Libri segnalati: "La notte del Getsemani" di Recalcati, "Fraternità" e "100+10 parabole di Papa Francesco"
Fra le ultime uscite segnalo l'ultimo libro di Massimo Recalcati, La notte del Getsemani (Einaudi, pp. 84, € 14). Ne parla Famiglia Cristiana:
«NEL GETSEMANI GESÙ CI LIBERA DAL FANTASMA DEL SACRIFICIO»
20/07/2019 L’ultimo libro di Massimo Recalcati, edito da Einaudi, è un invito a riflettere e a fare i conti con la nostra angoscia: «Tutto noi abbiamo conosciuto il peso di questa notte, il peso del tradimento, dell’abbandono, della caduta, del silenzio del padre. Ma nel consegnarsi alla morte, il Cristo non indebita l’uomo, ma lo ama senza interesse»
Si legge tutto d’un fiato l’ultimo libro di Massimo Recalcati, La notte del Getsemani (Einaudi, pp. 84, € 14). Il testo nasce da una conferenza tenuta due anni fa dall’autore presso il monastero di Bose dove si trova la comunità fondata da Enzo Bianchi. Nel libro, Recalcati ripercorre gli ultimi istanti della vita di Gesù rileggendoli in chiave psicanalitica. È una riflessione sulla notte dell’uomo, sulla caduta, sul tradimento, su Giuda e Pietro, sull’abbandono, sulla fedeltà al proprio desiderio, sulla solitudine, sul silenzio di Dio, sulla debolezza umana, su due preghiere, la prima diversa dalla seconda.
Perché, credenti o altro che si sia, la notte di Gesù nel Getsemani riguarda tutti?«In nessuna scena dei Vangeli la figura di Gesù appare così lontana da quella di Dio. In nessuna altra scena lo vediamo così vulnerabile, esposto, fragile, mancante. La sua fine è imminente ed egli ama troppo la vita per accettare la sua perdita. I suoi discepoli lo lasciano solo, misconoscono il suo nome, lo svendono per trenta denari. Il suo popolo che aveva acclamato la sua entrata trionfale a Gerusalemme lo abbandona. Sarà trattato come il più miserabile dei ladri e dei bestemmiatori. Ma il punto più cruciale è che sebbene sia il figlio unico e prediletto dal padre le sue preghiere cadono nel vuoto. La notte del Getsemani è la notte del silenzio di Dio, è la notte dell’assoluto abbandono. Tutto questo riguarda l’uomo. Tutto noi abbiamo conosciuto il peso di questa notte, il peso del tradimento, dell’abbandono, della caduta, del silenzio del padre».
In che senso Gesù è una figura radicale del desiderio? E come emerge questa sua peculiarità negli eventi del Getsemani?«Gesù è come un magnete; la sua parola attira verso di sé. Marco dà una definizione molto bella di Gesù quando scrive: “Gesù è colui che chiama”. In questo senso egli è l’incarnazione della potenza del desiderio. Sposta, sovverte, mette in movimento; tutti i Vangeli parlano della forza del desiderio. Quella forza che si manifesta nell’antica parola “Kum!” che significa “Alzati!” e che Gesù rivolge a Lazzaro nella tomba. Quello che mi colpisce nella sua predicazione è la capacità di far risorgere la vita dalla morte, di non lasciare alla morte l’ultima parola, di rimettere in moto la vita anche quando essa pare morta, finita, spenta. Nella notte del Getsemani Gesù si rivolge a se stesso. Lo obbliga il silenzio di Dio. Assume il proprio destino non come un gesto sacrificale, penitenziale, di mortificazione della sua vita. Ma come scelta, decisione, offerta, donazione di sé che eccede l’ombra tetra del sacrificio. Gesù alla fine di questa notte non accetta passivamente una condanna che lo costringe al sacrificio di sé, ma sceglie liberamente di consegnarsi al suo destino, di fare la volontà del padre. E in questa consegna si libera da ogni forma di consegna. Insegna che ciascuno di noi è responsabile del proprio desiderio».
Perché i funzionari sacerdotali del Tempio di Gerusalemme avvertono in Gesù un nemico? Di cosa è spia questo conflitto?«La parola di Gesù è sovversiva. Non accetta che la religione del padre diventi un mercato o, peggio ancora, si istituzionalizzi in codici solo formali di comportamento. Gesù pensa che il giusto erede sia colui che sa fare propria la parola delle Scritture. Diversamente i sacerdoti del tempio interpretano l’eredità solo come fedeltà passiva, priva di desiderio, nei confronti della Legge. Quando Gesù dice che è venuto a portare la Legge a compimento ci ricorda la necessità di un movimento in avanti del giusto erede. L’eredità non è una acquisizione passiva di rendite, ma un movimento in avanti, un salto, una esposizione. Non è ovviamente solo un problema dei sacerdoti del tempio, ma della religione ogni qual volta la difesa di se stessa, la conservazione della sua verità dottrinale, prevale sul movimento vitale e sovversivo dell’ereditare come riconquista. Gesù incarna la vita, i sacerdoti la morte. Ma questo conflitto attraversa ogni dottrina che istituzionalizzandosi rischia di perdere il suo slancio vitale originario».
