I giovani e Dio: verso il Sinodo 2018


La rivista "Il Regno" ha recentemente presentato e commentato i dati statistici che l'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica raccoglie ogni anno. Questi dati risultano particolarmente interessanti ora che i riflettori vanno accendendosi sulle realtà giovanili, soggetto su cui rifletteranno i vescovi nel 2018.

In sintesi: 
  • i giovani che si definiscono "credenti"(«in qualche religione o credo filosofico») sono circa il 50% (con la tendenza alla diminuzione)
  • "Credo ma non pratico": verso una "fede privata" del "fai da te"
nel corso del 2016: solo l’11,3% frequenta la Chiesa una volta a settimana e l’8,4% una volta al mese. I giovani che, pur dichiarandosi cattolici, non frequentano mai la Chiesa sono il 24,6%. Dunque quanti dicono di sentirsi cristiani e cattolici vivono la loro fede senza sentire il bisogno di osservare il precetto della partecipazione domenicale all’eucaristia e soprattutto senza avvertire l’esigenza di condividere con una comunità una pratica liturgica assidua, quella che al catechismo è stata proposta come il culmine della vita cristiana e come uno degli elementi identificativi dell’essere cattolici.
  • Sono credenti più le ragazze dei ragazzi (quasi il 10% in più), più al sud (56,5%) e meno al nord (circa 49%).
Richiesti di dare un voto da 1 a 10 a diverse istituzioni, hanno attribuito alla Chiesa un punteggio medio pari a 4,3 con un aumento di fiducia per i giovani cattolici (5,4) e ancor più per i giovani praticanti (6,2).
Ma il grado di fiducia cambia se si considera la figura di papa Francesco, la cui popolarità supera per alcuni indicatori (la capacità di comunicare, la simpatia…) il 90% e di cui si apprezzano soprattutto l’impegno per la pace, per il dialogo tra le religioni e l’attenzione ai poveri.
  • C'è nei giovani una sfiducia generalizzata negli altri e nel futuro
Alla domanda: «Quanto sei d’accordo con la seguente affermazione: gran parte delle persone è degna di fiducia?» coloro che rispondono di essere molto d’accordo sono solo il 6,4%. I giovani che rispondono poco o per nulla d’accordo sono il 58,9%. 
L’atteggiamento verso la vita è dato anche dal modo con cui si guarda al futuro. Appiattiti sul presente, i giovani vedono il futuro pieno di rischi e di incognite: lo considerano tale il 70% degli intervistati. Per questo il 61,4% di loro ritiene che non esistano scelte che valgono per sempre. Per tutti i giovani, credenti o no, il futuro ha perso la sua attrattiva di tempo delle promesse e dei sogni.
  • Le istituzioni dai giovani sono bocciate con voti gravemente insufficienti. Anche la Chiesa!
  •  C'è insofferenza verso regole e prescrizioni, messe in continua discussione.
Da una serie di interviste a giovani credenti è emerso:
  • Molti giovani hanno espresso  soddisfazione di poter parlare con qualcuno di temi di cui non si ha normalmente né la possibilità di raccontarsi né di riflettere. 
  • i giovani hanno mostrato un atteggiamento d’apertura nei confronti di Dio. La stragrande maggioranza di loro dichiara di credere, ma difficilmente, parlando di Dio, ha in mente Gesù Cristo. Quello dei giovani è un Dio anonimo, un’entità astratta.
Valga per tutte questa testimonianza: «La fede nasce dal rapporto personale che hai tu con Dio, un Dio indeterminato... che può essere cristiano come non. Io con il mio Dio ho un rapporto personale che è dentro di noi. Ognuno di noi ha un rapporto singolare col proprio Dio. Ognuno di noi è unico e quindi ognuno di noi ha la sua idea di Dio» (maschio, tra i 19 e i 21 anni residente in un piccolo centro del centro Italia).
