Polemica natalizia: la Murgia contro il bambinello (e tutti contro di lei)


 I cattolici amano un dio bambino perché rifiutano la complessità”? Lo afferma la scrittrice Michela Murgia in un articolo del 23 dicembre pubblicato su La Stampa.

“Un’intellettuale molto complessa”, ha scritto la Miriano a proposito della Murgia, replicando con le parole di San Tommaso D’Aquino, “un tipo semplice”. “L’insensato non prende in considerazione nessun’altra verità oltre quella che può capire”.

Ma se buona parte della stampa di destra si scaglia contro la Murgia (vedi Nazione Futura, Il Tempo, La Nuova Bussola Quotidiana e sul sito di Nicola Porro) può stupire che anche "a sinistra" trovi delle critiche da Vito Mancuso, sempre su La Stampa: "CARA MURGIA, TRA UMANO E DIVINO ECCO CHI È IL VERO DIO BAMBINO":

Michela Murgia ha accusato in modo piuttosto aspro il cattolicesimo di essere «l’unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio». Io penso di capire qual è il suo obiettivo: sono quei cattolici che si commuovono davanti al presepe cantando «Tu scendi dalle stelle» e subito dopo chiudono il cuore davanti a quelle persone che cercano accoglienza perché arrivano dal mare. Quei cattolici che proclamano fervorosamente «Dio Patria Famiglia», ma solo a condizione che si tratti del «loro» Dio, della «loro» Patria, della «loro» Famiglia, svelando così che in realtà il vero interesse è solo ciò che è loro, quindi loro stessi, facendo in questo modo dell’egoismo il valore assoluto. Io penso sia questo l’obiettivo di Murgia e lo condivido, perché anch’io ritengo da sempre che fare del cattolicesimo il guardiano della coscienza egoista dell’Occidente opulento sia un tradimento del messaggio evangelico.
Detto questo, però, il modo con cui Murgia procede per sostenere la sua tesi è tale, a mio avviso, da presentare non pochi problemi sotto il profilo contenutistico sia biblico sia teologico. Argomento la mia affermazione partendo dai problemi più leggeri lasciando alla fine ciò che ritengo veramente grave. Per quanto concerne l’esegesi biblica Murgia scrive che «nelle Scritture il racconto biblico della nascita di Gesù somiglia più alla trama di un film drammatico». Si tratta di un’affermazione solo parzialmente vera, che vale per il racconto della nascita di Gesù presentato da Matteo ma non per quello di Luca. I due resoconti sono così diversi tra loro da renderne impossibile l’armonizzazione e da dover concludere che le cose in quei giorni andarono o come le racconta Matteo o come le racconta in Luca (o in modo ancora diverso, come io penso, ma qui non posso argomentare il mio punto di vista). Secondo Matteo, la sequenza degli eventi fu: annunciazione a Giuseppe, nascita in casa (perché Giuseppe e Maria erano di Betlemme), arrivo dei Magi, ricerca del bambino da parte di Erode per ucciderlo, fuga in Egitto, strage degli innocenti. Un film davvero drammatico. Secondo Luca, invece, la sequenza fu: annunciazione a Maria, nascita in una stalla (perché Giuseppe e Maria erano di Nazareth e non avevano trovato posto negli alberghi di Betlemme dove si trovavano momentaneamente a causa del censimento), nessuna minaccia da parte di nessuno così che i genitori, invece di scappare in Egitto, portano il bambino a Gerusalemme nel tempio (a due passi da Erode!) per farlo circoncidere, sereno ritorno a casa a Nazareth. Un film per nulla drammatico. Nella mente di molti, compresa quella di Murgia, i due racconti si fondono e si confondono, con la poca chiarezza che ne consegue.
Un secondo problema di ordine teologico ed esegetico è dato da questa affermazione di Murgia: «Solo i cattolici hanno compiuto nella persona del Cristo incarnato l’idealizzazione dell’infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa priva di riscontro biblico». Qui gli errori sono due: che solo i cattolici avrebbero idealizzato l’infanzia di Cristo e che tale operazione sarebbe priva di supporto biblico. Inizio da quest’ultimo aspetto, affermando che in realtà la tenerezza verso l’infanzia ha diversi riscontri biblici, tra cui uno dei più celebri è questa profezia di Isaia: «Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio Potente, Padre per sempre, Principe della pace» (9,5). E che non siano stati solo i cattolici a idealizzare l’infanzia di Cristo lo prova per esempio il «Messia» di Händel, composto da un protestante per fedeli anglicani nel 1741 con testi tratti dalla Bibbia di Re Giacomo, tra cui il testo di Isaia sopra riportato e magnificamente musicato da Händel. Neppure corrispondono al vero queste altre parole dell’autrice, cioè che «nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato – per Maria bambina, di sponda – è praticamente inesistente». In realtà la devozione verso il Bambino e la Madre oltre che nel cattolicesimo è molto presente nell’ortodossia, lo testimoniano sia le icone sia le feste, per esempio l’icona della nascita di Gesù e la relativa festa, l’icona della nascita di Maria e la relativa festa, l’icona di Maria introdotta nel tempio e la relativa festa. E da non dimenticare mai l’icona Theotokos di Vladimir, nota anche come Madre di Dio della tenerezza, dipinta a Costantinopoli e oggi conservata a Mosca.
