Ancora sul Natale: Zuppi, Tolentino e altri
La ricchezza di questi giorni emerge anche dalle riflessioni pubblicate nei giornali (non solo cattolici). Penso innanzitutto ad Avvenire che, in questi giorni, ha pubblicato:
- una riflessione di don Patriciello: "Natale. Il Dio bambino spinga tutti ad ascoltare la voce dei piccoli";
- una riflessione "artistica" del cardinale Josè Tolentino: "Come una stella nelle nostre mani vuote: il vero presepio è dentro noi" (vedi il testo in fondo al post);
- una riflessione del cardinale Matteo Zuppi: "Questo Bambino. Le nostre fragilità e la certezza del Natale. La vittoria che solo vale"(vedi il testo in fondo al post);
Su La Repubblica segnalo un articolo di Massimo Recalcati: "Il senso della natività: continuare a rinascere".
Su L'Osservatore Romano, fra l'altro, è pubblicato l'editoriale del direttore, Andrea Monda: "Il mistero di un Dio bambino".
Segnalo due contributi del vescovo di Napoli, mons. Mimmo Battaglia:
- "Addà passà la nuttata. La bellezza del Natale" (Famiglia Cristiana);
- "La bellezza del presepe" (IV Lettera di Avvento 2022)
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Matteo ZUPPI:
Natale è molto più buono di quanto pensiamo! E soprattutto è davvero buono, tutt’altro che una melassa di sentimenti a poco prezzo. Certo, è buono perché ispira gratuità, induce a donare, a preparare regali e a scoprire che siamo contenti di prepararli per le persone che amiamo o che vogliamo sentano il nostro amore. Indicazione valida tutto l’anno! Ma è ancora più buono se pensiamo che il nucleo incandescente di questa irradiazione di affetti che riscalda il cuore del mondo a Natale, è il grembo di una ragazza che ha offerto tutto l’amore di Donna che aveva per dare alla luce il Figlio di Dio.
Natale è la certezza che il mistero di Dio non è l’oggetto astratto di futili dispute filosofiche, politiche, persino religiose. Futili, e anche pericolose, perché interessate a decidere la vittoria di una parte dell’umanità su un’altra. E si vince solo insieme! Futili perché Dio non lo riconosci nelle dotte istruzioni dei gestori economici della qualità della vita che, quando le cose vanno male, denunciano gli errori dei tuoi calcoli e passano all’incasso della loro buonuscita.
Natale è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con noi perdutamente innamorati nella vita. Questo Bambino è l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Davvero con noi. È nato e per trenta anni ci ha studiati amorevolmente (non con le statistiche e i bilanci), vivendo come noi e con noi, prima di dirci quello che doveva dirci per conto di Dio. E che doveva dirci, per conto di Dio? Doveva dirci che il mondo del quale Dio è il Signore (“il regno di Dio”) è il mondo che viviamo: quello nel quale cerchiamo come possiamo di amare e di essere amati; quello nel quale sappiamo di non essere mai all’altezza delle promesse fatte e ricevute. Il Figlio che nasce a Natale afferma: «In verità, in verità vi dico» che il più piccolo dono d’amore (fosse un bicchiere d’acqua a un estraneo) vale una vita eterna. E ci fa conoscere la vita di Dio, che ci è destinata fin dalla creazione del mondo. Nasce nel mondo perché la nostra vita nasca al cielo. Una vita nella quale la fiducia dei bambini e le speranze dei loro padri e delle loro madri, avranno un mondo infinito da abitare: dove ogni lacrima sarà asciugata e neppure una carezza verrà sprecata.
Il Natale è più che un sogno, è la carne di Dio che riveste di amore la nostra fragile carne, di Dio eterno che rivela l’amore del nostro presente.
