Arturo Mariani: un testimone di vita e di fede



Doveva venire a portare la sua testimonianza ai nostri giovani e lo abbiamo mancato per un pelo. Magari ci riusciremo in futuro. Nel frattempo, per chi non lo conoscesse, ecco del materiale per conoscere la sua storia:
 L'AUTORE
22007831 1175759322568578 1507880548882930047 nArturo Mariani è nato a Roma nel 1993 e vive a Guidonia (Rm).
Ha praticato diversi sport: nuoto, taekwondo, body building, calcio. Dal 2012 fa parte della Nazionale Italiana di Calcio Amputati del CSI, partecipando nel 2014 ai mondiali di calcio amputati in Messico e, nei giorni scorsi all’Europeo in Turchia (manifestazione nella quale gli azzurri si sono piazzati al quinto posto).
Fondatore e animatore di un gruppo giovanile parrocchiale, è autore e speaker nella radio web Radio Giovani Arcobaleno.
Frequenta la facoltà di Scienze della comunicazione all’università La Sapienza e, da anni, è impegnato nel servizio di volontariato alla mensa Caritas di Roma.
Testimonial nelle scuole e in vari convegni sull’importanza dell’integrazione, coltiva da sempre la passione per i viaggi.
- Su Raiscuola un video su di lui;

- Il sito: www.arturomariani.it (fra l'altro con i video che presentano la sua storia);

- La pagina facebook (seguita da più di 7.200 persone)