In che modo il Cristo vince l’angoscia e la paura della morte?«Nella notte del Getsemani possiamo distinguere due diverse preghiere che Gesù rivolge a Dio. Nella prima egli chiede la sospensione della Legge, chiede che venga fatta un’eccezione, supplica, più direttamente, di restare in vita, di allontanare il calice amaro della morte. In questo Gesù resta fedele alla sua predicazione: non è forse il padre – come indica bene la parabola lucana del figliol prodigo – colui che interrompe l’applicazione inumana della Legge, colui che anziché alzare il bastone del castigo abbraccia il figlio che ritorna? L’essenza della Legge non è forse il perdono, l’esperienza della Grazia? Ma l’attraversamento dell’angoscia e della paura della morte avvengono con la seconda preghiera che è il vero mistero di quella notte. Con questa seconda preghiera Gesù disarma se stesso, il proprio Io, si consegna alla volontà del padre. Ma in questa consegna, come ho già detto, egli si libera di ogni consegna. Non va incontro alla morte come se fosse un destino che gli viene sacrificalmente imposto, ma sceglie quel destino, lo fa proprio. Ecco perché egli non si sacrifica per noi ma offre tutto se stesso in un atto di desiderio e di donazione assoluta che vorrebbe liberare l’uomo dal fantasma fanatico del sacrificio. Non indebita l’uomo, ma lo ama senza interesse».
Cosa differenzia e che cosa, invece, accomuna il tradimento di Pietro e quello di Giuda?
«Pietro e Giuda sono entrambi innamorati di Gesù. Sono tra i suoi discepoli, tra i prescelti. Ma Giuda è stato deluso dal maestro e cova rancore come accade in ogni amore deluso. Dunque è disposto a colpire il suo maestro, a venderlo per il prezzo di uno schiavo. Pietro invece non è affatto deluso. Egli ama profondamente il suo maestro. Ma il suo errore consiste nel non considerare che anche l’amore più puro e assoluto, in quanto umano, può essere attraversato dalla contraddizione e dal cedimento. È quello che accade; egli misconoscerà per tre volte il nome di Gesù. È solo il suo pianto finale che gli consente di intendere la natura umana e, dunque, necessariamente contraddittoria, del suo amore. Sono solo le sue lacrime che gli consentono di ripartire, di ricominciare».Vedi anche la recensione de Il Foglio e de Il Monastero di Bose:
Vincenzo Bertolone, Fraternità, Edizioni Istante, Catanzaro 2019, pp. 172, € 10,00Domenica 25 febbraio si è tenuto a Bose il confronto con Massimo Recalcati dal titolo: “La lezione del Getsemani”. Il noto psicanalista ha offerto ai quasi cinquecento presenti una ricca lettura dei racconti della notte precedente alla passione di Gesù da un punto di vista antropologico. Il centro della notte del Getsemani è infatti una grande metamorfosi che può riguardare, in modo più o meno intenso, ogni essere umano: il passaggio dalla gloria all’infamia, dal successo all’insuccesso, dalla luce alle tenebre. La posta in gioco è una liberazione, non dalla morte, ma attraverso l’esperienza della morte, che “porterà a cogliere il fatto che la morte non è l’ultima parola sulla vita, la chiusura della vita, ma è ciò che permette alla vita di essere capace di generare molti frutti”.Nel cuore della notte del Getsemani sono racchiuse tre “esperienze radicalissime” della vita umana.
