SULLA RELAZIONE DI COPPIA. Alcune “regole d’amore”
La prima regola per amare, lo ribadisco ancora, è il
rispetto della libertà altrui di accettare o rifiutare il mio amore. Radcliffe scrive:
“Noi dobbiamo amare le persone in modo che esse siano libere di
amare gli altri più di noi”[1]. Ne consegue che la gelosia non deve diventare talmente ossessiva da impedire la libertà del partner:
devo imparare a fidarmi e rischiare che il mio sentimento non sia
contraccambiato alla stessa maniera. Non dobbiamo accettare il controllo
dell’altro/a su di me: può farci sentire importanti, protetti, amati, ma tale amore è falso, una maschera che nasconde il
bisogno di supremazia, di possesso, di potere, di sicurezza.
Allo stesso tempo la fedeltà risulta fondamentale per
costruire un rapporto duraturo e sincero: devo potermi fidare di chi amo. Devo
imparare a riconoscere le mie fragilità e paure ed imparare ad esprimerle perché
vengano comprese da chi amiamo, nel rispetto dei tempi, dei gusti, del carattere,
della sensibilità del partner. Ciò richiede di conoscere l’altro/a e
riconoscere che l’altro/a è sempre diverso da me e dalle proiezioni che ho
fatto su di lui.
Si chiede il teologo Cheaib:
Gli opposti si
attraggono? O chi si somiglia si piglia? Credo entrambe le cose. Ci sono
elementi di differenza ed elementi di somiglianza che permettono a due persone
di trovarsi. Non tutte le somiglianze si incontrano, a volte si appiattiscono e
si esasperano a vicenda. Così come non tutte le differenze si scontrano, a
volte creiamo un campo magnetico e creativo irripetibile. Ci sono somiglianze e
differenze complementari, così come ci sono somiglianze e differenze che si
escludono a vicenda. Somigliare nei difetti, nelle fragilità, nelle fissazioni
è terribile. Divergere sull’essenziale, non permette di gettare le basi di una casa
e di una causa comuni[2].
Amare non è diventare “dipendenti” da un’altra persona, non è
affermare: “io esisto solo con te, solo grazie a te”. Una conseguenza tragica
di questo atteggiamento è che si arriva ad eliminare violentemente il soggetto
(o oggetto?) del nostro “amore” nel momento in cui questo si rifiuta di
continuare a vivere con noi e per noi. “La domanda che uno deve porsi
costantemente è: il mio amore rende
questa persona più forte, più indipendente, oppure la rende più debole, più
dipendente da me?”[3].
Amare non è neanche essere “indipendenti” (“io esisto anche senza di te e senza gli altri”), piuttosto
divenire “interdipendenti”: capaci di seguire il proprio progetto di vita e di
aiutare l’altro/a a seguire il proprio. Amarsi non implica fondersi, ma
aiutarsi reciprocamente affinché entrambi siano sé stessi, liberi, felici,
uniti. L’obiettivo è vivere in una comunione che rispetti le reciproche
differenze. Solo così è possibile
evitare due comuni e opposte tentazioni patologiche: quella ossessiva di chi
crede che l’altra persona sia tutto ciò che noi cerchiamo, la risposta a tutti
i nostri bisogni e desideri e, dall’altra, quella della concupiscenza, propria
di chi vede nell’altra persona solo un oggetto di desiderio, un mezzo per
soddisfare le nostre pulsioni. L’ossessione “è come una prigione, una schiavitù
alla quale non vogliamo sottrarci… Divinizziamo la persona, la mettiamo al
posto di Dio”[4].
La concupiscenza è, all’opposto, la tentazione di fare di se stessi un dio. Un
dio cacciatore che ritiene di avere il diritto di divorare ogni preda che
desideri.
Amare, infine, è pericoloso: ci mette in balìa di altre persone,
ci espone al rischio di rimanere feriti, anche mortalmente[5]. Ma non amare è ancora più pericoloso: ci chiude alla vita, ci fa morire da
vivi, ci apre alla dannazione. Lo afferma bene Clive Staples Lewis:
Amare
significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è
cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrirne per causa sua, e magari
anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non
donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in
passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo con
il lucchetto nello scrigno, o nella bara, del vostro egoismo. Ma in quello
scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto – esso cambierà: non si
spezzerà, diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al
rischio di una tragedia è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove
potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e turbamenti
dell’amore è l’inferno[6].
