Cristo Re dell'universo (Solennità)
Il giudizio finale (Mt 25,31-46)
Gesù
ci suggerisce le domande che ci verranno fatte all’esame finale, quello più
importante, perché in gioco c’è la vita eterna, il Paradiso (“il regno preparato per voi fin dalla
creazione del mondo”). Quali sono queste domande?
Non
ci chiederà nulla sul male fatto, sui peccati commessi, ma solo se lo abbiamo
amato. Se lo abbiamo amato concretamente e non a parole nelle persone in cui
lui si identifica.
Non
è un esame sulle nostre conoscenze, nemmeno su ciò in cui crediamo, ma su come
abbiamo vissuto: se vogliamo superare l’esame c’è un tirocinio da fare, c’è
tanta pratica d’amore da sperimentare.
Gesù
ci chiede di amare concretamente in particolare coloro che sono ai margini,
coloro che hanno bisogno di aiuto: coloro che hanno fame, che hanno freddo, che
sono stranieri e dunque privati dei legami sociali che aiutano a sopravvivere,
che sono malati e dipendono dagli altri, che sono in carcere, privi della
libertà di agire come vogliono. Non importa se sono persone che meritano
l’aiuto (tanti carcerati forse hanno commesso dei crimini!), l’importante è
aiutarli, l’importante è amare: “al tramonto della vita saremo giudicati
sull’amore” (San Giovanni della Croce).
L’esame finale della nostra vita avrà come argomento
la carità, non la devozione o la liturgia o la teologia. Tutte queste cose sono
strumenti: prego per avere una carità concreta, vado a Messa per amare chi ho
accanto… Il fine è l’amore, un amore misericordioso che non rimane indifferente
nei confronti del bisogno degli uomini, della povertà e della fragilità di chi
ci sta accanto.
Gesù
ci chiede di amarli PER LUI, IN LUI, COME LUI: Gesù si identifica con essi,
come un padre che ha una predilezione per i figli più piccoli, per i più
deboli, i più bisognosi di aiuto e protezione. Ha un debole per i più deboli, è
particolarmente vicino a loro, lo possiamo rintracciare presente in loro (“i
poveri – ci ricorda papa Francesco – sono la carne di Cristo”, così come tutti
noi formiamo il corpo di Cristo che è la Chiesa). Ci chiede di essere le sue
braccia e le sue mani, per agire in lui, trasformando questo mondo.
«L’avete fatto a me». Questa espressione non ci chiede tanto di “vedere nell’altro Gesù”, ma ci invita a
guardarlo come lo guarda Gesù. Quindi non amare gli altri per Gesù, ma amarli con Gesù e come Gesù.
Ai tempi di Gesù i bisogni prevalenti erano quelli
primari (fame, sete, freddo), e l’ospitalità per chi è straniero, la vicinanza
per chi è malato o è carcerato. Oggi Gesù potrebbe indicarci anche i
disoccupati, i senza tetto, le persone con dipendenze particolari … in sostanza
ogni persona che ha bisogno del nostro aiuto (materiale e/o di vicinanza,
affetto).
Chi
sono oggi coloro che hanno più bisogno del nostro aiuto? Forse più che di cibo
e di vestiti (sfido a trovare a Roma chi ne abbia veramente bisogno, e questo
anche grazie ad una rete efficace di volontari che mettono concretamente in
atto la volontà di Dio espressa dal Figlio) oggi possiamo servirlo nei fratelli
più piccoli, nei genitori presi da tante fatiche, nei nonni che invecchiando si
indeboliscono, nei compagni di classe messi ai margini, nei poveri che
incontriamo e che ci chiedono aiuto, nel vecchietto vicino di casa che non è
più autosufficiente ed è spesso solo…
Quante
occasioni abbiamo per amare Gesù, per incontrarlo, senza neanche renderci conto
che così ci avviciniamo alla vita eterna, al premio promesso.
Nella seconda parte del racconto ci sono quelli
mandati via, perché condannati. Che male hanno commesso? Il loro peccato è non
aver fatto niente di buono. Non sono stati cattivi o violenti, non hanno
aggiunto male su male, non hanno odiato: semplicemente non hanno fatto nulla
per i piccoli della terra, sono rimasti indifferenti.
Non basta essere buoni solo interiormente e dire: io
non faccio nulla di male. Perché si uccide anche con il silenzio, anche con lo
stare alla finestra. Non impegnarsi per il bene comune, per chi ha fame o
patisce ingiustizia, rimanere a guardare, è già farsi complici del male, della
corruzione, del peccato sociale, delle mafie.