Il tradimento da parte di chi è vicino, di chi condivide la propria tavola, la propria casa. C’è il tradimento di Giuda, frutto di un amore deluso, di chi nutre aspettative nei confronti dell’altro, nell’illusione di un rapporto di coincidenza e di rispecchiamento che poi sfocia nella disillusione e nell’odio; e poi c’è il tradimento di Pietro, che mostra di non essere all’altezza del suo “puro” amore per Gesù, un amore “sovrabbondante, solido, ricco” che però esclude la contraddizione: “un amore non attraversato dalla contraddizione è un amore impossibile”.La seconda esperienza fondamentale del Getsemani è l’angoscia di fronte alla morte. Mentre in tutto il vangelo è in risalto la parola di Gesù, da questo momento in poi è il suo corpo ad essere in primo piano. Un Gesù che trema, debole, vulnerabile, fragile, che chiede di non essere lasciato solo, e che riceve come risposta il sonno dei discepoli, che “non riescono a mettere in rapporto la gloria del maestro con quell’uomo nudo, spaventato, che si rifugia in una preghiera disperata”.La preghiera è la terza protagonista di questa notte. La preghiera come radice ultima, essenza della parola, che è in ultima analisi sempre rivolta verso un altro. Un figlio, il figlio di Dio, chiede al Padre clemenza, che gli sia risparmiata la prova della morte, chiede che la sua amata vita continui. Dio risponde con il silenzio. Un silenzio che fa dire a Bonhoffer: “solo chi è senza Dio è più vicino a Dio”. In seguito la preghiera di Gesù cambia forma, e, cogliendo il nesso che lega la morte alla vita, non chiede una liberazione, ma di consegna: passa per la via del disarmo assoluto dell’io, il più spaventato dalla morte, e si consegna non perché ci sono dei segni, ma proprio perché non ci sono. E’ per questo che, almeno nel vangelo di Luca, appare un angelo dal cielo a vegliare con lui.
Luigi Accattoli – Ciro Fusco, C’era un vecchio gesuita “furbacchione”, ed. Paoline, Milano 2019, pp. 200, € 14,00.di: Bruno Scapin (Settimana news)«Saremo noi in grado di “salvare” la convivialità delle culture, religioni, usi, costumi, politiche, che sono altrettante differenti espressioni di uomini e donne diversi che, però, sono accomunati nella stessa famiglia umana, nella quale tutti potrebbero riconoscersi come fratelli e sorelle?».È questo l’interrogativo che fa da sfondo a queste pagine scritte dall’arcivescovo di Catanzaro-Squillace, Vincenzo Bertolone. Non è una meditazione, né un approfondimento orante – si legge nelle prime pagine –, bensì di «una riflessione ad alta voce, razionale e documentata».Opporsi alla “globalizzazione dell’indifferenza” è l’obiettivo di ogni cristiano, ma anche i “laici” dovrebbero sentire il dovere di mantenere vivo il senso della pietas per rimanere umani. La Regola d’oro, infatti – “Fa’ agli altri quello che vuoi sia fatto per te” –, è inscritta in ogni credo religioso e in ogni filosofia.Fraternité è una delle tre parole poste a fondamento della Rivoluzione francese. Un concetto certamente nobile accanto alla libertà e all’uguaglianza. Piero Stefani, nel suo scritto “Figli di un unico Dio: fratelli?” (cf. Amore di Dio, Morcelliana, 2008). ritiene che la fraternità sia «la più debole e povera dei tre principi rivoluzionari» e «non ha goduto di un’universalità paragonabile agli altri due principi». Non soltanto. Il concetto di fraternità/fratellanza, lungo la storia ha conosciuto derive sorprendenti. Anche Cosa Nostra lo adoperava (cf. Fratellanza di Favara) per indicare organizzazioni criminali, violente e assassine. Si è giunti a parlare di “fraternità d’armi”…Se la vera fraternità viene accettata tra i “valori fondamentali”, allora è possibile costruire una convivenza universale civile e positiva, in grado di contrastare i «sistemi sociali, politici e economici fondati sulla disuguaglianza».Nel capitolo secondo, l’arcivescovo Bertolone si sofferma a ragionare sulla nozione di fraternità proposta alle regioni che si affacciano sul Mediterraneo, nozione di chiara ispirazione biblica.L’ebraismo, a partire dalla fede in un Dio unico Creatore e dalla figura di Adamo, contiene «un impegno etico di fraternità universale».Il cristianesimo, nato dalla predicazione di Gesù di Nazaret, «insegna la preghiera che affratella nell’amore tutti i viventi nel cosmo, uniti nell’elevare il comune grido al Padre nostro che sei nei cieli».Nell’islam, anche se la fratellanza si esercita prima di tutto verso coloro che confessano la stessa fede, è vietato insultare le credenze e la religione degli altri.Sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento innumerevoli sono i passi in cui le parole fratellanza/sorellanza trovano spazio negli episodi, nelle narrazioni e negli insegnamenti.Nel terzo capitolo, l’autore illustra in maniera esaustiva un modo di praticare/vivere la fraternità, vale a dire la vita di comunione nelle comunità di vita consacrata. Queste comunità sono come degli «avamposti di un mondo nuovo». Il “ponte della fraternità”, che appare a tutt’oggi precario e lacerto nella vita dei singoli e dei popoli, viene riproposto come possibile dal carisma della vita consacrata, nella convinzione che la fraternità sia per l’umanità una «condizione originaria», un sogno da realizzare lungo la storia.Papa Francesco, da parte sua, ha compiuto gesti e pronunciato parole che fanno costante appello a prendersi cura gli uni degli altri. Il testo richiama il messaggio per la 47ª Giornata mondiale della pace (2014), citando questo passaggio: «Nel cuore di ogni uomo e di ogni donna alberga… il desiderio di una vita piena, alla quale appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere e da abbracciare».Un compito costante nel programma di vita del cristiano. Un libro che sollecita tutti a vivere il sogno di Dio di una fraternità riconciliata.