- L'intervista su Sulla strada di Emmaus:
Luigi Garlando, ne La vita è una bomba, evidenziava l’esistenza, nella lingua  italiana, dell’espressione “persona in gamba” per indicare una persona che “si regge in piedi da sola”, che è autonoma;  il bambino protagonista del racconto, che aveva perso una gamba a causa di una mina, durante la guerra jugoslava, commentava, soddisfatto: “Allora ne basta una sola!”.
Conoscere ARTURO MARIANI non può che portare alla stessa conclusione. Non c’è bisogno - necessariamente - dell’integrità fisica, per essere in gamba: ad ognuno è data la possibilità (ciascuno a proprio modo) di poter fare qualunque cosa! Classe ’93, studente di Scienze delle Comunicazioni alla Sapienza nel tempo libero, fa parte della Nazionale Amputati, senza avere subito amputazione: già nel ventre materno, infatti, la sua gamba destra non si sviluppa.
Nei suoi due libri racconta di sé, senza filtri, né falso perbenismo la sua storia: straordinaria, nella sua ordinarietà, tra alti e bassi, una grande passione per il calcio, due genitori presenti, due fratelli ed un cugino a cui è molto legato, l’infanzia, l’adolescenza, gli amici, il gruppo giovani Arcobaleno, il volontariato, l’avventura della Nazionale e... la scelta di testimoniare la bellezza della vita, con il suo sorriso!
1. Cosa provi, pensando che, quando nascesti, a tua madre proposero l’aborto? Quando hai saputo questo dettaglio della tua storia?
L’aborto va contro la vita, è un omicidio, perché, per me, è vita dal primo momento. Penso con orgoglio alla scelta che ha fatto mia madre, ma capisco che non tutti fanno questo ragionamento. Ma c’è poco da ragionarci su: è vita. Punto.
Ho saputo questo dettaglio verso i dodici anni, ma sono sempre stato informato su tutto, anche se sempre in modo graduale e rispettoso del mio sviluppo psicofisico. Tanti mi chiedono se io abbia poi saputo il motivo che ha portato alla mia malformazione intrauterina: devo confessare che, in realtà, non è una cosa a cui i miei genitori si siano particolarmente interessati, prestando, piuttosto, maggiore attenzione al modo in cui risolvere al meglio (protesi e cambio delle stesse in relazione alla crescita, stampelle) i problemi di deambulazione che ho.
2. In diverse parti del tuo libro, parli del fatto di essere “additato” per la tua diversità: hai mai imparato a “conviverci” o, ancora adesso, ti dà fastidio?
Fastidio no, ma mi rendevo conto di essere al centro dell’attenzione in modo particolare: sguardi, o anche situazioni spiacevoli, sono stati importanti per riflettere e capire quanto l’ignoranza sia diffusa. Mi sono reso conto che stava a me trovare le risposte, prima di pensare che fossero “gli altri” a dover cambiare.
3. È più difficile spiegare la tua condizione ai grandi o ai piccoli?
Da parte mia, cerco sempre di essere spontaneo. Nei bambini, prevale lo stupore iniziale, fino ad avere domande irreali, come «Dove hai lasciato la gamba?», a cui rispondo sullo stesso tono, che l’ho dimenticata a casa: per un fanciullo, il problema è risolto in questo modo, perché non parte da pregiudizi. Questi, negli adulti, sono più diffusi e richiedono più tempo per essere sconfitti.
4. Nato così: l’autobiografia di un ragazzo che non è speciale, è unico. Come lo è ciascuno di noi! Che messaggio hai voluto trasmettere ai tuoi lettori con la tua “opera prima”?
Complice l’esperienza con la Nazionale, sentivo la responsabilità di far conoscere la mia storia, perché mi rendevo conto dello stupore che ci attorniava. In questo modo, potevo veicolare un messaggio di speranza a tutti quelli che pensano solo a lamentarsi perché focalizzati solo sugli aspetti negativi.
5. In diverse parti del tuo libro, parli del fatto di essere “additato” per la tua diversità: hai mai imparato a “conviverci” o, ancora adesso, ti dà fastidio?
Fastidio no, ma mi rendevo conto di essere al centro dell’attenzione in modo particolare: sguardi, o anche situazioni spiacevoli, sono stati importanti per riflettere e capire quanto l’ignoranza sia diffusa. Mi sono reso conto che stava a me trovare le risposte, prima di pensare che fossero “gli altri” a dover cambiare.
6. Cito, da pag. 22 (Nato così), dove c’è un piccolo capolavoro di filosofia di vita che, personalmente, condivido: «L’impatto con te stesso è la tua immagine allo specchio e se non ti piace è un problema. Conosci i tuoi punti deboli, accettali e contrastali con i tuoi infiniti lati positivi e sarai invincibile. (...) Se non ci piace qualcosa di noi stessi, che sia caratteriale o fisico, dobbiamo impegnarci per modificarci puntando alla perfezione, che ovviamente non raggiungeremo mai, ma comunque ci prefissiamo il più alto degli obiettivi. alla base di tutto, dobbiamo cominciare ad accettarci a prescindere, accettare anche i difetti, perché non possiamo modificarli tutti. Puntiamo alla perfezione ma allo stesso accettiamoci per la nostra più estrema imperfezione».
Confermi questa tua “teoria” dell’amor di sé, anche nei propri limiti?
Confermo, avere una sorta di "leggerezza cosciente" aiuta a crescere, senza farsi angosce inutili.