Ma è soprattutto il profilo teologico-sistematico dell’articolo di Murgia a destare come minimo perplessità, laddove si legge: «Dio si è fatto come noi per farci come lui, recita il verso di un noto canto d’Avvento, talmente mistificatorio che verrebbe quasi da dare ragione all’emerito papa Ratzinger, ostile sin da cardinale alla deriva creativa della musica liturgica post-conciliare». La frase descritta in quel modo da Murgia, e che in effetti si trova in un noto canto liturgico, è in realtà uno dei più importanti assiomi teologici di tutti i tempi, coniato da Ireneo di Lione nell’opera «Contro le eresie», composta verso il 180 e baluardo della teologia cristiana, nella quale in riferimento a Cristo si legge: «Si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso» (libro V, prefazione; ma l’affermazione ricorre in diverse forme in molte altre pagine).
Affermare che la frase «Dio si è fatto come noi per farci per farci come lui» sia semplice musica liturgica postconciliare mistificatrice del vero cristianesimo (cercando persino sponda in Benedetto XVI) è davvero qualcosa di molto imbarazzante. Si può credere o non credere nella dottrina cristiana, ma se vi si crede non si può scrivere che il centro dogmatico e spirituale del cristianesimo sia «mistificatorio». È come uno che afferma che per lui Bach è il più grande musicista di tutti i tempi e poi sostiene che il contrappunto e il basso continuo sono una mistificazione della vera musica (o come uno che afferma di tifare Juventus e poi sostiene che Bettega, Platini e Del Piero non valevano nulla).
Il farsi come noi da parte di Dio (l’umanizzazione) per farci come lui (la divinizzazione) è il cuore concettuale del cristianesimo e costituisce la sua differenza specifica rispetto all’ebraismo, per il quale non è possibile né una umanizzazione di Dio né una divinizzazione dell’uomo, perché Dio è e rimarrà sempre «totalmente altro». Per il cristianesimo, al contrario, tutto si gioca qui: che Dio si è fatto come noi per farci come lui. I padri della Chiesa di lingua greca ne parlavano in termini di «theosis», i padri della Chiesa di lingua latina ne parlavano in termini di «deificatio» e per molti secoli le mistiche e i mistici cristiani hanno testimoniato questo ideale facendone lo scopo della vita.
L’umano è il valore assoluto? Sì, ma solo a patto di essere consapevoli che tale affermazione contiene anche un grande rischio: quello che Friedrich Nietzsche denunciava dicendo «umano, troppo umano». Un cristianesimo che si riduce a essere solo umanità, cioè solo caritas, accoglienza, impegno per il prossimo e i migranti e i diversi, un cristianesimo solo orizzontale, è destinato a diventare come quel sale di cui parlava Gesù dicendo che «perde il sapore e a null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dalla gente». È chiaro che il cristianesimo non potrà mai fare a meno di accogliere e di essere dalla parte degli ultimi, tra cui i più indifesi quali i bambini e soprattutto i vecchi. Ma la fonte da cui scaturisce la sua energia non potrà essere unicamente l’umano, ma l’umano unito al divino e il divino unito all’umano.
Un’ultima cosa. Non è vero che è solo il cattolicesimo tra le confessioni cristiane ad aver idealizzato il bambino facendone una tra le più preziose manifestazioni del divino, è vero però che il cattolicesimo ha compiuto tale operazione in modo mirabile, soprattutto a seguito di Francesco d’Assisi che nel 1223 a Greccio a tal fine inventò il presepe. Egli intendeva in questo modo onorare il suo maestro, il quale un giorno, molti secoli prima, ai discepoli che gli avevano chiesto chi sarebbe stato il più grande nel regno dei cieli, aveva risposto chiamando a sé un bambino e dicendo: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli». Poi concludeva: «Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli». Lo specifico del pensiero di Gesù è l’armonia tra l’umano e il divino, tra il grande e il piccolo, tra l’adulto e il bambino. In questa armonia consiste il cristianesimo e, a mio avviso, anche l’anima della nostra civiltà detta Occidente. Decadente e detestabile per molti aspetti, essa rimane pur sempre il luogo più attento della Terra ai diritti umani, un’attenzione che gli proviene dall’aver creduto per secoli che Dio si è fatto come noi per farci come lui.
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Una risposta equilibrata la offre Aleteia e Enzo Bianchi su La Repubblica.

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