di: Bruno Scapin (Settimana news)
«Uno degli sforzi più necessari è imparare ad usare immagini nella predicazione, vale a dire a parlare con immagini… Un’immagine attraente fa sì che il messaggio venga sentito come qualcosa di familiare, vicino, possibile, legato alla propria vita. Un’immagine ben riuscita può portare a gustare il messaggio che si desidera trasmettere, risveglia un desiderio e motiva la volontà nella direzione del Vangelo. Una buona omelia, come mi diceva un vecchio maestro, deve contenere “un’idea, un sentimento, un’immagine”» (EG 157).
Questa citazione rende ragione dello stile comunicativo utilizzato da papa Francesco. La citazione riguarda in primo luogo l’omelia, ma vale anche per tutti gli altri modi di comunicare. Papa Francesco, infatti, ne fa uso anche nei discorsi, nei messaggi, nelle udienze, negli incontri, nelle interviste.
Non è stato difficile perciò per Luigi Accattoli, già vaticanista di Repubblica e del Corriere della Sera, saggista, e collaboratore de Il Regno, e per il giornalista Ciro Fusco raccogliere in un gustoso volume le tante immagini (parabole, racconti, esempi) utilizzati in questi anni da papa Francesco. Ce ne presentano 110.
Ma prima si pongono la domanda: perché papa Francesco usa questo genere narrativo?
La risposta che dà Luigi Accattoli è la seguente:
- per esplorare il nuovo,
- per scuotere gli ascoltatori,
Ma, prima di tutto, perché nel Vangelo Gesù usa questa modalità di annuncio. E se lui è il Maestro…
- per dire qualcosa dove non può dire tutto.
Dunque, per esplorare il nuovo. È chiaro che papa Francesco vuole una Chiesa in movimento, una Chiesa che si schiodi dal “si è sempre fatto così”. Ma il nuovo non sempre viene accettato benevolmente, anzi… La parabola, la similitudine, il paragone – che è immagine – lo esonera dal pronunciamento magisteriale e, nello stesso tempo, costringe l’interlocutore a fare i conti con la forza (e l’evidenza) della realtà.
Poi, per scuotere gli ascoltatori. Lo diceva anche il card. Martini nel libro Perché Gesù parlava in parabole: «per scuotere la gente». Papa Francesco lo fa raccontando e affrontando situazioni limite, difficoltà nel credere, gravi ferite interiori. La sincerità e l’immediatezza del racconto non può lasciare indifferente chi ascolta o legge. E lo costringe a pensare.
Da ultimo, l’uso della parabola consente di dire qualcosa dove non si può dire tutto. Il card. Martini, nel libro sopra citato, lamenta che oggi in Europa «non sappiamo creare nuove parabole». Questo papa non europeo, ma venuto «dalla fine del mondo», è capace di una narrazione nuova e inedita. Anzi, a ben leggere questi sei anni di pontificato, si può dire che lui stesso è una parabola, se ripensiamo ai tanti gesti inusuali di cui è stato capace. Il libro ne ripropone una gustosa antologia.
C’è un’accusa ricorrente nei confronti di papa Francesco: di rendere incerto il messaggio del Vangelo, di non fornire dei punti fermi e sicuri. A parte la superficialità di una simile accusa, rimane vero che a tutto non c’è una risposta immediata. Per cui, per papa Francesco dire: «“Signore non capisco” è una bella preghiera». Non tutto si può spiegare, non tutto deve essere giustificato. Ecco che la parabola (narrazione o gesto) lascia aperti spazi di interpretazione, suscita sensazioni, pone interrogativi.
Non abbiamo raccontato in questa recensione nessuna delle 110 parabole contenute nel testo per lasciare al lettore il gusto della sorpresa. I due giornalisti hanno goduto nello scoprirle e nel raccontarle, il lettore ne vivrà il fascino e la freschezza scorrendo queste pagine.