un esempio. Quel che sto cercando di dire è che soppesare
l’opportunità di tutto ciò che la gente oggi sembra volere (che sia il ritorno
alla Lira come la gogna della Società Autostrade o la libertà sui vaccini) è
una perdita di tempo se non si legge in filigrana l’unica cosa che davvero la
gente vuole: liberarsi delle élites. Il punto è quello, ed è lì che
si ci si deve chinare e osservare bene, per quanto faccia schifo, o paura, o
fatica. Perché è in quel preciso punto che si gioca una battaglia decisiva per
il nostro futuro.
La prima cosa che accadrà di notare, volendo davvero andare a guardare là
dentro, è come si è mossa l’élite una volta che si è trovata sotto attacco.
Si è irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una
narrazione che mettesse le cose a posto: la gente si era bevuta il cervello,
probabilmente manovrata da una nuova generazione di leader privi di
responsabilità, disposti a giocare sporco, e furbi nel rivolgersi alla pancia
dei cittadini dribblandone l’eventuale intelligenza. Termini vaghi e inesatti
come fake news, populismo, se non addirittura fascismo, sono stati ingaggiati
per veicolare meglio il messaggio a etichettare sommariamente gli insorti.
Sullo sfondo, una certezza: There Is No Alternative, ripetuta come un mantra,
coltivata come un’ossessione, inflitta come una profezia e una minaccia.
Neanche per un attimo, sembrerebbe, l’élite si è
fermata a chiedersi se per caso non avesse sbagliato da qualche parte,
e in modo così marchiano da generare, a slavina, quel gran casino. Se l’avesse
fatto, non le sarebbe stato poi così difficile registrare almeno tre fenomeni
che a me, come a molti, sembrano di un’evidenza solare:
1. La sua idea
di sviluppo e di progresso non riesce agenerare giustizia sociale,
distribuisce la ricchezza in un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto
riesca a generarne, lascia il centro del gioco a potenze economiche scarsamente
controllabili, continua a essere fondata su un feroce controllo di
intere zone deboli del pianeta e mette in serio pericolo la Terra,
dimenticandosi che è la casa di tutti, non la discarica di pochi.
2. Le élites sono da tempo preda di un torpore profondo, una
sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati
teoremi il cui risultato è sempre lo stesso, totemico: There Is No Alternative.
Si sarà notato che non reagiscono più a nulla, sono ipnotizzate da se
stesse, hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente,
spendono più della metà del tempo a contemplarsi e arredare i propri privilegi.
Stanno arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare
qualcosa di diverso dalle ossessioni dei padri.
3. Una sola volta, negli ultimi cinquant’anni, le élites hanno generato un
pensiero alternativo: ed è stato quando le son sfuggiti alcuni
contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata
l’insurrezione digitale. Dal loro torpore, le élites l’hanno registrata in
ritardo, bollandola come una deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di
risolverla così. Era invece una rivoluzione che si proponeva di
azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una
nuova élite, una nuova intelligenza, perfino una nuova moralità.
Non ci hanno capito niente, e questo vuol dire che il Game è cresciuto tra le
pieghe del loro potere, e a poco a poco le ha delegittimate, consegnandole alla
gente quando ormai non avevano la forza per difendersi. Nel tempo in cui questo
accadeva, l’unico riflesso brillante delle élites è stato usare il Game
per fare soldi: che vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero
start up, si sono messi a vendere i biglietti per assistere alla propria
condanna a morte. Strano modo di cavalcare la Storia.
Fai errori del genere e poi, con chi si presenta a staccarti la spina,
pensi di cavartela dandogli del fascista?
Altrettanto interessante, va detto, è andare a vedere come si è
mossa la gente, quando ha deciso di sfasciare il patto e fare da sola.
Potenzialmente aveva davanti una sorta di nuovo orizzonte, immenso: ma si è
fermata al primo passo, quello della resa dei conti pura e semplice.
Rimandati i sogni, sfoga risentimento. Incapace di futuro, recupera il
passato. Si è scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una
retromarcia al giorno: è quello che sanno fare.
Non riescono a immaginare un granché, si limitano a cercare di correggere
l’esistente ereditato dalle élites. Spesso non riescono nemmeno tanto a farlo,
per incompetenza, scarsa attitudine al governo, improvvisa scoperta dei propri
limiti, obbiettiva tostaggine del nemico e vertiginosa complessità del sistema.
Ritrovano coraggio in un sorta di tono di voce che è
divenuto il loro vero segno distintivo, un misto di schiettezza, aggressività,
urlo da mercato e slogan pubblicitario. La gente lo trova rassicurante e ha
finito per assumerlo come un modo di pensare: ci trova una sorta di
intelligenza elementare che sostituisce alle raffinatezze e ai sofismi della
riflessione delle élites il movimento limpido, diretto, vagamente virile, a suo
modo puro, di uomini che finalmente vano diritti alle cose, smantellando vecchi
trucchi e ipocrisie. La santificazione di questo modo di pensare — è necessario capire — è l’arma con cui la gente, oggi, sta sferrando l’aggressione più violenta alle élites: è la vera breccia che sta aprendo
nelle loro mura difensive. Se passa quel modo di leggere il mondo, le élites sono spacciate. Finita la pacchia.
Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che
una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites,
chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto
diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente,
complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura
fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da
dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle
cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se
stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri,
che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di
più.
Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza
feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e
della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero
elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi
volontariamente e andare al massacro.
Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe
parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita
collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non
noi élites, sto parlando di tutti quanti. Ci condanniamo a prendere cantonate
colossali. Che so, considerare un’importante minaccia al nostro benessere l’ovvio
transumare di un numero in fondo contenuto di umani da continenti che
abbiamo stritolato e continuiamo a tenere per le palle. Cose così. Enormità.
Alla fine, occorre registrare un fenomeno che a me, come a molti altri, sembra
di una evidenza solare: la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto
della fortezza delle élites: e più lo fa, e più vince, più si fa del male.
Così attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti,
saccheggiando. Nessuno sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere
la fine. Ogni giorno che passa, diminuiscono le scorte: di forza, di bellezza,
di rispetto, di umanità, perfino di umorismo. Niente che non abbiamo già
vissuto, in passato: ma noi che non immaginavamo questo, è questo che dobbiamo
proprio vivere? C’è qualcosa che possiamo fare, per cambiare l’inerzia di
questa disfatta?
Che io sappia, ammettere che la gente ha ragione. Riprendere contatto con
la realtà e accorgersi del casino che abbiamo combinato. Mettersi
immediatamente al lavoro per ridistribuire la ricchezza. Tornare a
occuparci di giustizia sociale. Staccare la spina alle vecchie élites
novecentesche e affidarsi alle intelligenze figlie del Game: farlo con
la dovuta eleganza ma con ferocia. Dare un significato nuovo a parole come
progresso e sviluppo, quello che hanno è ormai avvelenato. Liberare le
intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del There Is
No Alternative. Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le
diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di
coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i
numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare
nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare
immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione,
sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando
l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che
ci fa vomitare. Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra
inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che
sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento
invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare
diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che
abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno
in grado di vivere senza di loro.
Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli
però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del
presente. Fare la pace con noi stessi, probabilmente, perché non si può vivere
bene nel disprezzo o nel risentimento.
Respirare. Spegnere ogni tanto i nostri device. Camminare. Smetterla di
sventolare lo spettro del fascismo.
Pensare in grande. Pensare.
Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.
Pensare in grande. Pensare.
Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.