Molti giovani avvertono Dio come vicino, capace di non far sentire mai soli coloro che credono in lui. A questo Dio ci si può rivolgere in ogni momento dentro la propria coscienza: non c’è bisogno né di Chiesa né di riti per pregare: basta raccogliersi in se stessi, pensare a lui, parlargli con le proprie parole. Per questo sono pochi, anche tra coloro che si dichiarano cristiani e cattolici, quelli che frequentano la messa domenicale. Del resto non avvertono un legame significativo con la Chiesa e si chiedono che cosa c’entri con la loro fede, che è solitaria, individualistica, anonima.  
Della Chiesa non comprendono i linguaggi, che ritengono superati, astratti, incomprensibili. Se pensano con qualche simpatia alla comunità cristiana, è perché hanno trovato in essa soprattutto delle relazioni. Quelli che dimostrano qualche interesse per la Chiesa, citano persone significative che hanno incontrato nel corso di esperienze, in occasione di eventi, in circostanze particolari.
Anche la figura del sacerdote viene coinvolta in questa distanza dall’istituzione ecclesiale; a esso i giovani guardano con benevola indifferenza. Non riuscirebbero a immaginare una Chiesa senza preti, e tuttavia non ne capiscono la funzione. A meno che qualcuno di loro abbia mostrato vicinanza, disponibilità a entrare in un rapporto personale e di dialogo. 
  • Entusiasti del Francesco anti-istituzionale
  • "credere è bello" (e ne vale la pena)
C’è chi lo ha affermato da credente e si è riferito alla propria esperienza e chi lo ha espresso come nostalgia verso una possibilità che si è precluso, ma il dato comune è la quasi unanime percezione della positività di un rapporto con la trascendenza.
Ancor più interessante è riflettere sulle ragioni per le quali vale la pena credere: perché la fede dà un senso alla vita; dà una speranza, ma soprattutto perché chi crede non è mai solo, come si legge nella risposta di questa diciannovenne: «È come se avessi sempre qualcuno vicino, non sei da solo, sei supportato in ogni momento da un qualcosa vicino che è come se ti aiutasse sempre, è essere convinti che ci sia sempre qualcuno che ti sta vicino, che quando ti senti solo e ti senti perso nel mondo, c’è qualcuno, sono tranquillo, non sono mai solo» (femmina, tra i 19 e i 21 anni, residente in un grande centro del Nord).
C’è un filo rosso che lega questo modo di intendere il rapporto con Dio e la ricerca di comunità cristiane nelle quali sia possibile sperimentare relazioni calde e incontrare persone di riferimento significative. Nella dimensione relazionale-affettiva sembra d’intravedere un possibile spazio di comunicazione e di educazione cristiana dei giovani.
  • Ancora: credere non significa praticare
La celebrazione dei sacramenti, punto d’arrivo del cammino di catechesi, è anche il momento dell’interruzione dei contatti con l’ambiente ecclesiale, coinvolto insieme a tutti i riferimenti educativi dalla crisi dell’adolescenza. Questa testimonianza rende bene l’idea del processo che avviene in molti giovani: «Io mi sento di vivere la mia fede come piace a me, nel senso che sono assolutamente certa che non sia necessario andare in Chiesa tutte le domeniche per credere, è necessario il pensiero di un minuto e mezzo nella giornata, mi basta il pensiero» (femmina tra i 19 e i 21 anni, residente in un grande centro del Nord Italia).Si abbandona dunque la pratica religiosa, perché non se ne capisce più il senso. 
È possibile che al termine della giovinezza vi sia un ritorno alla fede. Le situazioni della vita, una maggiore riflessività, un atteggiamento più pacato e riconciliato con la generazione precedente, sono elementi che possono indurre un cambiamento.
  • Le cause dell'allontanamento
Qualcuno si chiederà a questo punto di chi siano le responsabilità della situazione attuale. Che cosa non ha funzionato nell’educazione? Dove si è sbagliato?
Ma non è questo l’approccio corretto. Occorre invece prendere atto che viviamo in una realtà mutata, che ci fa sentire tutti un po’ estranei e fuori tempo e che sveglia in molti adulti il desiderio difensivo della nostalgia del passato.