Una storiella racconta di una scimmia dal cuore d’oro che, visti
dei pesci nuotare nell’acqua, si convince di doverli salvare dall’annegamento:
con grande fatica li pone fuori dall’acqua e li vede “inspiegabilmente” morire.
Morale: quante volte dimentichiamo di essere diversi, di avere bisogni,
sensibilità, modi di esprimere e di amare differenti. Non occorre cambiare le
persone che amiamo, ma amarle per quello che sono (e non per quello che
pensavamo che fossero), permettendogli di conoscerci per trovare un terreno
comune dove vivere la difficile comunione e il difficile compito di diventare
“un corpo e un’anima sola”. Per far questo dobbiamo anche acquisire una
profonda introspezione della nostra personalità: imparare innanzitutto a
conoscere noi stessi, a saper camminare con le nostre gambe per non appoggiarci
sugli altri, per non arrivare a dipendervi e finire per far cadere entrambi. Dobbiamo
imparare a conoscere l’altro (e se stessi) e accoglierlo per quello che è. Non possiamo
pretendere di avere del succo di arancia da un pomodoro: accontentiamoci e
soprattutto impariamo a godere del succo di pomodoro. Fuori metafora: ogni
persona può donarci qualcosa di prezioso. Non pretendiamo da lui proprio ciò
che non è in grado di donarci e non pretendiamo che sia la fonte della nostra
felicità: più che la fonte il partner è un alleato, uno strumento prezioso che
ci aiuta (e, ovviamente, che dobbiamo aiutare) per trovare la propria
realizzazione.
Ma tutto ciò prevede una conoscenza e un amore nei confronti di sé
stessi (“Amare il prossimo come se stessi”),
una capacità di stare da soli senza per questo sentirsi isolati, piuttosto
capaci di entrare in dialogo con la nostra interiorità. Essere single, specie
nell’adolescenza, non è una iattura da cui liberarsi il prima possibile, non
significa necessariamente essere degli sfigati, ma persone che imparano a
conoscere i propri desideri e a costruire la propria identità. Quanto tempo
passi dialogando con te stesso? Quanta paura ti causa il silenzio e la
solitudine? I nostri ragazzi sono spaventati da queste situazioni: non stanno
bene con se stessi, hanno paura di confrontarsi con ciò che non conoscono,
riempiono i loro vuoti di musica, di rumori, di immagini, di impegni. Ma chi
non impara a star bene con sé stesso non può star bene con gli altri. “Per stare con qualcuno
bisogna innanzitutto essere qualcuno”,
c’è bisogno “di diventare se
stessi per essere capaci di entrare in relazione con gli altri”[7].
Tutto ciò aiuta ad evitare due situazioni opposte,
entrambe – a mio avviso – nocive: quella di chi attende l’anima gemella,
pretende dal partner la perfezione o che gli assicuri la felicità e finisce per
rimanere in solitudine, insoddisfatto da qualsiasi relazione abbia
eventualmente tentato di vivere. Dalla parte opposta c’è chi invece,
cinicamente, si accontenta del primo che passa (leggi anche in versione
maschile) pur di non rimanere sola e godere di quei pochi momenti di piacere
che l’altro può offrirmi, senza che si sia veramente coinvolti affettivamente.
Ho già accennato a chi, per “risolvere il problema”, opta per relazioni
“libere”, senza vincoli e senza coinvolgimento affettivo, chiarendo subito che
la loro è una “amicizia sessuale”, un ritrovarsi in maniera sporadica od
occasionale, senza che questi incontri influiscano sulla reciproca vita. Anche
questa terza via, a mio parere, non offre risposte al bisogno profondo di
affetto che portiamo iscritto nella nostra vita
[1] T. Radcliffe, Amare
nella libertà, Qiqajon 2007, p.66
[2] R. Cheaib, Il
gioco dell’amore. 10 passi verso la felicità di coppia, Tau, 2016, p.36.
[3] T. Radcliffe, op.cit., p.42
[4] T. Radcliffe, op.cit,
p.26.
[5] Il pensiero va ai terribili crimini del
“femminicidio”, ma anche alla morte in croce di Gesù, ucciso perché ha
continuato ad amare fino alla fine.
[6] C.S.Lewis, I
quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità, JacaBook, 1982, p.153.
[7] T. Hargot, op.cit.