Nel Natale di Gesù, il mistero di Dio assume una forma che chiunque può riconoscere (“chiunque”, capisci?), diventa un volto che si può decifrare, un Tu con il quale si può prendere confidenza, una carezza e uno sguardo dal quale ci si può sentire infinitamente amati. Il Natale di Dio non contiene tutte le risposte, ma ci dona il suo amore che è la risposta a tutto. Da quando Dio è uno dei nostri bambini, nessuno osi mortificare il più piccolo dei nostri figli. Dio è nel suo volto. Il Vangelo narra la nascita di Gesù e rivela la causa per cui Maria è costretta a partorire in una mangiatoia: «non c’era posto per loro nell’alloggio» (Lc 2,7). Questo non smette di stupirci, commuoverci, interrogarci. È proprio quello che accade in tante situazioni di fragilità di donne, uomini, piccoli, famiglie del nostro tempo. Ne condivido tre.
Penso anzitutto alla fragilità della pace. Viviamo il primo Natale di guerra in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ci coinvolge tutti e capiamo quella «guerra a pezzi» di cui da tempo parlava papa Francesco. Poco ascoltato. Guerra significa dolore, morte, devastazione del territorio, fuga di chi cerca riparo lontano da casa. La guerra è il punto di deflagrazione: ma la pace manca pure dove i diritti vengono calpestati e dove chi li cerca o li difende cercando una società più giusta e libera viene condannato a morte.
Penso alla fragilità dell’educazione. La povertà economica risucchia nel suo vortice una fetta sempre più ampia della popolazione.
Ma c’è anche la povertà meno evidente ma ugualmente grave della scuola che a fatica sta riprendendosi dopo i mesi terribili della pandemia. Scuola significa socializzazione, ascensore sociale, consapevolezza di sé, dignità. Ai giovani dobbiamo garantire il merito che è possibile per ciascuno, la cultura per capire il mondo, l’umanesimo per non diventare bruti, le competenze intellettuali, la crescita nella capacità di relazionarsi, i mezzi stabili per costruire insieme un mondo migliore. Quanti giovani si sentono e sono spesso soli, incerti, sempre precari? Questo è il tempo di genitori, di insegnanti, di educatori e di pastori maturi, che sappiano essere veri maestri di vita e aiutino a credere al futuro.
Infine, penso anche alla fragilità dell’evangelizzazione. Il Cammino sinodale, giunto al suo secondo anno, rivela certo anche tante fatiche, debolezze, a volte il desiderio nostalgico di tornare a come eravamo prima del Covid, l’incertezza di risposte non più sufficienti. Il cammino sinodale ha significato anche l’occasione perché il Vangelo parli di nuovo a tutti i nostri compagni di strada e ispiri la scelta di costruire comunità umane, case che siano la famiglia di Dio, Chiese domestiche, di comunione e di servizio ai poveri. Era proprio questo il programma del Concilio Vaticano II.
Certo, sentiamo tante fatiche e stanchezze, ma è questa la stagione in cui la Chiesa sia davvero missionaria e generi l’incontro tra Dio e ogni uomo e donna. Guardiamo Gesù Bambino nella mangiatoia, Maria e Giuseppe accanto a lui. E risuonano le parole di san Paolo: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Ecco il Natale, la pace che disarma i cuori, l’amore che dona forza e intelligenza la speranza che libera dalla rassegnazione e mette in cammino. Partiamo proprio dalle fragilità per riconoscerci umili, deboli, ma capaci di grandi cose perché pieni del Dio che si pensa per sempre con noi.
Matteo Zuppi è cardinale, arcivescovo di Bologna presidente della Cei
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Josè Tolentino:
Partiamo da tre rappresentazioni della scena del Natale che probabilmente tutti abbiamo visto e che danno un contribuito decisivo al canone della pittura a occidente: la pioniera Natività di Giotto, la cosiddetta Natività mistica di Botticelli e Il neonato di Georges de La Tour. Un trittico che si offre alla nostra meditazione.
“Natività di Gesù” di Giotto, 1303 1305 circa). Padova, Cappella degli Scrovegni - WikiCommons
Vedere con gli occhi del corpo
Su Giotto (1267-1337) c’è quel racconto del Vasari che narra come, all’età di dodici anni, egli fosse un pastore di pecore che andava spargendo disegni sulle pietre. Lo avrebbe visto uno dei grandi pittori toscani dell’epoca, Cimabue, che lo ingaggiò come apprendista nella sua bottega. Eppure, forse ancor più decisivo sarebbe stato l’incontro con la traccia lasciata dalla figura di san Francesco d’Assisi (1181-1226). Li separano quattro decenni, ma Giotto conierà alcune delle immagini più celebri di quel giovane mendicante innamorato di Dio che aveva ispirato una delle riforme spirituali di maggior impatto nel percorso storico del cristianesimo, e i cui effetti incrociano il nostro presente.