L’attuale analfabetismo affettivo, la crisi del desiderio, l’individualismo esasperato che riporta tutto al soggetto, il consumismo che rende pigri, appagati e annoiati, la crisi della norma, della legge, dell’istituzione: tutto questo influisce anche sul modo d’interpretare la dimensione religiosa della vita.
La cultura digitale, linguaggio ordinario delle nuove generazioni, influisce sul modo di comunicare, ma anche di pensare, d’apprendere, d’entrare in relazione con l’altro. Non si può guardare a questi cambiamenti con un atteggiamento di giudizio: non si può cambiare il corso della storia. Non è accrescendo la distanza del giudizio che si risolvono i problemi, ma piuttosto cercando altri punti di comunicazione, perché oggi sembra essersi spezzato il dialogo tra le generazioni e dunque la possibilità della trasmissione di valori, tradizioni, modo di vivere e di costruire la società…
E poi vi è lo stile di vita della comunità cristiana che fa da ostacolo alla possibilità d’educare i giovani alla fede. Le osservazioni critiche che i giovani fanno sono numerose, riconducibili ad alcune costanti: l’anonimato delle relazioni, il non coinvolgimento delle persone (si stenta a valorizzare le risorse delle persone e a distribuire responsabilità), l’invecchiamento delle indicazioni della Chiesa e dei suoi linguaggi.
Forse qualcuno può avere l’impressione che non ci sia nulla da fare, può lasciarsi prendere da un senso d’impotenza e da un cupo scoraggiamento di fronte a cambiamenti così profondi. Confrontando il nostro tempo con quello degli inizi della Chiesa, papa Francesco scrive: «Dobbiamo riconoscere che il contesto dell’impero romano non era favorevole all’annuncio del Vangelo, né alla lotta per la giustizia, né alla difesa della dignità umana (…) Dunque non diciamo che oggi è più difficile; è diverso. Impariamo piuttosto dai santi che ci hanno preceduto e hanno affrontato le difficoltà proprie della loro epoca» (E.G. n.263).
  •  Sotto la cenere c’è la brace (a saperla vedere)
La questione religiosa per molti giovani resta sotto la cenere, come una brace accesa, ma coperta, senza che possa scaldare né illuminare. Tuttavia c’è: occorre qualcuno che riesca a soffiare via la cenere, e la brace può tornare ad ardere, a scaldare, a vivere. Occorre andare alla ricerca della brace, che non è sempre così visibile.
Dov’è la brace?
– Nel desiderio di una fede personale: si crede in ciò per cui si hanno delle ragioni, non quelle consegnate dai genitori o quelle trasmesse da un’autorità ritenuta impositiva, ma quelle passate al vaglio della propria coscienza. Se ritiene di non avere ragioni convincenti per credere, un giovane preferisce lasciar perdere, senza che per questo l’esigenza di trascendenza, di pienezza e di assoluto che ha dentro di sé si spenga; o senza essere più sensibile al fascino di quelle dimensioni di vita cristiana cui l’iniziazione l’ha avviato;
– nel senso di Dio, ancora vivo e presente nelle persone;
– nella domanda di una comunità viva, fatta di persone in relazione, coinvolte e protagoniste;
– nella capacità di riconoscere che il cuore della vita cristiana sta nell’amore;
– nel desiderio di linguaggi che abbiano le loro radici nella vita e non nell’astrattezza di una dottrina;
– nella convinzione che credere è bello, perché permette di non sentirsi mai soli: è l’intuizione di un Dio vivo, presente alla persona e nella sua interiorità.
