XXVIII domenica del tempo ordinario: la festa di nozze e gli invitati
Questa
parabola viene, in Matteo, dopo il racconto dei due figli e dei vignaioli
omicidi. Tutte e tre i racconti hanno come sfondo il tempio di Gerusalemme e
come destinatari i grandi sacerdoti e gli anziani del popolo che contestano
l'autorità di Gesù.
“Il regno dei cieli è simile a un re che fece
una festa di nozze per suo figlio” (v.2).
Il
regno dei cieli, altre volte paragonato ad una vigna, non indica solo il
paradiso, l’aldilà, ma la nuova
società alternativa che Dio vuole inaugurare su questa terra. Un regno dove a
regnare chi è? Ovviamente Dio! É facile intuire che il re sia Dio e il figlio
Gesù stesso, venuto per prendere in sposa l’umanità (più volte mostratasi infedele).
Siamo di fronte alla realizzazione del progetto, del sogno di Dio già
annunciato più volte dai profeti nell’Antico Testamento: Dio avrebbe celebrato
le nozze con l’umanità, attraverso un’alleanza definitiva, eterna, e ormai Gesù
è in procinto di compiere queste nozze, è lui lo Sposo atteso.
Tutti sono invitati gratuitamente, non devono meritarlo né devono
pagare qualcosa per poter entrare nella stanza della festa, dove è preparato un
banchetto abbondante e generoso, con cibi succulenti e vini raffinati. Eppure
anche di fronte a un tale invito, in cui si manifesta la gratuità del re che fa
a tutti questa offerta, alcuni restano indifferenti e non vi aderiscono. Chi va
al suo campo, chi al mercato, chi a fare le proprie cose: così disertano
quell’occasione di grande festa condivisa. Alcuni poi, in reazione all’invito
gratuito e amoroso, sono presi da rancore e finiscono per maltrattare e
scacciare quei servi; giungono addirittura, nella banalità del male che quando
inizia a manifestarsi cresce e non conosce più limiti, a ucciderli! Sempre un
atto di benevolenza riceve accoglienza da pochi, suscita molta indifferenza e
scatena avversione, inimicizia da parte di quelli a cui si fa il bene. È paradossale,
scandaloso, ma così avviene nel nostro quotidiano…[1]
Coloro
che sono invitati per primi sono i responsabili del popolo d’Israele che si stanno
rifiutando - anche violentemente - di aderire al progetto di Dio, troppo presi
dai loro affari e dai propri beni (i campi). Il re non demorde, tanto è il suo desiderio di festeggiare le
nozze del figlio: manda a chiamare la gente trovata per strada, che mai si
sarebbe aspettata un invito alle nozze del figlio del re, affinché questi
riempiano la sala del banchetto. Questi accettano con prontezza, ma uno di loro
è rimasto senza l’abito nuziale.
Chiunque arriva alla soglia della stanza
del banchetto riceve un mantello bianco, un abito di festa donato
gratuitamente, che indica l’aver risposto liberamente “sì” all’invito del re.
Anche il vestito di nozze basta accoglierlo e indossarlo, non va meritato né
comprato. C’è però ancora chi si oppone: non accetta quel dono, non vuole
quell’abito e non lo indossa! Eppure il re, regalando quel vestito, chiede solo
a chi entra al banchetto di essere in tenuta da festa, di essere pulito, di
dare un segno di mutamento e di libertà… Quando dunque egli “entra per vedere i commensali, scorge un
uomo che non indossa l’abito nuziale” e che, alla sua richiesta di
spiegazioni, tace. È un’altra delusione per il re, una chiamata frustrata: egli
non vorrebbe, ma di fatto chi rifiuta questo ennesimo dono si ritrova per sua
scelta in una situazione mortifera, senza via di salvezza.
A questo punto il linguaggio della
parabola, dai tratti tipicamente orientali, nel suo intento di avvertire ed
esortare i lettori si fa duro, persino crudele: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e
stridore di denti”, ordina il re ai servi. Si tratta però di immagini (e
sottolineo, di immagini!) per esprimere una realtà fondamentale: nell’ultimo
giorno ci sarà un giudizio decisivo, che verterà sull’aver accettato o
rifiutato il dono di Dio. Dio ci dona la vita, mai la morte: quest’ultima la
scegliamo noi. E Dio, che rispetta fino in fondo la nostra libertà, con
sofferenza ci lascia fare, e così ci vede errare lontano da sé e preferire la
prigione alla libertà, la distruzione alla vita piena[2].