Era stato il Poverello, la notte di Natale dell’anno 1223, nella povera contrada di Greccio, a organizzare la prima rappresentazione dal vivo della nascita di Gesù. Como spiega il suo cronista Tommaso da Celano, Francesco voleva «vedere con gli occhi del corpo» il bambino nato a Betlemme, «i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Fece vestire gli abitanti di Greccio con le vesti degli antichi pastori, dei magi, di Giuseppe e di Maria. Era il trionfo degli umili.
Veniva così a fissarsi la tradizione del presepio nel suo nucleo essenziale. Ma vi si inscriveva allo stesso tempo un insegnamento che non può essere dimenticato: tutti gli abitanti di Greccio (e, per estensione, di tutta la terra) possono essere attori nella narrazione plasticamente espressa nel presepio. Nessuno è escluso. Secondo le belle parole della testimonianza di Tommaso da Celano, un qualsiasi borgo sperduto poteva trasformarsi in «una nuova Betlemme», poiché quella «notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali». Di quella notte, quando un’intera popolazione celebrò una gioia nuova, il pittore Giotto ripropose la memoria in un affresco della Basilica inferiore di Assisi.
Uno dei caratteri dell’arte di Giotto è che egli rappresenta i santi come esseri umani dall’apparenza comune. Contemplando la sua natività, in effetti, avvertiamo di essere posti davanti a una storia vera, non davanti a una favola. Tutto è imponente, vasto e splendente come il blu della volta celeste o del manto di Maria. Ma tutto è anche vero e vernacolare: la madre prende realisticamente il figlio tra le sue braccia, e nella scena inferiore le aiutanti lo fasciano e nutrono come si fa con un neonato per proteggerlo. Sono modi di tenere al riparo la fragilità della vita nuda di Dio, che nel presepio si fa Dio con noi, un Dio che si può toccare. E costituiscono, al tempo stesso, pezzi di una storia che appartiene a ogni vivente, la parabola universale dell’esistenza. È chiaro che il presepio rappresenta, nel suo gioco di miniaturizzazione e ingrandimento, una meditazione sull’infanzia di Gesù. Ma è simultaneamente la possibilità, per l’essere umano, di un’infanzia ritrovata. Nella sospensione cosmica che il presepio visualizza graficamente, comprendiamo allora che la nostra stessa creazione non è terminata.
Natività mistica” di Sandro Botticelli (1501). Londra, National Gallery), - WikiCommons
Gli angeli scendono ad abbracciare gli uomini
Una delle raffigurazioni più commoventi del presepio è quella che molti critici ritengono essere l’ultima grande opera firmata da Sandro Botticelli. Essa data da un periodo abitualmente descritto come di profondi rivolgimenti e di ricostruzione spirituale, quando l’autore, confrontandosi con la predicazione apocalittica del Savonarola, ripensa tutto il suo percorso precedente. Sotto l’impatto della dottrina del frate domenicano, Botticelli abbandonerà i temi profani divenuti emblematici della sua opera per dedicare gli ultimi anni esclusivamente alla pittura sacra.
È in tale contesto che appare, nel 1501, la Natività mistica. Si tratta, sotto il profilo artistico, di un’operazione complessa, dal momento che qui si procede a una volontaria regressione nella costruzione della prospettiva, la quale si fa di nuovo più prossima all’iconografia medievale, in una deliberata ricerca della struttura ieratica. Da un lato, abbiamo il ritorno a una tradizione iconografica che si riteneva superata. Dall’altro, però, ci troviamo di fronte al coraggio di rappresentare il presepio con una modalità innovatrice. Alle prese con il mistero dell’incarnazione, Botticelli non è semplicemente interessato a raccontare ciò che fu: si arrischia a descrivere quello che è e che sarà. Combina la descrizione della prima venuta di Cristo, qual è raccontata nei Vangeli dell’Infanzia, con la visione della seconda venuta di Cristo, che il cristianesimo professa.