  • Attenzioni ecclesiali: ascoltare i giovani e lasciarsi provocare da loro
Occorre che le comunità cristiane ascoltino i giovani e si lascino provocare dalle loro domande, quelle espresse e quelle taciute. E il modo migliore per conoscere è ascoltare, entrare in relazione. Lo ha ricordato anche papa Francesco nella sua omelia ai partecipanti al convegno ecclesiale di Firenze, affermando come a Gesù interessi ciò che la gente pensa «non per accontentarla, ma per poter comunicare con essa. Senza sapere quello che pensa la gente, il discepolo si isola e inizia a giudicare la gente secondo i propri pensieri e le proprie convinzioni. Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo di poterla aiutare, di poterla formare e comunicare. (…). È l’unico modo per aprire il loro cuore all’ascolto di Dio. In realtà, quando Dio ha voluto parlare con noi, si è incarnato».
  • Una Chiesa più calda e coinvolgente (far posto ai giovani)
I giovani intervistati vorrebbero forme ecclesiali calde e coinvolgenti; la loro domanda di relazioni, nel contesto della comunità e della liturgia, è molto forte. Se le nostre comunità non impareranno a curare il senso d’appartenenza, non riusciranno a mettersi in comunicazione con il mondo giovanile. Il senso d’appartenenza non nasce dall’adesione a una serie di verità e a uno stile di vita condiviso.
Oggi il percorso è rovesciato: prima ci si sente coinvolti in una comunità, e poi s’inizia a prenderne in considerazione il pensiero, le proposte, lo stile… L’appartenenza è costituita da una catena di legami, e non può essere scambiata con una serie di discorsi, pure persuasivi, sull’essere comunità.

E poi ai giovani occorre far posto: nella società soffrono per lunghe anticamere prima di poter entrare nel mondo del lavoro, prima di diventare autonomi, potersi fare una famiglia e prendersi delle responsabilità da adulti. Nella Chiesa non deve essere così: ai giovani occorre far posto perché la Chiesa ha bisogno della loro giovinezza e della loro carica innovativa.
  •  I giovani cercano figure di testimoni credibili e convincenti, coinvolgenti e appassionanti. 
Può anche darsi che oggi, invece che di maestri sul piano della fede, ci sia la necessità semplicemente di compagni di viaggio, disponibili con umiltà ad accompagnare percorsi di fede nuovi, forse tortuosi, ma personali e animati da un autentico desiderio di Dio.
  • Necessità di nuovi linguaggi 
Oggi le forme della preghiera e della fede, così fortemente debitrici dei linguaggi della teologia occidentale, risuonano per le nuove generazioni come astruse e fuori tempo. Il linguaggio astratto delle attuali forme espressive appare ai più giovani vuoto ed estraneo alla loro vita. Non solo: sembrano loro comunicare un mondo che non c’è più e accrescono nei giovani l’impressione che la formazione cristiana voglia renderli conformi a modelli passati, sradicandoli dalla cultura attuale.
  • La sfida della Tradizione
Non sarà forse la crisi religiosa dei giovani un segno dei tempi per le nostre Chiese? Con le loro crisi, le loro critiche, le loro lontananze che tuttavia non sono espressione di rifiuto di Dio, ma piuttosto di rifiuto di un Dio avvertito come inautentico? Di una proposta cristiana che mortifica la vita, anziché mostrare la via di una sua possibile pienezza? Di una comunità cristiana che non fa vedere il Vangelo?

La comunità cristiana non può perdere i giovani, non solo perché senza di loro sarebbe destinata all’estinzione, ma perché essi sono quella componente dinamica e innovativa che le permette di non invecchiare. È così di ogni contesto sociale.
Ma perché i giovani restino nella Chiesa occorre far loro posto, dare spazio alla loro iniziativa e al loro protagonismo, lasciarsi ringiovanire da essi. Bisogna lasciare che esprimano la loro cultura e sensibilità; lasciarsi provocare dai loro interrogativi senza pretendere di avere la risposta pronta ancor prima di aver ascoltato e riflettuto sulle domande.
E non si tratta d’accogliere le loro posizioni in maniera indiscutibile, ma di entrare con esse in un confronto dialogico vero, l’unico in grado di generare una Chiesa capace di camminare con il passo del tempo.  

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