Il contrario esatto
dell'amore non è l'odio, ma l'indifferenza che riduce al nulla il fratello in
quanto, per te, semplicemente non esiste.
Per questo rimango sempre un po’ perplesso quando
nella confessione c’è chi esordisce dicendo: “Non ho fatto nulla di male, nulla
di grave”. Speriamo. Ma la questione è: cosa hai fatto di bene? Cosa hai fatto
per coloro che hanno avuto bisogno di te? Per lo meno ti sei accorto di loro?
«Via lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno». Mentre prima Gesù
ha detto “venite benedetti dal Padre mio”,
qui dopo “maledetti” non dice “dal Padre mio”. Da chi sono stati maledetti? Da
se stessi.
La solennità di Cristo Re viene a concludere un anno liturgico incentrato sulla sua
esistenza: l’attesa del suo avvento (che prenderà il via domenica prossima, con
il Vangelo di Marco che ci accompagnerà durante l’anno) e insieme del suo
ritorno glorioso della Parusia. La sua incarnazione nel tempo del Natale, il
suo ministero pubblico (con discorsi e miracoli) durante il tempo ordinario, il
suo procedere verso la sua Passione e Morte (nel tempo della Quaresima) e la
sua Resurrezione (il tempo della Pasqua).
Gesù è il centro dell’anno liturgico, e nella sua
conclusione siamo invitati a riconoscerlo come il principio e la fine di ogni
cosa, come il re di quel Regno che è venuto ad inaugurare e che noi chiediamo
al Padre che realizzi nella nostra vita, nei nostri cuori: “venga il tuo
Regno”. Così come siamo invitati a riconoscere il cuore e insieme il fine di
tutto il suo messaggio: un amore concreto verso i poveri, uomini e donne in cui
si riconosce presente ed amato (o meno).
Gesù
ci presenta questa immagine del suo ritorno glorioso (la Parusia) come di un RE
che viene a GIUDICARE, a fare giustizia, a premiare e a condannare: spetta solo
a Lui il giudizio e possiamo confidare nel fatto che il suo è un giudizio
misericordioso oltre che giusto.
Gesù
è un RE il cui trono è la CROCE. Un re crocifisso che si dona completamente,
che si mette al servizio dei suoi sudditi. Un re al contrario di quelli che la
storia ci ha tramandato: il suo potere è quello onnipotente nell’amore che si
mostra nell’impotenza della Croce. Non pretende la vita dei sudditi, ma dona la
propria, non pretende di essere servito, ma si mette al servizio.
E’
un RE che assomiglia ad un PASTORE buono (prima lettura) che raduna le pecore
disperse, le conduce al pascolo, le fa riposare. Un re che si prende cura dei
suoi sudditi andando in cerca di chi si è perduto, fasciando i feriti, curando
i malati.
E’
un RE venuto a consegnare il regno a Dio Padre (seconda lettura), dopo aver
sconfitto ogni nemico (che non permettono all’uomo di vivere in pienezza),
averlo liberato da forze ostili, compresa la morte (“ultimo nemico ad essere
annientato”): la morte come fine di tutto, come disperazione, come nulla.
Allora Dio sarà “tutto in tutti”.
Gesù usa categorie oggi poco comprensibili: parla di
PASTORI e di PECORE, parla di RE e di SUDDITI. Ma attraverso queste categorie
ci ricorda la sua attenzione nei nostri confronti (1L): il desiderio di vederci
uniti, in comunione, il desiderio di vederci felici, sfamati, riposati, sereni.
Attento e premuroso nei confronti di chi è smarrito, disperso, ferito, malato,
senza dimenticare coloro che stanno bene, ma hanno comunque bisogno di lui. E
ci chiede di avere la sua stessa premura, il suo stesso amore, di essere le sue
braccia e le sue gambe che raggiungono ogni persona, curano e si prendono a
cuore i bisogni degli altri.
Le pecore hanno la caratteristica di essere mansuete,
umili, pacifiche, capaci di stare insieme e di lasciarsi guidare dal pastore.
Tutte caratteristiche gradite da Dio. E le capre? Sono da sempre collegate ad
ignoranza (“sei una capra”), a individualità ed egoismo (il diavolo è spesso
raffigurato con piedi caprini).
Infine una citazione dal Manzoni da meditare: “Si dovrebbe pensare più a fare il bene che a
stare bene: e così si finirebbe anche a stare meglio”.