Per questo, abbiamo in questo suo dipinto la venuta e anche il ritorno; l’inizio del tempo messianico, e il compimento; la memoria, e anche la speranza. In alto, la danza dei dodici angeli, in un girotondo sotto la cupola dorata che allude alla rigenerazione spirituale, alla concordia tra il mondo e le sfere celesti. Sul tetto della stalla, altri tre angeli che aprono il libro e rivelano che in quel luogo il Verbo si è fatto carne. Al centro della rappresentazione c’è Gesù Bambino, deposto nella mangiatoia, sorvegliato dall’asino e dal bue, e che tende le braccia a Maria. Al suo fianco, Giuseppe che sonnecchia. Maria e Giuseppe insegnano in questo modo ad accogliere quello che viene da Dio e che non comprendiamo, o capiremo solo più tardi. A loro si associano i magi e i pastori, condotti da un angelo a Gesù.
Per cogliere il significato del presepio serve uno sguardo spirituale. Penso spesso alla lezione di questi ultimi. Essi corsero a vedere un Bambino che era nato tra le privazioni di una stalla e ritornarono per la loro strada lodando Dio, ricolmi di gratitudine per il segnale che era stato dato loro. Possiamo a ragione domandarci: “Ma che cosa videro?”, “Che cosa mai contemplarono di talmente straordinario o grande da essere capace di riempire il loro cuore?”, “Non era esposta ai loro occhi, in fondo, semplicemente la vita vulnerabile; un’esistenza condizionata dalle evidenti difficoltà materiali e logistiche che il presepio offre; la vita avvolta negli stracci di un’estrema fragilità?”. Eppure, i pastori e i magi usciranno da quella visione quasi danzando, intonando inni! Non restano lì in attesa di contemplare l’opera compiuta: ne salutano il principio. Rimangono estasiati ad assistere allo sbocciare del fiore. Accolgono la grandezza del dono e niente più, inginocchiandosi davanti al suo umilissimo apparire.
Quel Bambino spoglio di ogni forza, munito unicamente di quanto le braccia con un abbraccio possono fare, trasforma radicalmente la storia, instaura la vittoria sul male. E non per nulla in questo dipinto ci sono sette piccoli demoni che, alla vista del Principe della Pace, si ritirano, vinti, nelle fessure delle rocce. E compare allora un insolito e straordinario registro iconografico: in basso, nel primo piano del quadro, tre angeli vengono ad abbracciare gli uomini.
Davvero Botticelli rilegge il presepio come un abbraccio. Ma quale tipo di abbraccio? Se facciamo caso al simbolismo delle vesti degli angeli (bianco, verde e rosso), è l’abbraccio della fede, della speranza e della carità. Ma è l’abbraccio dato al fango e alla stella che ogni essere umano porta in sé, alla sete e alla sorgente, al desiderio e al viaggio, alla coscienza e alla vertigine, alla polvere che muore e a un granello di infinito. Questo abbraccio dilata in noi l’idea dell’amore.
“Il neonato” di Georges de La Tour (1645 1648.Rennes, Museo delle belle arti - WikiCommons
La nudità di Dio che si fa carne
Anche quello di Georges de La Tour (1593-1652) è un caso curioso. Egli è molto differente dai suoi contemporanei. Ha ricevuto committenze pubbliche come gli altri, e tuttavia non fu mai associato alla rappresentazione di un potere o alla monumentalità celebrativa. Pensò la pittura come un incontro dell’essere umano con sé stesso; desiderò l’arte come un evento contemplativo la cui essenza non si distanza, per esempio, dalla preghiera. E tradusse tutto questo illuminando i suoi dipinti dall’interno con la luce di una fiamma.
A ragione Pascal Quignard dice che quella candela tremula nella sua opera, e da cui questa dipende, è l’immagine stessa di Dio. I suoi quadri diventano, conseguentemente, esercizi spirituali, carichi di mistero, solitudine e silenzio. In essi intuiamo che il Verbo non può essere accolto che nel silenzio.