7. Nel tuo libro critichi, in modo più o meno velato, il poco spazio che i media riservano a ciò che va al di là delle aspettative comuni: a tuo avviso, quale ruolo hanno (o possono avere), nella possibilità di superare i limiti (spesso culturali) che, il più delle volte, siamo noi stessi ad imporci?
Sicuramente, i media hanno grandi potenzialità. I social network (Facebook, Instagram), me ne accorgo anche a livello personale, possono aiutarti a raggiungere tante persone, ma non basta: chi è più "famoso", ha anche maggiore responsabilità, perché ha l'opportunità di farsi ascoltare da più persone.
8. Tuo padre accenna ad un momento in cui sei stato preso in giro, durante giochi con coetanei. Ricordi quale fu la tua reazione, che tuo padre valutò generatrice di “rispetto, affetto e stima” nei tuoi riguardi?
Bisogna sempre partire da se stessi, la colpa non va data agli altri: devo trovare io la soluzione su me stesso. Sono sempre stato abituato così, fin da quando ero abbastanza piccolo (6-7 anni). Così, con spontaneità e sicurezza, ho sempre domandato, a fronte magari di qualche brutto atteggiamento nei miei riguardi, perché quella persona parlasse o si comportasse in quel modo. In genere, l’altro non sa rispondere, per cui rimane, in un certo senso spiazzato.
 9. C’è una cosa strana che spicca. La normalità, anche per chi si definisce credente, è allontanarsi dopo la Cresima. Tu invece fai parte del “piccolo gregge” che ha deciso di continuare. Cosa ti ha spinto a farlo e come hai vissuto questa, di diversità, rispetto ai coetanei?
La scelta è stata quasi “obbligata”, dal momento che avevo vissuto bene il percorso precedente e che la fede, per me, è sempre stata importante (grazie anche al fatto di averla vissuta in famiglia). Ancora oggi, il mercoledì è il giorno di ritrovo del gruppo, che è per noi momento di confronto sulle cose più importanti della vita: io per primo vado anche al “muretto”, ma mi rendo conto che quello non era per me luogo di crescita. Molti dei miei coetanei non vedono di buon occhio andare in chiesa o frequentare un gruppo parrocchiale. Molto però dipende anche da come ti poni: se presenti la tua esperienza con spontaneità, coraggio ed entusiasmo, le difficoltà sicuramente si dimezzano.
10. Che ricordi conservi dell’esperienza di giocare una partita contro i detenuti, tra le mura del carcere di Rebibbia?
È un’esperienza unica, che ti cambia completamente la prospettiva. Esce fuori il senso di libertà vero. Prima, magari c’è la paura o il pregiudizio verso chi incontrerai (così come tanti hanno pregiudizi nei miei confronti): in entrambi i casi, successivamente, parlando insieme o giocando a pallone, ogni pregiudizio è abbattuto dal fatto che hai davanti una persona, come te.
11. Sei reduce dall’esperienza dell’Europeo con la Nazionale Amputati, in Turchia. Quali sono i tuoi ricordi più belli legati a questo evento?
È stata un’esperienza incredibile, diversa da tutte le altre: forse, perché è stata la prima “professionistica” (ci svegliavamo presto al mattino, giocavamo tutti i i giorni...) e tutto ciò è una bella differenza, rispetto alla mia quotidianità. Abbiamo anche raggiunto un obiettivo importante ed inatteso (il quinto posto nel ranking europeo). Il ricordo che conservo con più entusiasmo, ma anche tristezza, è la finale che si è disputata nello stadio del Besiktas: uno stadio pieno, con 40000 persone sugli spalti, per la partita Turchia - Inghilterra. C’era un’atmosfera indescrivibile: sembrava di essere alla finale di un Mondiale! Poi, era quasi come se ci fossi io in campo, nel senso che conoscevo diversi ragazzi di entrambe le squadre.
Fino all’aeroporto di Istanbul, tutti parlavano di noi, eravamo  in prima pagina su giornali e tv. Non appena tornato in Italia, invece, il buio totale. Nessuno sapeva neppure che avessimo disputato un Europeo. Questo testimonia che persino nei confronti della Turchia, che giudichiamo di solito un Paese arretrato, abbiamo tanto da imparare, per quanto riguarda la visibilità degli sport paralimpici.
12. Hai scritto un altro libro, uscito qualche settimana fa, Vita nova, in cui hai intervistato, tra gli altri, Nino Benvenuti, Massimiliano Sechi, Francesco Acerbi, Monsignor Pompili, Alex Zanardi... per un totale di 13 interviste, in cui i prescelti raccontano di un evento che ha cambiato la loro vita: perché questo secondo libro? Cosa accomuna i personaggi che hai intervistato?
Durante la presentazione del primo libro, la mamma di un ragazzo disabile mi disse che io avrei dovuto diventare famoso, per raccontare storie di dolore a tutto il mondo, portando il tuo sorriso. Diventare famoso è una responsabilità, nei confronti di chi ti ascolta. Ho pensato che il modo migliore, dopo aver raccontato (e scoperto) me stesso, fosse quello di dar voce ad altre persone ed altre storie, che toccano tanti temi: coraggio, resilienza, senso di libertà… La resilienza è sicuramente un tema importante, perché si parla del dolore e della capacità non solo di resistere (come uno scoglio che si oppone alla forza delle onde), ma anche di piegarci, adattandoci alla situazione, per poi ritornare alla nostra forma naturale, nella consapevolezza che nessuna onda durerà per sempre. Si rinasce nuovamente, proprio a partire dagli eventi più traumatici. questo è un po' il senso del libro.

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