Il significato della parabola dunque è semplice: c’è un Re
(Dio) che ha preparato la festa di nozze del figlio (Gesù, sposo dell’umanità).
Gli invitati (il popolo d’Israele) hanno rifiutato l’invito, troppo preoccupati
dei loro affari. Il Re non si arrende: manda i suoi servi (tutti coloro che
collaborano con Dio: i profeti, gli apostoli e ora tutti i battezzati) per invitare tutti coloro che avrebbero incontrato. Si
tratta di andare
nelle periferie, dato che lì ci sono le persone emarginate, i lontani, i
rifiutati. “E tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze”, tutti, non c’è
più un popolo eletto, ma c’è una chiamata universale, una “Chiesa in uscita”.
Gesù
parla prima di cattivi e poi di buoni: non c’è un giudizio, l’amore di Dio è
offerto a tutti. L’amore di Dio non è concesso come un premio per i meriti
delle persone, ma come un regalo per i loro bisogni.
La sala si riempie, è piena di cose buone da mangiare.
Ma un tale non ha indossato l’abito nuziale (cioè non ha preso sul serio
l’invito, è venuto mostrando poco rispetto) e viene cacciato dal re.
- Festa di
nozze: la Messa domenicale potrebbe essere paragonata come una festa di nozze i
cui cibi succulenti sono la parola di Dio, l’Eucaristia… risultano appetibili?
Quante volte si usano mille scuse per non partecipare, preferendo i propri
affari?
La domenica, giorno del Signore, il cristiano comincia a pregustare la festa eterna, alla duplice mensa della Parola di Dio e dell'Eucarestia.
- I servi
che invitano tutti: siamo anche noi collaboratori del Signore? Invitiamo gli
altri alla festa di nozze?
- L’abito
nuziale: per noi che abbiamo accolto l’invito è richiesto un “abitus” adatto:
ci presentiamo con l’abito da festa, ci prepariamo alla celebrazione (leggendo
prima le letture, confessandoci se abbiamo rotto la comunione con Dio o con gli
altri…), siamo consapevoli del dono che ci viene fatto, siamo disposti a lasciarci cambiare? "Tutto posso in colui che mi dà forza"?
Un celebre racconto sull’INFERNO E IL
PARADISO
Un sant'uomo ebbe un giorno a conversare con Dio e gli chiese: "Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l'Inferno".
Un sant'uomo ebbe un giorno a conversare con Dio e gli chiese: "Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l'Inferno".
Dio
condusse il sant'uomo verso due porte. Aprì una delle due e gli permise di
guardare all'interno.
Al
centro della stanza, c'era una grandissima tavola rotonda. Sulla tavola, si
trovava un grandissimo recipiente contenente cibo dal profumo delizioso. Il
sant'uomo sentì l'acquolina in bocca. Le persone sedute attorno al tavolo erano
magre, dall'aspetto livido e malato. Avevano tutti l'aria affamata. Avevano dei
cucchiai dai manici lunghissimi, legati alle loro braccia. Tutti potevano
raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po', ma poiché il manico del
cucchiaio era più lungo del braccio, non potevano portare il cibo alla bocca.
Il sant'uomo tremò alla vista della loro miseria e delle loro sofferenze. Dio
disse: "Hai appena visto l'Inferno".
Dio
e l'uomo si diressero verso la seconda porta. Dio l'aprì. La scena che l'uomo
vide era identica alla precedente. C'era la grande tavola rotonda, il
recipiente colmo di cibo delizioso, che gli fece ancora venire l'acquolina in
bocca, e le persone intorno alla tavola avevano anch'esse i cucchiai dai lunghi
manici.
Questa
volta, però, le persone erano ben nutrite e felici e conversavano tra di loro
sorridendo.
Il
sant'uomo disse a Dio: "Non capisco!". "E' semplice",
rispose Dio, "dipende da un'abilità: essi hanno appreso a nutrirsi
reciprocamente tra loro, mentre gli altri non pensano che a loro stessi".