I chiaroscuri e i notturni di de La Tour testimoniano l’importanza che nel suo percorso formativo ebbe Caravaggio. Mentre, però, de La Tour si avvicina a lui, allo stesso tempo se ne allontana. I suoi dipinti religiosi prendono le distanze dalla grandezza delle figure del Caravaggio o dalla sua drammatica mise en scène, talora violenta: sono, al contrario, più quotidiane, più silenti, a noi così vicine da sembrare disposte a confondersi con noi. Non stupisce che ci sia chi interpreta quel capolavoro che è Il neonato (datato al 1645 circa) non come una raffigurazione sacra ma come un momento familiare attorno a un bebè qualsiasi.
Ci troviamo, tuttavia, davanti a una duplice operazione: de La Tour spoglia e semplifica – è certamente vero –, ma al fine di rimuovere quel velo che può essere rappresentato dalla teatralizzazione del divino. Se quel neonato è il Figlio di Dio, noi lo capiremo non dalla forza, ma dall’umiltà; non dall’imposizione di un discorso, ma dal vagito silenzioso che riempie lo spazio; non dall’esplicitazione enfatica dei personaggi in gioco, ma dalla liturgia senza parole dei loro corpi, in una gravità nuda. La gravità e la nudità del Dio che si fa carne. Tornano in mente i versi di Fernando Pessoa: «Egli è l’Eterno Bambino, il dio che mancava. / Egli è l’umano che è naturale, / egli è il divino che sorride e gioca. / È per questo che io so con assoluta certezza / che egli è il vero Gesù Bambino».
La fiaba e la storia
«Non si comprende nulla del presepe, se non si comprende innanzi tutto che l’immagine del mondo, cui esso presta la sua miniatura […] è un’immagine storica». In un saggio sul presepio, il filosofo Giorgio Agamben lo contrappone alla natura e alle dinamiche tipiche delle fiabe: queste sono l’espressione del meraviglioso, mentre quello ha, come sua materia prima, la storia. Nel presepio, dice Agamben, siamo restituiti all’univocità e alla trasparenza degli avvenimenti storici. Il presepio funziona come un fotogramma della storia. Fissa realmente il tempo in un’immagine precisa, e non con il linguaggio del mito o l’artificio della favola, ma nello spoglio intervallo (che il filosofo definisce «intervallo messianico») tra due istanti.
L’immaginario è così vinto dalla realtà, con quella concretudine che si respira nello straordinario prologo del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria». O nel vertiginoso incipit della Prima Lettera di Giovanni, così costruito: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta».
Questa testimonianza di una visione storicamente attivata mostra che il presepio non è solo un dato cronologico appartenente a duemila anni fa, bensì rappresenta, come scrive Giorgio Agamben, «un evento kairologico». Kairologico vuol dire che non si tratta solo di un momento puntuale: è piuttosto l’occasione opportuna, il tempo favorevole e la condizione necessaria perché la storicità prenda il volo e faccia sussultare il mondo.
Il presepio in cui Dio nasce
Ora, partendo esattamente dalla irremovibile storicità dell’avvenimento che il presepio rappresenta, ne concludiamo che ogni uomo è il presepio in cui Dio nasce. I presepi che vengono allestiti, e poi tranquillamente messi via, i presepi ai quali riserviamo una scadenza determinata (e non al di là di questa), i presepi che soltanto illustrano l’inoffensiva nostalgia dei simboli, non sono veri presepi. Il presepio siamo noi. È dentro di noi che un Dio nasce. Dentro questi gesti che in uguale misura sono rivestiti di speranza e di ombra. Dentro le nostre parole e il loro traffico sonnambulo. Dentro il riso e l’esitazione. Dentro il dono e l’attesa. Dentro il calore della casa e nell’addiaccio imprevisto. Dentro il pendio e dentro la pianura. Dentro la lampada e nel grido. La nostra stirpe è quella degli appena nati. Quale che sia la nostra età o la stagione che ci troviamo a vivere, la verità è che noi siamo, fino alla fine, una cosa al suo inizio. E il presepio conferma che la nascita è struttura fondante della vita.